Friday 16 October 2009

Lo zen e l'arte del babysitteraggio

Fermo immagine: un bimbo di quattro mesi se ne sta beato a pancia in su, su un materasso appoggiato sul pavimento del salotto, muove la gambette grassoccie per aria e sorride ignaro al fratello di 3 anni più grande che, salito in piedi sul divano, sta prendendo le misure per inchiodarlo al suolo come in un incontro di wrestling.
Questa scena si svolge sotto gli occhi di altre due persone presenti nella stanza: Noah, il terzo componente della nidiata, che dall’alto dei suoi 2 anni quasi compiuti vorrebbe gettarsi nella mischia, e la babysitter che riesce a immobilizzarla nel tentativo di infilarle una maglietta.

La babysitter sono io. E non ho tempo di pensare prima di agire.
Recupero Ariel in volo prima dello slam down e cerco di spiegargli che Nathan è ancora troppo piccolo per qualsiasi tipo di arte marziale.

Cosa ci fa un bebè da solo su un materasso? Cosa ci fa un materasso in salotto? Dov’è la mamma di tutte e 3 le creature? Cosa c’entro io con tutto questo?
Mentre faccio mente locale, la mamma arriva, tazza di tè fumante in mano, si appoggia allo stipite della porta, sorride alla vista del simpatico quadretto e mi dice, riferendosi al materasso “questo sarà il gioco dell’inverno, non vedi come si divertono?” ...Avessi visto come mi divertivo io, 30 secondi fa…

Avete mai lavorato con i bambini? Che espressione curiosa… i bambini, beati loro, non sono ancora tenuti a lavorare… il problema è che sono svegli almeno 12 ore al giorno e se un adulto viene pagato per passare del tempo con loro è tenuto essenzialmente a preservarne l’incolumità. Perché i bambini sono esseri indifesi che provano particolare attrazione per le missioni suicide.

La situazione che si viene a creare è questa: il datore di lavoro, solitamente il genitore, illustra alla babysitter quali saranno i suoi compiti e, con l’obiettivo di terrorizzarla, comincia a descriverle una serie di scenari agghiaccianti: incidenti domestici e non di cui il bambino è inconsapevole causa e innocente vittima. Se la babysitter risulta difficilmente impressionabile e accetta la sfida, con le congratulazioni dell’ufficio del personale, viene portata alla presenza del boss, aka “il minore”.
Inizia così un gioco perverso in cui il bambino si impegna a portare l’adulto cui è stato affidato sull’orlo dell’esaurimento nervoso mentre la babysitter si rifiuta di credere di essere comandata a bacchetta da una persona che è più nuova della sua t-shirt preferita.
Provate a inseguire un bambino che corre nudo per casa brandendo i suoi vestiti senza potere intimargli l’alt né legarlo al letto. Perché i bambini di oggi, a quanto pare, sono molto più indipendenti di quanto fossimo noi una ventina di anni fa, e non accettano né consigli né tanto meno ordini. Mai. Ci sono giornate in cui Noah, che ha un vocabolario di 15 parole ma sa come farsi capire, riduce la nostra conversazione a una serie infinita di variazioni di “no”. Qualsiasi cosa io dica, lei risponde “no” o “nein”, in un infinita gamma di modulazioni e tonalità che toccano gli ultrasuoni quando è parecchio scocciata dalle mie assillanti richieste…
Ci vuole pazienza, una scorta inesauribile di pazienza.
Perché stare dietro a due bambini, quando sei una persona normodotata che dispone solo di un paio di occhi, un set di orecchie e due mani con pollice opponibile, è un bello sport. Uno sport estremo.
Quanto vorrei avere un telecomando e metterli in pausa, ogni tanto, o, quando si mette proprio male, puntarmelo addosso e spegnermi. Vi faccio un esempio:



Quello della babysitter è il lavoro più difficile che esista, o almeno il più difficile che io abbia provato. Perché, volente o nolente, al tuo boss ti ci affezioni, trasgredendo la regola aurea che, in cambio di relativa tranquillità, impone di non mischiare mai affari e affetti.

Stare con i bambini può essere anche piacevole: se ne avete l’occasione, osservate un bambino giocare… E pensate che anche voi, ai tempi dell’asilo eravate così: sveglissimi, con una mente brillante, un’immaginazione sconfinata e fortissime passioni. Dopo anni di logorio, qualcosa di questo bagaglio è rimasto?

Monday 10 August 2009

Karma is what you make of it


Conoscete il simbolo incorniciato in un cerchio, sulla sinistra dell'immagine? Io questo simbolo me lo sono tatuato. Si chiama nodo infinito, ed è uno degli otto simboli di buon auspicio dell'Ashtamangala, nella tradizione buddista tibetana.
É una rappresentazione grafica del karma, inteso come grande motore regolatore dell'universo: questo intreccio in cui non si riesce a individuare né capo né coda vuole ricordare l'insondabile, insindacabile e ingestibile giustizia su cui la realtà si ricrea in continuazione.
Tutto è strettamente collegato: passato, presente e futuro si determinano e definiscono uno nell'altro, e allo stesso modo ogni azione scaturisce da una causa e porta a una serie di conseguenze.
Io mi porto in giro il karma formato fototessera perchè l'ho sempre ritenuto il mio incrollabile punto di riferimento.

Recentemente però, alla luce di una serie di spiacevoli eventi che hanno coinvolto persone a me vicine, questa fede nell'infallibilità del karma ha cominciato a vacillare. In sintesi, immeritate palate di merda hanno imbrattato i piani di persone che cercavano solo di stare a galla, mentre stronzi decorati pattinano leggiadri sulla strada del successo -lastricata d'oro-.

E a me, ottimista senza speranza e sostenitrice del lieto fine a tutti i costi, questo colpo di coda del karma come lo concepivo io -se sei una bella persona, il mondo ti sorriderà, se cerchi di fare il furbo, prima o poi qualcuno farà il furbo con te- ha instillato numerosi dubbi.

Fino ad ora generosamente ricompensata da quel karma che, in cambio di una vita nei limiti della legalità, mi ha sempre regalato salute e persone fondamentali, mi assale la paura che un giro di vento potrebbe farmi cadere da questa posizione privilegiata. La variabile sfiga, per esempio, che mi dimentico sempre di contemplare.

Per farmi coraggio, mi sono confrontata con l'uomo più zen che conosco che, guarda caso, è anche l'uomo cui mi accompagno.

Ho posto la domanda in questi termini:
“O grande saggio, posto che amici miei già parecchio incasinati hanno ricevuto delle memorabili batoste, devo io serenamente preparami ad accettare il peggio, dato che sono l'unica rimasta illesa dallo tsunami di recenti sfighe?.”
Ed ecco la risposta dell'oracolo, formulata da Piccolo Buddha mentre scolava la pasta:
“In realtà dovresti riconsiderare la tua situazione... apri gli occhi! Hai un contratto in immediata scadenza e zero proposte in campo professionale, hai dimenticato sull'aereo la tua maglia nera salva serata, e quella volta al mese che vai a trovare il tuo ragazzo, sciroppadoti un bel viaggetto da mille chilometri, lui ti lascia lì, come una bolletta chiusa sulla credenza, a aspettarlo per più di un'ora sotto casa, perchè impegnato in un'appassionante sfida di calcetto con i suoi amici... Non mi sembra che ti vada proprio di lusso, in quest'ultimo periodo!.”

Forse ha ragione lui.

Monday 6 July 2009

Peter Pan is back to Neverland


Ci ricorderemo tutti cosa stavamo facendo quando l'abbiamo saputo. È arrivata la notizia e la storia ha trattenuto il respiro fino a quando la voce non è stata verificata.

"Non è possibile!" la reazione immediata. "Non prendermi per il culo!" la reazione ragionata.

Perché la morte di Michael Jackson, la pop star per antonomasia, l'uomo su cui generazioni di chirurghi plastici hanno realizzato l'impossibile, perfezionando la propria tecnica sulla sua pelle, un artista che è sempre vissuto all'ombra del suo personaggio, è un evento che nessuno si era prefigurato, forse nemmeno i giornalisti incaricati di stilare un coccodrillo a cui aggiungere la data di scadenza.
Troppo grande la fama di Jackson per annoverarlo tra gli esseri umani la cui sorte è decisa da leggi naturali.

Michael Jackson è nel DNA di tutti quelli nati tra gli anni '60 e gli anni '90. Nessuno sceglieva di essere fan di Jackson, perché Jackson era la pop culture ed era nell'aria, accessibile e familiare e allo stesso tempo americano come Mc Donald's.

Lo hanno ricordato tutti, dai gestori di una pizzeria di Cagliari ai più eminenti intellettuali. E ancora una volta la sua controversa figura ha spaccato l'opinione pubblica, soprattutto riguardo alle accuse di pedofilia. Accuse, ricordiamo, da cui è stato scagionato, dopo aver ricoperto d'oro sia l'esercito di avvocati che gli ha organizzato la difesa sia, sotto forma di risarcimento, le famiglie che lo accusavamo.

La mia è una visione innocentista: partendo dal presupposto che Jackson fosse completamente asessuato -come pensate avrebbe reagito il nostro Michael trovandosi la Anderson nuda nel letto?- penso che fosse interessato ai bambini perché erano forse gli unici disinteressati al suo denaro.

Non deve essere stato facile essere il bersaglio di feroci invidie. Baciato dal successo e profondamente solo, beneficiario unico di fortune accumulate che non è riuscito né ad amministrare né a godersi.

Perché, oltre che asessuato, a me Michael Jackson è sempre sembrato triste.
La sua morte mi lascia un fondo di amarezza, ma sono quasi contenta che Peter Pan sia riuscito a staccarsi l'ombra da sotto ai piedi per ritornare in volo all'isola che non c'è.

La sua morte toglie un senso a alcune vite che da lui dipendevano direttamente: i suoi sosia, il medico che lo aveva in cura, il truccatore, nonché banchieri, assicuratori e case d'aste, senza dimenticare il manager e l'unico dipendente del Mc Donald's di Neverland, il suo ranch.

Addio, Jacko.
I programmatori delle radio riusciranno a farci odiare i tuoi successi.

Wednesday 24 June 2009

In hairstyling we trust


Se c’è una categoria professionale in cui una donna ripone incondizionata fiducia è quella dei parrucchieri. Una donna si fida del proprio parrucchiere. Ogni donna ha o è alla costante ricerca del parrucchiere di fiducia.
Non del medico, che non ascolta mai la diagnosi che porto insieme ai sintomi, non del commercialista, che mi costa più delle tasse, non del panettiere sotto casa che quella volta mi ha infilato nel sacchetto la rosetta del giorno prima… il parrucchiere è l’unico che non mi tradisce mai. A meno che non sbagli meches.

E qui mi trovo a confessare che sono invece io a tradire, ormai da sei mesi e senza rimorso, quello che, sulla base di un rapporto consolidatosi negli anni, definivo affettuosamente “il mio parrucchiere”.

L’ultima volta che l’ho pagato per i suoi servigi, si è dimenticato di trattarmi come se fossi l’unica donna presente sulla faccia della terra, e la mancanza di queste attenzioni mi ha presentato il suo lavoro sotto una luce diversa.
Ci eravamo accordati su un taglio corto, estivo, wash and go. Lui sforbicia forsennatamente per una decina di minuti e mi riconsegna a me stessa dopo la piega che sembravo Morrisey. E va bene che Morrisey è un’icona gay, e che gli anni ’80 in fatto di stile sono più di moda adesso che vent’anni fa… Ma non mi ci riconoscevo. È bastato lavare i capelli per tornare alla normalità. Così, nonostante la sorpresa iniziale mi sono ritrovata con una testa inoffensiva, quasi bon ton… ma un bon ton noioso, da sciura, non un bon ton malizioso alla Coco Chanel… Mi sono ritrovata con lo stesso taglio di capelli di mia madre.
E mia madre non è Morrisey.

Per me andare dal parrucchiere è una specie di rito di passaggio: mi taglio i capelli quando mo trovo all’inizio di una nuova esperienza. E il fatto che non riesca a farli crescere fino alle spalle, dimostra che vivo in un clima di ciclica instabilità. Cambio vita, cambio posto, cambio strada, cambio lavoro, cambio ragazzo e cambio taglio di capelli, così ogni volta che mi incrocio nello specchio ricordo a me stessa che ho voltato pagina e mi ritrovo con una nuova pagina bianca tutta da riempire.

Io sono la cliente che qualsiasi parrucchiere vorrebbe: sono curiosa e mi piace lasciare fare a chi conosce il mestiere senza prefigurarmi il risultato, esigo ispirazione -anche a scapito della tecnica-, l’acqua dello shampoo va sempre bene e basta mettermi le mani in testa per azzerare ogni mia difesa personale. In più la situazione di partenza è solitamente disperata e risulta più facile compiere il miracolo di ridare una forma ai capelli.
Contento tu, che hai fatto un bel taglio, contenta io, che sicuramente sono più a posto di prima. Ed è questa botta di autostima reciproca crea complicità e cementa il rapporto.

I parrucchieri hanno una tattica: nel lavarmi i capelli mi fanno anche il lavaggio del cervello. E io mi ritrovo a dire di sì a ogni loro proposta. È più forte di me. Settimana scorsa, ad esempio, mi sono presentata come modella a una lezione di taglio alla Tony & Guy academy, nota scuola di parrucchieri di Milano. Quando i professori riuniti in commissione mi hanno chiesto che taglio volessi, credo di aver azzeccato la risposta perché nel pronunciare la parola “caschetto” ho visto i loro sguardi illuminarsi. E quando Leon, il colorista, mi ha implorato di fermarmi un’ora extra perché voleva fortemente completare il discorso taglio con un colore adeguato ho fatto carte false in ufficio perché non avrei sopportato la sua delusione in seguito a un mio rifiuto.

Sono stata sequestrata per l’intera mattinata da un commando di parrucchieri gay che mi hanno rilasciata solo dopo aver svolto con precisione le consuete operazioni di shampoo, taglio, colore e piega. Mi hanno regalato un caschetto grafico, leggermente asimmetrico, in tonalità castano mirtillo. Gratis. E alla fine loro erano più contenti di me! Come si fa a non amarli?

Wednesday 10 June 2009

Alta fedeltà


Ma voi li comprate ancora i dischi?
Io sì, ma mi piace andare sul sicuro: compro solo dischi che conosco e quando li trovo usati. Mi piace l’idea di dare una seconda possibilità a un disco che non è piaciuto al suo primo proprietario. Mi perderò l’emozione della lotta contro l’inespugnabile pellicola che imprigiona un disco nuovo, nella fregola di sfogliare il libretto, ma almeno mi risparmio il dispiacere nella scoprire il primo graffio sulla custodia.

Per chi ha sempre consumato musica, la collezione di cd diventa una sorta di archivio, la memoria storica di una vita. E il fatto di poter prendere da uno scaffale il supporto su cui sono incise quelle canzoni e stringerlo fra le mani crea l’illusione di possedere i ricordi, di mantenere un legame con il proprio passato.
Il legame affettivo che si stabilisce con quei pezzetti rotondi di plastica spingerebbe un qualsiasi appassionato di musica a impegnare la propria mamma nella sfortunata eventualità di trovarsi a scegliere tra lei e i propri dischi.
E questo legame è talmente forte che non si riesce a fare piazza pulita nemmeno degli scheletri nell’armadio, i cd comprati in adolescenza, i cosiddetti errori di gioventù. Il discomane sa di aver comprato dei dischi brutti, che non ascolterà mai più, ma la loro presenza (anche se è una presenza che aleggia perché le prove fisiche vengono strategicamente nascoste) funge da costante monito: si impara sempre dai propri errori e crescendo si scopre che quella musica scadente è diventata metro di giudizio nello stabilire cosa valga la pena ascoltare.

Il mio ultimo raid al Libraccio mi ha fruttato due dischi dei Death Cab For Cutie, il penultimo album e una raccolta di outtakes. In questo caso ho evaso la regola aurea di comprare solo dischi che conosco perché mi sono innamorata della cover della raccolta: una maxi-diapositiva della città di Bellingham, WA; la foto di una strada del centro e dei palazzi circostanti scattata negli anni ’70 quando, come scrivono i nostri nel booklet, “Cars looked way cooler than they do now”.
Perché questo è l’elemento che sempre farà vincere al cd il match contro la musica digitale: l’intero progetto grafico, il packaging, il libretto con i testi –illeggibili-, le dediche e la lista dei ringraziamenti…

Quest’ultima spedizione si è rivelata particolarmente fruttuosa, soprattutto perché seguiva 3 o 4 tentativi di acquisto falliti, che mi hanno vista uscire dal negozio a mani vuote, dopo aver fatto passare tutti gli artisti, dagli Abba a ZZtop.
E il problema non è che io sia particolarmente selettiva… è che trovavo sempre gli stessi dischi.

Fateci caso: si potrebbe fare l’inventario di un qualsiasi negozio di dischi usati, dividendo i dischi in 3 grandi categorie.

* Dischi riusciti
Dischi che hanno venduto tantissimo, dischi che tutti hanno comprato.
Lo so che in cameretta avete tutti la copia originale di Nevermind, di Californication o di Dookie… Sono bei dischi, pluriplatinati, e ormai non hanno più mercato.

* Dischi dimenticabili

Opere prime –e solitamente uniche- di sconosciute band new metal/post grunge/emo core/alt country di cui non si sentiva il bisogno, consegnate ancora incellofanate dallo spocchioso giornalista musicale che si cerca il primo negozio di dischi usati all’uscita della conferenza stampa di presentazione della band.

* Dischi di Michael Bolton
L’intera discografia di Michael Bolton è lì, da lustri, a prendere polvere, e se riccioli d’oro continua a sorridermi così da tutte le copertine va a finire che un giorno mi intenerisco e lo porto a casa con me.

Potrebbe essere un segno... C'è qualcosa che vuoi dirmi, Michael?
Se ogni momento significativo ha una sua colonna sonora, e se è vero che i momenti topici di una vita si contano sulle dita delle mani, allora forse nella mia personalissima compilation c’è posto anche per un pezzo di Bolton?

Friday 22 May 2009

La fabbrica dei sogni

Avete visto Be kind, rewind?
È un film che è passato totalmente inosservato l'anno scorso incassando una misera al botteghino e generosi sbadigli dai critici.

È un filmetto, leggero, spensieratamente naif, quasi una favola. E a me è piaciuto proprio per questo: perché penso si possa fare del buon cinema anche senza piegarsi alla logica dell'impegno a tutti i costi. Il cinema è evasione, o almeno nasce come tale. Peccato che il confine tra evasione e vuoto pneumatico sia sottile come quello fra comico e ridicolo.

Il deus ex machina di questo film è quel Michel Gondry che già ci aveva regalato un paio di film che sarebbero piaciuti a Freud oltre che una selezione di videolclip tanto innovativi da ridefinire l'intero genere. Gondry che come tutti gli artisti con uno stile immediatamente riconoscibile suscita emaptia e indifferenza immediate, senza vie di mezzo. Io lo amo, soprattutto perché è l'unico francese che non si prende troppo sul serio.

Lo spunto su cui si siluppa la sceneggiatura è questo: un commesso che si trova a gestire la videoteca in cui lavora si accorge che il suo amico ha che è stato esposto alle radiazioni ha accidentalmente smagnetizzato tutte le videocassette. Per rimediare al danno prima che torni il proprietario, i due decidono di registrare sulle videocassette rovinate dei remake casalinghi dei film andati perduti. Il risultato è esilarante: i due, con l'aiuto di amici che si prestano a fare le comparse e Giovanni Muciaccia che si occupa di scenografia e costumi,si trovano a rigirare delle versioni sgangherate dei blockbuster, senza distinzione di genere.

Questo è il trailer ufficiale



E questo è il trailer abilmente taroccato. Pure genius!



Be kind, rewind è un film piccolo ma ambizioso, perchè è un film sul cinema e sulla magia che crea; mi affascina il gioco di scatole cinesi su cui si costruisce: già fare un film significa prendere un pezzetto della realtà e incasellarlo, a fare un film con dentro altri film per dare allo spettatore la possibilità di vedere cosa succede dietro a un film quando viene girato, si corre il rischio di fare confusione.

Mi trovo perfettamente d'accordo con quello che ha scritto uno spettatore attento, che altro non è che un critico senza la puzza sotto il naso:

La settima arte, viene rappresentata con affetto e con rispetto, da un regista che ha fatto del sogno e della fantasia la sua ragion d'essere, è quindi con tanta delicatezza e tanta poesia che ci si avvicina a classici più o meno indimenticabili, è con il groppo in gola che si assiste ala magia, al miracolo. Questo è il cinema, sembra dirci il regista, non dimentichiamolo, non servono i miliardi, ma basta una telecamera e la passione, non servono i supporti tecnologici, basta la fantasia e qualche vecchia vhs.


perche “A volte i film migliori sono quelli che inventiamo

Saturday 9 May 2009

Being Karen O


Io c'ero. A contendermi spazio vitale sotto il palco con decine di suoi cloni sgomitanti.
"Perché queste vengono al concerto vestite come lei?" commenta una voce dal pubblico.
Brillante osservazione, che condivido. Avevo notato un'altissima percentuale di caschetti corvini, labbra carminio, calze leopardate e miniabiti in lycra fluorescente.
Che poi è l’uniforme di chi ai Magazzini ci viene per ballare.

Grandi gli sforzi profusi, soprattutto nella scelta degli accessori, per un risultato che non si dimostra però all'altezza delle aspettative: sulla passerella sfilano le infinite variazioni, dalla pallida imitazione alla macchietta, di quella che è la summa incontrastata del vivere alternativo.

Perché lei è Karen O. Ed è sexy anche se si infila in un sacco nero della spazzatura. Ci fa un buco per la testa, due buchi per le braccia, ci spolvera borchie e strass e riesce a rendere il sacco pure trendy.

D'altronde Karen O si divide tra Hollywood e il Lower East Side mentre le sue estimatrici meneghine hanno svoltato trasferendosi da Rozzano a Corso Como...
Come reggere il paragone?
Perché tutto a Milano è così provinciale? Fastidio... (sono sicura che Carla Sozzani sarebbe d'accordo con me).

Per voi, talentuose ragazze alla conquista dei massimi riconoscimenti per una donna che fa musica, la home page di Pitchfork e la copertina di Vogue, ho compilato una piccola lista di suggerimenti, prendendo a modello proprio la frontwoman dei glitteratissimi Yeah Yeah Yeahs.

Come diventare Karen O in 7 mosse:

1) Aiuta molto se sei una bellezza anticonvenzionale: occhio a mandorla su fisico androgino è la combinazione perfetta. Se la natura non ti ha donato queste caratteristiche concentrati sul look, che deve essere sofisticato, sfrontato, assolutamente unico: un’apparente ma studiatissima accozzaglia di stracci.
Attenzione però a non esagerare… l’effetto Loredana Bertè è sempre in agguato.

2) Osa un taglio di capelli che farebbe assomigliare qualsiasi altra donna a una maestra elementare e fallo diventare un marchio di fabbrica.
Basta chiedere al tuo parrucchiere di fiducia di glassarti di complimenti.
Dopo un paio di sedute ti sembrerà che quel taglio ti piaccia veramente.

3) Una volta perfezionato il look, la musica passa in secondo piano.
Sali comunque sul palco, circondati di musicisti scheletrici vestiti come i manichini nelle vetrine di Urban Outfitters, salta, agitati e urla nel microfono.
Devi crederci davvero se vuoi far credere agli altri che sei una rockstar.

4) Gioca sull'ambiguità sessuale. Etero, gay, bisex… sono solo etichette.
A te piacciono tutti quelli che hanno la tua stessa carica sensuale.
Assicurati la dedizione del tuoi sostenitori gay. Se ti eleggeranno loro icona ti sarai conquistata l’unica fetta di pubblico che ti resterà nei secoli fedele. Madonna docet.

5) Accompagnati a un rappresentante di una qualsiasi categoria di "giovane creativo".
Perfetto se è fotografo o videomaker, così può immortalare le feste in cui tu e i tuoi amici –la stylist, il wedding planner, il dog sitter, lo sciamano e la copy- vi travestite da famiglia Addams e giocate a twister. Sbronzi di cristal, of course!

6) Parola d’ordine: spiazzare. Alterna i graffi alle carezze e, quando canti, passa dai sussurri alle grida. Sei una tenera bambina indifesa e sei anche la mantide religiosa. Tormentata e danzereccia. Femminile anche quando sputi birra (e immagina cosa succederà quando imparerai a incendiarti le scoregge sul palco).
Sei una personalità poliedrica, che qualcuno potrebbe definire schizoide.Ma non prendertela, in fondo è il tuo punto di forza. O no?

7) Sorridi. Sempre. Non hai motivo per non farlo. Sei l’irraggiungibile dea del alt-rock, adorata da stilisti, parrucchieri e giornalisti che recensiscono solo band dai nomi impronunciabili.
E ti pagano per fare la cosa che ti piace di più al mondo. Meglio che andare in miniera. O no?

Wednesday 29 April 2009

Signora mia!

Ve l'ho detto che ho fatto gli anni? Come sarebbe a dire "di nuovo"? Li faccio una volta all'anno, come tutti voi.

La novità è che, per la prima volta da quando ho smesso di invitare i miei compagni di classe a casa il sabato pomeriggio a sfondarci di coca cola e patatine, ho festeggiato il mio compleanno.
È stata una giornata speciale, e ho ricevuto talmente tanti auguri che ci ho fatto l’abitudine e il giorno dopo ne ho sentito la mancanza.

Ho giocato a fare la birthday girl, circondandomi di amici che mi hanno riempito di regali in cambio di free drink (scambio equo, in fondo si tratta del mio compleanno).
Ho fatto di tutto per allontanare la tentazione di fare il punto della situazione, di tirare le somme e per evitare di ritrovarmi sola a riflettere sulla caducità del tempo. Ma non è servito: appena la sveglia ha spalancato le porte sul mio secondo giorno da ventisettenne sono piombata in una pericolosa depressione post-compleanno.

Non riuscivo a tener ferme le domande che mi affollavano la testa: chi sono? Cosa sto facendo? Dove andrò? Cosa voglio? Cosa spero? Come mi vesto domani? Cosa mangio stasera?

Ci ho messo una settimana, e ci sono dovute dosi massicce di iPod per coprire tutti questi inconcludenti dubbi esistenziali con il patinatissimo nuovo disco degli Yeah Yeah Yeahs.
You’re a Zero-oh. What’s your name. No one’s gonna ask you, better find out where they want you to go-oh”.
Grazie a Karen O sono di nuovo frivola e contenta. E ho deciso che da grande voglio fare la rockstar.

Pensando all’età che avanza ho realizzato che in me c’è uno scarto tra l’età anagrafica, in caduta libera verso i 30, e la maturità che dovrei aver acquisito negli anni e di cui invece sono sprovvista. La maturità è un optional?
Mi sento come in quei film in cui i protagonisti si scambiano il corpo, il figlio entra nel corpo del padre e viceversa. E i due così ricollocati si trovano a scambiarsi anche le vite.
Devo assolutamente trovare la Claudia adolescente straordinariamente posata e riflessiva e chiederle indietro l’involucro, che non è molto diverso da quello in cui giro di questi tempi, ma richiede comunque meno manutenzione (10 anni fa non facevo l’appello dei capelli bianchi tutte le mattine).

Fosse per me, continuerei a comportarmi come la supergiovane che penso di essere.
Il problema è che gli altri, ingannati dall’involucro esterno, non mi vedono più tanto giovane e inavvertitamente me lo fanno notare. Ne ho avuto conferma proprio il mese scorso, quando, se vogliamo fare i pignoli, avevo ancora 26 anni.

Vado al concerto dei Franz Ferdinand. Arrivo al Palasharp senza biglietto. Se fossi stata davvero giovane, avrei provato a scavalcare, la scaltrezza datami dall’età mi ha invece calamitato al primo capannello di bagarini. Mi metto a osservare un bagarino napoletano –di quelli d.o.c.- che cerca di intortare un gruppo di ragazzini con lo zainetto. Non faccio nemmeno in tempo a capire cosa sta succedendo che vengo coinvolta nella trattativa: “compri? Vendi? Quanti ne hai? Quanti ne vuoi? Io rilancio, da consumata frequentatrice di bische: “a quanto me lo lasci?” e il bagarino: “al prezzo del concerto”. Faccio retromarcia, e ci piazzo anche la giustificazione ideologica: “allora a questo punto vado a comprarlo in biglietteria.” Mi avvio a passo deciso sulla strada della legalità, il bagarino mi insegue per una decina di metri con l’ultima offerta, poi mi manda elegantemente a cagare e ritorna sui suoi passi.

Ma appena mi metto in fila al botteghino mi accorgo che dal gruppo di ragazzetti con il biglietto da piazzare se ne stacca uno e viene verso di me. Mi raggiunge e mi fa: “Signora, se vuole glielo vendo io il biglietto!”.
L’istinto vacilla: vorrei ringraziarlo e insieme sputargli in un occhio. Invece resto lì. Impiantata nell’asfalto con la mascella crollata dallo stupore: Signoooora? A me? Ma mi hai visto?
È vero che tu vai ancora alle superiori, e tra noi ci sono 10 anni di differenza, ma mi trovi in jeans e All Stars fuori dal concerto dei Franz Ferdinand… Ti sarai pure accorto che faccio di tutto per sembrare giovane, non vanificare così i miei sforzi! Però ti assolvo, dai, che mi hai fatto un prezzaccio e sei stato tanto cariiiinoooo.

Vi farà piacere sapere che al concerto non ho avuto dubbi se rimanere sugli spalti o gettarmi sotto il palco, dove, lottando per la sopravvivenza, ho saltellato e canticchiato tutta sera. Perché Claudia, quando è frivola e contenta, canta a squarciagola “it’s always better on holyday, so much better on holyday, that’s why we only work when--- we need the money”

Monday 27 April 2009

God save youtube

Stamattina, dopo l'ottavo snooze abortito, brancolando nel buio nel tentativo di raggiungere la finestra, ho lasciato un piede sulle doghe del letto. Non chiedetemi come ho fatto, sono incredibilmente creativa quando si tratta di incidenti domestici.
Zoppicando mentre ancora insultavo il mio futon, tanto bello quanto scomodo (come le scarpe col tacco), ho misurato la stanza fino alla finestra e alzato con cautela la tapparella, tenendo gli occhi chiusi per abituarmi gradualmente alla luce. Luce che fuori, nonostante l'alba fosse passata da un pezzo, non c'era. Non tanta, almeno, e corredata da cielo di ghisa, pioggia e vento gelido.
Ma non era arrivata la primavera?
E non è più una questione di mezze stagioni: a Milano è inverno da 6 mesi ormai…

Serrande alzate su una nuova giornata di merda. Morale ai minimi storici.

Restando in uno stato di dormiveglia, mi sono trascinata fino in ufficio. Seguendo gli automatismi tipici di chi occupa una scrivania in un open space ho sceso un caffè dalla macchinetta, acceso il computer e fatto il primo giro su internet.

E poi l’imprevedibile e labirintica catena di link della mia rassegna stampa mi ha portato qui. E il mio lunedì ha svoltato.



E dato che youtube spinge all'emulazione e gioca al rilancio, questa perla di idiozia non è rimasta sola, ma è stata infilata a formare la lunga collana degli esperimenti più o meno riusciti dei moltissimi che si sono cimentati sull'argomento Sitar Hero.
Vi lascio con quello che per me è il capolavoro. Un po' spy story, un po' documentario, un po' melodramma...

Tuesday 21 April 2009

Paura e delirio alle poste

In ufficio è diventata ormai slogan questa battuta -che battuta non voleva essere- del nostro amato Valerio, redattore specializzato nella caccia all'ospite impossibile e distributore automatico di pillole di saggezza. Un specie di Buddha a gettoni. Ma più magro.

Open space, un giorno come altri, 7 di sera passate...

Valerio: Marco, ma dove vai!!?
Marco: a casa...
Valerio: NO ,TU NON STAI ANDANDO VIA, TU TI STAI ARRENDENDO!

Ecco, a me è capitato di provare la stessa sensazione di resa incondizionata settimana scorsa, durante la mia ultima incursione alle poste. La mia resistenza è durata 20 minuti, prima di abbandonare il campo, battendo in ritirata.

Chiamatemi tradizionalista, ma quando devo spedire una lettera, io vado ancora in posta. Mi presento quindi all'ufficio, busta in mano, e soldi contati per il francobollo. Forse sono vintage perché sono rimasta l'unica che scrive le lettere?

Mi si para davanti il totem distributore di numeri, che non serve per le estrazioni del lotto ma è una versione upgrade di quell oggetto rosso e rotondo che si trova ancora al banco del salumiere. Dopo attento esame, schiaccio il bottone delle spedizioni: numero fortunato, 22; numero che splende come un'aureola sulla testa dell'impiegato specializzato in spedizioni, 19.
Non c'è male, penso, in fondo ho davanti solo due persone.

Mai moto di ottimismo fu più fuori luogo. Scopro molto presto infatti che i due numeri che mi precedono sono
  • una segretaria corredata da 15 raccomandate con ricevuta di ritorno, che si mette a compilare diligentemente a mano in bella grafia una per una.
  • una coppia sudamericana probabilmente prossima al trasloco, impegnata a scrivere freneticamente indirizzi su un numero indefinito di scatoloni che continuano a comparire.
Comincio a sudare freddo. Mi guardo in giro in cerca di solidarietà: nessuno sembra cogliere la mia richiesta di aiuto.
E lì vengo colta da un'illuminazione: è un vizio di forma dire che in posta ci vanno solo gli anziani a ritirare le pensioni... Non tutti quelli che si trovano alle poste infatti erano già anziani quando sono entrati: un buon numero di simil-pensionati sono gli irriducibili che hanno deciso di aspettare il proprio turno e sono invecchiati lì, a prendere polvere come le collezioni di francobolli destinate ai filatelici.

A un certo punto, la fila davanti all'impiegata che si occupa di bollettini si esaurisce. L'impiegata, visibilmente nel panico, comincia a snocciolare numeri non ancora assegnati a persone. Per aiutarla, e per aiutarmi, mi avvicino e le dico: "guardi, io dovrei solo spedire una lettera, non è che posso chiedere a lei?". Lucida la risposta: "Ma io non ho i francobolli! Deve mettersi in fila per le spedizioni". Di fronte a tanta determinata ostinazione, non ho il coraggio di replicare: "se lei alzasse il suo grosso culo dallo sgabellino e si spostasse 2 metri alla sua sinistra, un francobollo riuscirebbe pure a recuperarlo, dalla scrivania del suo collega", ma saluto educatamente, giro i tacchi e mi allontano, con la busta ancora in mano, ma sollevata all'idea di non dover raggiungere l'età della pensione nel tentativo di spedirla.

Proverò con un piccione viaggiatore. O con una email.

Tuesday 7 April 2009

MK, OK


… Se c’è mistero, accetta e rispetta la non-novità

Sono stata al concerto dei Marlene Kuntz. L’ennesimo.
Non ci sono capitata, ci sono cascata di nuovo.
In piena regressione adolescenziale, sentivo il bisogno di una dose massiccia di canzoni struggenti. Che non mi sono state regalate.

Non aspettatevi ora che vi faccia la recensione… Non sono brava a parlare di musica, dopo anni di esercizio sto imparando solo ora ad ascoltarla.
E poi scrivere di musica è come danzare d’architettura, diceva uno famoso, sicuramente un architetto chiamato a giustificare l'assurdità dei suoi progetti…

In due righe, sono uscita soddisfatta anche se ho notato un tentativo di riprendere per il colletto tutti quei fan che durante l’ultima tournee si erano persi un paio di bis perché avevano ceduto al sonno sulle comode poltroncine del teatro.

Questo il patto tra i Marlene e i suoi fan: nemmeno tacito, come patto, anzi messo a chiare lettere sul sito. Venite a sentirci e vi suoneremo tutti quei pezzi che infilavate nelle mixtape per il vostro amore delle superiori. Vi ricordate? Portavate ancora le maniche corte sopra le maniche lunghe, odiavate tutto e tutti, e un pomeriggio vi eravate sorpresi a limonare con la vostra compagna di banco tra una versione e un integrale.
E il giorno seguente l'avevate perso cercando i pezzi per farle una compilation.

Ecco perché, dopo un ingresso duro, con una canzone che parla di uxoricidio e una di suicidio, i nostri rocker incamiciati ci piazzano un medley di 10 minuti in cui snocciolano Festa mesta, Sonica e Nuotando nell’aria.
Bello. Fin troppo partecipato però... sembrava di stare da Vasco a San Siro.

Ad ammazzare la poesia ci pensa un tizio dietro di me… mentre Godano sussurra “nel letto aspetto ogni giorno un pezzo di te” quello fa: “lo so io che pezzo aspetta… figa!”.

Non ho ancora capito se con questo voleva dimostrare di aver colto la sottile metafora o se la sua era una semplice esclamazione. Non dimentichiamo che il concerto l’ho visto a Brescia, dove figa è la parola più usata dopo tondino.

Friday 20 March 2009

Grazie Faber

Se non l’avete ancora fatto, andate a Genova. Basta un giorno.

Mangiate la focaccia, fate ciao ciao ai delfini da dietro i vetri dell’acquario, passate davanti alla casa di Cristoforo Colombo e andate a Palazzo Ducale a vedere la mostra dedicata a Fabrizio De Andrè.

Una mostra che, grazie a una serie di installazioni interattive, non solo si guarda, ma si ascolta e si allestisce su misura. Ogni visitatore è infatti portato a costruirsi il proprio percorso, passando liberamente da una sala all’altra, fermandosi a curiosare nella vita, nella musica e nella poetica del cantautore.

De Andrè si mostra non solo come artista ma soprattutto come uomo, attraverso le testimonianze dirette delle persone della sua vita e i racconti dei personaggi creati dalla sua immaginazione.

Non importa quanto o quanto poco conosciate De Andrè… questa mostra racconta la storia di un uomo che ha trovato il suo posto nel mondo e che ha avuto il coraggio di restarci.

Fabrizio era un sognatore. E ha insegnato a tanta gente a sognare a occhi aperti.

“Ho sempre pensato che la musica debba avere un contenuto, un significato catartico: tutti gli sciamani, gli stregoni di tutti i popoli, che ben conosciamo, usavano il canto come medicina. Credo che la musica debba essere balsamo, riposo, rilassamento, liberazione, catarsi. Più semplicemente la musica, il canto, sono espressione dei propri sentimenti, della propria gioia, del proprio dolore. A volte addirittura un tentativo di autoanalisi e, analizzando te stesso, offri un via agli altri per analizzare se stessi.”


“Le canzoni quindi servono a formare una coscienza. Sono una piccola goccia dove servirebbero secchi d’acqua. Cantare, credo che sia un ultimo grido di libertà. Forse il più serio. Scrivere canzoni sta diventando una responsabilità sociale, ma se ne sono accorti in pochi. Esse entrano a far parte del patrimonio culturale di un popolo, sono parte della coscienza.”

“Sentii fin da subito che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l’ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste e l’illusione di poter partecipare, in qualche modo, a un cambiamento del mondo. Quest ultima si è sbriciolata presto, la prima, invece, rimane.”

Metafisica del blog

Continuiamo a parlarci addosso...

Dato che il mio livello di permalosità supera un buon 7 su 10, fare autocritica non è che mi venga così naturale.
Ma stavolta ce n’è davvero bisogno: devo riconoscere che il mio blog non funziona.
E il motivo è uno solo: il mio blog è noioso.

I post sono lunghissimi e prolissi, scritti fitti fitti e senza nemmeno una figura.
Non ci sono collegamenti ipertestuali (perché non sono capace di metterli), non ci sono video caricati (perché se ne vale la pena li hanno già stravisti tutti su youtube), non cè un player di musica. Ci sono solo righe e righe da scrollare. E in internet, dove tutto viene consumato nell’immediato, è troppo ambizioso pretendere che chiunque, anche gente che mi conosce, si fermi più di 2 minuti sulla mia pagina.

Ricominciando a frequentare l’universo dei blogger, mi sono accorta che i blog rientrano in 3 grandi categorie:

• Blog che, consapevoli di essere on-line, parlano di internet e di tecnologia, sfruttando a pieno tutto quello che la rete offre in termini di intertestualità
• Blog di stampo giornalistico, una specie di testata personalizzata in cui il blogger fa una personale selezione di notizie che ritiene interessanti e le commenta liberamente.
• Blog dalle ambizioni letterarie, che si leggono volentieri perché sono scritti bene, come un buon romanzo a puntate.

E poi c’è il mio blog… che è fermo al modello 1.0 per immobilismo, non affronta temi di scottante attualità, è scritto in italiano corretto, ma senza una prosa che ti tiene incollato paragrafo dopo paragrafo e che io uso –male- solo per mettere in vetrina i fatti miei.
Una versione extended della mia bacheca di Facebook. Ce n’era davvero bisogno?

Passando dalla metafisica alla psicologia, io lo so perchè ai miei pseudo-blog mi ci affeziono… perché mi danno l’impressione di mettere un po’ d’ordine tra tutto quello che transita, spesso senza fermarsi, nella mia testa. Vivo l’illusione che fermando delle riflessioni anche se in forma di bytes in uno spazio virtuale, io possa trasformare il pensiero in azione, e di conseguenza in esperienza.

Verba volant, post manent.

Wednesday 11 March 2009

Low cost fares, high price extras

C’era una volta la Ryanair.

Erano tempi non sospetti per i tursti-fai-da-te (no Alpitour!) che grazie al passaparola rivelavano al mondo l’esistenza delle compagnie low cost.

Ryaniar era la parola d’ordine per pochi giovani avventurosi, gente nata con lo zaino sulle spalle, la stessa gente che passava l’estate sui treni di tutta Europa con un biglietto dell’interrail.

E in realtà un pizzico d’avventura c’era davvero quando il pilota improvvisava quello che sembrava un atterraggio di fortuna in un campo dove le piste le disegnavano i trattori e un container faceva la parte dell’aeroporto.

E lì scattava, liberatorio, l’applauso. Perché se ho pagato il biglietto 20 euro andata e ritorno, come minimo l’autista (pardon, il pilota, lapsus!) è ancora in stage!
Ora invece, appena l’aereo tocca terra, lo steward incaricato fa squillare una ridicola fanfara sintetizzata cui segue l’annuncio che, una volta ancora, i passeggeri sono stati scaricati -in the middle of the fucking nowhere, d’accordo- ma perfettamente in orario.

A Ryanè, come dicono a Roma, mò te stai a allargà!

Va bene, vuoi atteggiarti a compagnia di bandiera, ti senti cresciuta, vuoi emanciparti… il problema è che la gente che lavora per te è rimasta una manica di cialtroni.

L’anno scorso, al ritorno da Londra, uno steward mi sveglia dalla pennica attaccandosi all’altoparlante per fare il seguente annuncio: “Si ricorda ai signori passeggeri che su questo volo è vietato fumare. Pertanto, chi verrà scoperto a fumare nei bagni, verrà gentilmente invitato a allontanarsi dall’aeromobile”.
Una battuta! Era una battuta! Scusa lo sconcerto iniziale, mister brillantone, ma dovrei lasciare a te la responsabilità di srotolare il grande scivolo gonfiabile giallo quando ci toccherà ammarare nell’oceano?

Ora che hai ottenuto l’attenzione del tuo pubblico con un improvvisato cabaret, perché non tieni il microfono acceso e inviti i passeggeri a raccontare una barzelletta?
Tanto con voi sembra sempre di stare in gita scolastica… non manca l’assalto per aggiudicarsi i posti migliori, come la fila da cinque sedili in fondo al pullman.
Cosa che non succedeva a scuola, dove non potevi corrompere l’autista, questi posti migliori te li puoi aggiudicare pagando un piccolo extra per il priority boarding.

Perché se è vero che le tariffe delle offerte restano basse, paragonate per esempio al prezzo della stessa tratta in treno, è cambiato l’atteggiamento con cui questo vantaggio viene offerto: prima c’era una sorta di complicità tra la compagnia e il cliente, che accettava di viaggiare meno comodo a un prezzo contenuto, adesso invece è come se la compagnia lanciasse una sfida al cliente: vediamo a che prezzo riesci a strappare questo biglietto..

E bisogna avere i nervi saldi per superare le 3 pagine di questionario in cui si è trasformato il form da compilare per acquistare il biglietto.

Hai bagagli da mettere in stiva? No, ho solo un trolley, sto via 2 giorni.
Il suo bagaglio a mano rispetta le dimensioni standard di 55 cm x 40cm x20cm? Sì, credo. io posso viaggiare se non rispetto le misure 90-60-90?
E pesa meno di 10 kilogrammi? 10 e mezzo, in realtà. Lascio?
Deve trasportare attrezzature per neonati? No.
… E neonati? Eh?
Ha attrezzature sportive o musicali da caricare? No.
Le ricordiamo che può comodamente trasportare in cabina la sua chitarra, se provvista di regolare biglietto. Le consigliamo di occupare due sedili attigui così può aiutare la sua chitarra a allacciare la cintura di sicurezza.
Vuole acquistare il priority boarding così da essere sicuro di riuscire a sedersi a fianco della sua chitarra? No grazie, non ce l'ho la chitarra!
Vuole acquistare il biglietto pagando con la carta di credito? Sono on-line, come faccio? metto una banconota da 50 euro nella porta USB del computer?
Allora acquista la possibilità di pagare con la carta di credito. Beh, sì, se la mettiamo così…
Vuole acquistare l’assicurazione ? Guardi, lasci stare, non mi interessa.
È sicuro di non voler acquistare uno straccio di assicurazione? In fondo sta per volare Ryanair… Per favore, mi dia questo biglietto!

Non si può abbassare la guardia nemmeno una volta saliti a bordo. Bisogna seguire l’esempio di Ulisse, che si era fatto legare all’albero della nave per resistere al canto delle sirene e legarsi le mani nella cintura di sicurezza per resistere al richiamo delle hostess e mettere continuamente mano al portafogli

La tattica è semplice ed è un’arma squisitamente femminile: si cerca di prendere il malcapitato per sfinimento: in un volo di un’ora ci sono due hostess che fanno la ronda, percorrendo il corridoio almeno 6 volte avanti e indietro, offrendo ai passeggeri qualsiasi cosa possa stuzzicare qualsiasi appetito.

Interessa un giornale? È gratis? La consultazione, certo.
Gradisce caffè, tè, panino, bibita, dolcetto, scherzetto, frizzi lazzi e cotillon?
Vuole acquistare un peluche a forma di aero della Ryanair?
… Un profumo, un anticellulite a infrarossi, un pianoforte a coda? E questi li chiamate souvenir?
"Don’t miss your chance to become a millionare!" Ha sentito? Ci siamo inventati anche il gratta e vinci. Interessa? Può vincere un altro viaggio Ryanair! Cos’è? Uno scherzo?

Non mi stupirei affatto se le hostess provassero a piazzare anche la propria nonna o questo depliant

"vostro da leggere per solo 2 sterline e 50".

"In caso di depressurizzazione, inserire una moneta da una sterlina nella fessura per liberare la maschera per l'ossigeno. Fissate la vostra maschera ma non aiutate gli altri passeggeri. Devono pagarsela da soli."

"Se l'aereo deve atterrare in emergenza, inserite la vostra carta di credito nell'apposito lettore. Una volta completata la transazione, uscite dall'aereo. Un membro dell'equipaggio sarà a vostra disposizione per ricevere il pagamento della vostra tassa di sbarco d'emergenza di 25 sterline."

Sunday 8 March 2009

Sindrome da abbandono

Appuntamento con un’amica in ticinese. Amica che non vedo da troppo tempo: quando ci siamo conosciute ci siamo viste praticamente tutti i giorni per quasi un anno e poi ne abbiamo lasciati passare altri due senza più riuscire a incontrarci. Come è possibile? È quello che mi chiedo anch’io: prima eravamo lontane e adesso che la distanza fra noi si è ridotta siamo troppo impegnate, o almeno così pare. Che la distanza fisica sia inversamente proporzionale alla distanza tra due anime?

Che fatica. I rapporti umani sono fragili, e a rischio di estinzione.
Non ci siamo più parlate da quando ci siamo salutate l’ultima volta. Nemmeno per telefono. Qualche messaggio ogni tanto, programmando di vederci “il prima possibile”. Cosa significa?
Eppure è una persona che conosco bene, con cui ho condiviso tanto, una persona che non esito a definire una mia amica. Amica immaginaria?

Fra l’altro, si telefonava meglio quando si telefonava peggio.
Ci avete mai pensato? Cosa succederebbe alla comunicazione se si eliminassero i cellulari, e tutti i dispositivi di messaggistica istantanea?
Il veicolo era meno versatile forse; prima del cambio di millennio quando si usciva il telefono rimaneva a casa, ben attaccato al suo filo, ma il suo uso era ben definito: una volta per telefono ci si parlava, ricordate?
E niente può sostituire la telefonata che arriva nel cuore della notte, da una persona che si è sorpresa a pensarti e che vuole dirtelo.

Ho divagato. Mi capita sempre più spesso, da quando mi sono accorta che sto invecchiando.
Che è un processo inevitabile, ma è meglio se continuo a ignorarlo.

Riprendiamo il filo: memori di tanti tentativi falliti e non ancora rassegnate, la mia amica e io decidiamo di riprovarci seriamente, e pianifichiamo il nostro incontro nei minimi dettagli.
Unico elemento lasciato in sospeso, l’ora dell’appuntamento; indicativamente posizionato nella fascia ora felice dell’aperitivo milanese, ma in balia delle ancor più milanesi variabili: il traffico, la caccia al parcheggio possibile e la minaccia Ecopass che ti fa sentire al sicuro solo quando lasci la macchina a casa.

… Tanto ci sentiamo per telefono… Infatti.

Esco dall’ufficio e faccio la telefonata di sopralluogo: il telefono squilla a vuoto.
Passato un quarto d’ora, faccio il secondo tentativo: ancora nessuna risposta.
Faccio passare altro tempo mentre mi preparo per uscire e quando mi incammino per raggiungere il luogo dove ci siamo date appuntamento riprovo per una terza volta, ma anche questa telefonata non va a segno.

Mantengo una calma invidiabile e mi trovo a elaborare congetture:
“Non avrà sentito… il telefono sarà finito sul fondo della borsa, soffocato da tutti quegli oggetti ingiustificati che rendono le borse pesanti e le donne isteriche perché non trovano mai quello che cercano e quello che si portano non serve mai”.
“Non si sarà accorta di aver tolto la suoneria. Succede anche a me”.
“Starà guidando, sicuramente ha l’autoradio accesa e la musica ha coperto il suono del telefono. Magari sta cantando, come faccio io quando sono in macchina da sola. Chissà cosa canta?”.
“Ha dimenticato il cellulare a casa. Sì, deve essere così. Ecco perché non risponde!”.

E poi, tutto a un tratto, qualcosa si rompe, e la logica viene spazzata via da una forma fulminante di sindrome da abbandono. Tutto è chiaro: la mia amica non verrà. Inutile cercare giustificazioni.

Ma non ci metto una pietra sopra, Non ancora. Voglio sapere come è andata.
Se ne sarà dimenticata? Ma se l’abbiamo deciso oggi! Questa non si può nemmeno definire memoria a breve termine!
O forse, prospettiva agghiacciante, mi ha detto di sì vinta dalla mia insistenza, anche se in realtà non ha nessun desiderio di vedermi. In fondo l’invito è partito da me.
Anche questo è possibile, ma quanto fa male? E poi, può essere una motivazione valida per non presentarsi a un appuntamento? Di solito ci si nasconde dietro a una scusa, una qualsiasi.
Di solito ti muore una zia molto anziana e molto malata.

In questo turbinio di ipotesi l’autocommiserazione prende il sopravvento, e la parabola già discendente crolla a picco; se prima c’ero rimasta male ora sono inconsolabile: “sono così noiosa?”, “io uscirei con me?”, “nessuno vuole passare il suo tempo in mia compagnia”,
“e comunque sono sempre l’ultima scelta”, fino a arrivare all’assioma: “nessuno –a parte mamma e papà, ma loro non contano- nessuno a questo mondo mi vuole bene!”.

E proprio quando ci sto prendendo gusto a piangermi addosso, ecco che mi arriva un messaggio.
Leggo il mittente: è lei. Sudo freddo: la risposta che non ho trovato è lì, a portata di tasto.
Ma prima di leggere il testo, svelando così l’arcano, pregusto sadicamente una lista di punizioni adeguate e direttamente proporzionali alla futilità della motivazione: più debole la scusa, più alta la posizione nella mia lista nera.

Sono troppo amareggiata per osservare cinicamente che fare uscire dalla mia vita una persona a cui non interesso più significa fare il suo gioco: facilitarle l’uscita di scena, risparmiarle l’evasione con le lenzuola annodate per srotolarle il tappeto rosso.
Com’è che non riesco nemmeno a trovare un modo per vendicare l’onta subita?

È un minuto che fisso il monitor del cellulare, l’icona del messaggio che lampeggia, la bustina ancora chiusa. Leggi: “scusa Cla, non ho realizzato, sono in ospedale perché la mia coinquilina ha avuto uno shock anafilattico. Non me ne sono accorta perché ho il muto, e nella confusione ho dimenticato di chiamare.”

Merda! Questa mi sembra una motivazione più che valida! L’amarezza viene soppiantata dal senso di colpa. “Come ho potuto pensare che una mia amica…”; caleidoscopio di emozioni altalenanti, e tutto nel giro di un ora.

Però sul muto ci avevo azzeccato!

La morale di questa storia è: quanto siamo vulnerabili? E quanto abbiamo bisogno di comprensione? L’uomo è un animale sociale, costantemente alla ricerca di un altro in cui rispecchiarsi e trovare sostegno.
E forse il segreto della sicurezza in se stessi è da ricercarsi proprio nell’approvazione altrui.

E lasciando perdere la morale, dobbiamo però riconoscere che i mezzi di comunicazione non aiutano a comunicare davvero. Io so solo che per telefono non riesco ad esprimermi come vorrei... faccio fatica a stabilire un contatto con la persona all’altro capo del filo. Filo che quando era fisico, quello del grigio scatolotto della SIP, mi attorcigliavo attorno a un dito per rallentare il battito del cuore, che insieme ai palmi sudaticci segnalava una telefonata che era diversa da tutte le altre. Non ho ancora trovato la funzione antistress nel mio cellulare.

Sunday 1 March 2009

Sindrome da disoccupazione

Scrivo travolta dall’onda –o dall’orda- della frustrazione, spinta dal desiderio di scuotere il mondo dalle fondamenta. Mi sentirei meglio solo se vedessi collassare su se stessi tutti i castelli di carte che ci svendono come surrogato della realtà.

Non so se si intuisce. Sono incazzata senza appello.

La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato scoprire, attraverso una mail tanto neutra da assomigliare a un comunicato stampa, della messa alla porta di un mio amico.
Otto mesi di manovalanza in una sedicente etichetta discografica, sottopagato ai limiti della legalità, e una volta scaduto il contratto un calcio in culo ben assestato.

Nemmeno “grazie, arrivederci”. Senza appello.

La mail di Marco era talmente sottotono e rassegnata che, una volta assimilata la notizia, l’ho tenuto un quarto d’ora al telefono sottolineando la mia –già ampiamente comunicata- visione dell’intera vicenda. Ero talmente lanciata che coniavo slogan!
Ho fatto la telefonata in esterna, spedita com’ero per commissioni, e urlavo in quel telefono come se potesse farmi da megafono.
Ero l’unica a prendere parte al mio personale corteo improvvisato a sostegno dei lavoratori precari. Ci credevo così tanto che devo aver convinto anche un paio di persone che si sono trovate a aspettare con me il verde al semaforo.

Ho un futuro, come sindacalista.
O come venditore di batterie di pentole antiaderenti
(che-se-me-le-compri-tutte-ti-regalo-il-materasso-in-lattice).

Non penso di aver risollevato il morale a Marco, ma la mia non voleva essere una telefonata consolatoria. Non c’era nessuno da consolare.
Questa non è una storia di occasioni perdute o di fidanzate apparentemente fedeli che tradiscono con l’apparente migliore amico. Manca la premessa, una situazione di benessere da cui si viene espulsi senza preavviso. Manca il piumone che si smaterializza mentre ti dormi una grigia domenica mattina di novembre.
Questa è solo la conferma che nonostante l’impegno, i compromessi accettati e la speranza che è sempre l’ultima a morire, fare un lavoro che sia gratificante stia diventando una chimera.
E ci sta che il suddetto lavoro possa essere più gratificante a livello umano che economico, siamo preparati anche a questo. Ma a lavorare solo per la gloria si deve rinunciare a troppe cose.
E la mia telefonata a Marco voleva essere una dimostrazione di solidarietà.

In fondo siamo tutti sulla stessa barca, il Titanic, e subito dopo aver impattato con l’iceberg.
Ancora ce la balliamo, ma ci resta ben poca scelta.

E non ditemi che la mia è una visione catastrofista perché sono lucida e determinata a fotografare la realtà.

Mi sono fatta un paio di conti in tasca. E non ci ho trovato nemmeno i 50 euro di emergenza.
Come posso continuare a ballare spensierata al suono dell’orchestrina se devo cercare in tutti i modi di stare a galla?

Mi sono trasferita a Milano per avere maggiori possibilità di trovare lavoro nel campo in cui mi sono specializzata attraverso anni -e anni- di università.
Il lavoro l’ho trovato, dopo aver assolto l’immancabile gavetta (3 mesi di stage a 150 euro –per 200 ore- al mese), e alla fine ho lavorato quasi un anno per portarmi a casa puliti sei mesi di stipendio (con tanto di vacanze forzate a luglio e rientro procrastinato a settembre per non concedermi il lusso di due settimane pagate in più).

Non mi vendo a peso. Non lavoro a cottimo.
Il progetto che campeggia sul mio contratto non lo riconosco come mio.
Mi si riconosce lo status da freelance, ma non lo stesso grado di libertà nella gestione del lavoro.

Superfluo specificare che le ferie sono a mio completo carico e se mi ammalo è solo un problema mio.

Niente garanzie, niente prospettive, niente gratificazioni.

Ho rotto il salvadanaio; un po’ per disperazione, un po’ per curiosità e un po’ per sfogarmi:
senza indugio, dato che non mi serve!

Risulta quindi che lavoro esclusivamente per pagarmi casa e spese, in pratica per finanziarmi la possibilità di stare a Milano a lavorare.
Mi sfugge qualcosa o in tutto questo manca una logica? Non è il classico gatto che si morde la coda? Non dovrei lavorare per poter dare un nome ai miei progetti futuri, siano essi una casa, una famiglia, una macchina o semplicemente un weekend fuoriporta?

Cosa voglio? Cosa chiedo? Cosa spero?

Non voglio più essere portata a considerare il mio lavoro una sorta di privilegio; in fondo se ho qualcosa da fare è perché ce n’è bisogno, io, guarda caso, ne sono capace e il mio contributo risulta fondamentale.

Voglio altre possibilità. La possibilità di dimostrare quanto valgo. Da qualche parte bisogna pur cominciare; una prima esperienza l’hanno fatta tutti!

Chiedo che il mio impegno venga riconosciuto, a livello economico ma soprattutto a livello umano. Dietro al lavoro c’è sempre una persona. E se la persona si sente valorizzata, lavora meglio.
Il giusto entusiasmo si ottiene con una bella iniezione di autostima. E niente fa meglio all’autostima che un complimento sincero.

Spero che lo stage, in un futuro non troppo lontano, diventi lo strumento che permetta la reciproca conoscenza a lavoratore e datore di lavoro, e che una volta concluso, se entrambe le parti sono soddisfatte, porti alla stipulazione di un contratto.
Lo stage non può più essere un bieco espediente al servizio dello sfruttamento, che consente di ottenere manodopera a costo zero. E non può superare i tre mesi. In fondo basta una settimana per capire se si dispone delle risorse adeguate dell’impegno richiesto. E forse basta il momento del colloquio perché qualcuno ti consideri “la persona giusta”.

In questo momento di sconforto, affido questa mia piccola lista dei desideri alla speranza che resta e che non mi abbandonerà mai.

Alzo il bicchiere mezzo pieno e brindo a un futuro meno nebuloso.

A noi, il nuovo precariato!

Buoni vecchi propositi

Ma anche vecchi buoni propositi, dato che alla fine, gira e rigira, sono sempre quelli.
Almeno finché non raggiungerò l’età della ragione (anagraficamente già sfondata).
E date le premesse non succederà nemmeno nel 2009.

la lista che segue l'ho stilata a inizio anno, l'ho pubblicata sulla prima versione di questo blog e da allora non l'ho più letta. Ho deciso di riportarla qui perchè mi faccia da monito per i 5/6 di anno che mi restano.
Non stupitevi se vi accorgete che in poche settimane sono già riuscita a non tenere fede al punto numero 7. Sono di nuovo qui, più recidiva -e inconcludente- che mai.

Ricomincia l’anno –anzi, a essere precisi ne è finito uno e ne è iniziato uno nuovo, ma non mi sono ancora accorta della differenza- e mi prende l’ansia di fare progetti.
Io che sopravvivo solo perché ho imparato a affrontare la vita giorno per giorno (pianificando al massimo qualche weekend) provo un timore reverenziale nei confronti dall’anno e dalla sua ordinata suddivisione in segmenti temporali sempre più brevi, incastonati uno nell’altro come le bambole di una matrioska: stagioni, mesi, settimane, giorni… e resto incastrata nella smania di riempire questi contenitori.

Regola numero uno: mettere i propositi per iscritto, perché da suggerimento si trasformino col passare inesorabile di giorni, settimane e mesi in monito e infine in condanna.
Gli obiettivi non raggiunti aiutano a definirne di nuovi: tra i buoni propositi che non sono riuscita a realizzare nel 2006 c’era quello di fidanzarmi con un qualsiasi membro degli Strokes. Nel 2007 ho ripiegato sul chitarrista degli Psycho Preppies (band varesina dalle belle speranze). D’altra parte, io non sono Drew Barrimore. Non ancora, almeno.

Regola numero due: abbondare con i buoni propositi. Se la lista è lunga almeno un paio si rischia di imbroccarli.
Piccolo trucco: se non si trovano abbastanza buoni propositi se ne possono aggiungere anche di cattivi alla stessa lista.

Regola numero tre: fare come gli architetti, cioè progettare in grande. Se davvero voglio darmi da fare voglio che il risultato non sia un monolocale, ma almeno un grattacielo!

Ecco i buoni propositi che tormentano me:

1) Mangiare meno, mangiare meglio. E magari imparare a cucinare. Anche piatti che presentano più di tre ingredienti e che per essere mangiati devono essere tolti dal contenitore. Mi farò regalare un microonde.
Non intendo pormi limiti sul bere, la disidratazione è una brutta cosa.

2) Impegnarmi in una qualsiasi attività fisica. Ieri sono stata 4 ore sugli sci e oggi ogni volta che mi muovo sono sorpresa da fitte a muscoli che non pensavo di avere.
Mia madre fa mezz’ora di cardio fitness ogni mattina prima di colazione, mio padre scala montagne a piedi d’inverno e in bicicletta d’estate, mia sorella segue (o meglio insegue) il suo ragazzo quando fa le gare di atletica. Perché a me semplicemente manca la voglia? Sarò allergica al sudore? Vedrò di non far scadere anche quest’anno l’abbonamento alla piscina. Mancano 4 ingressi…

3) Smettere di cominciare a fumare. Già sono patetica: sono la persona meno viziosa che conosco e a 26 anni sono ormai fuori target per sentirmi trasgressiva con una sigaretta (che fra l’altro fumo solo nelle notti di luna piena). Fossi alle medie potrei chiudermi nei bagni a ricreazione.

4) Scrivere, scrivere, scrivere. Fino a quando non invento Harry Potter e 2000 pagine dopo divento più ricca della regina d’Inghilterra.

5) Ripassare storia. Numerose sfide a Trivial Pursuit durante il periodo natalizio hanno sottolineato gravissime lacune nella mia percezione della successione di eventi e personaggi da Roma antica alla seconda guerra mondiale.
Non che fossi una cima nemmeno nelle altre materie… Posso rifare gli esami di quinta elementare da non frequentante?

6) Frequentare un corso pseudo artistico, alla scoperta di talenti nascosti. Ci ho già provato nell’adolescenza, e con risultati tragicomici: al saggio di danza ero quella nell’angolo in fondo (per 3 anni di fila) e quando mi sono cimentata con il teatro mi è stata affidata la parte di una ragazzina muta (non avevo la preparazione per interpretarne una sordo-cieca).

7) Riaprire il blog (e fino a qui, bastano 3 clic). E già che ci sono aggiornarlo, di tanto in tanto…

Effe Esse e affini

Attenzione: i fatti narrati di seguito non sono opera di fantasia e tra i personaggi protagonisti delle vicende ci sono anch’io! Giurin giurello! I dati forniti non sono di prima mano ma d’altra parte il tema trattato non è da ultim’ora e noi non facciamo gli schizzinosi.

Milano, Stazione Centrale, martedì 13 gennaio.

Claudia (fingendo cortesia e ingoiando bile): “buonasera, il mio treno aveva quasi un’ora di ritardo, ho diritto a qualche genere di rimborso?”

Bigliettaio FS (sorridendo di gusto sotto a inesistenti baffi): “è già tanto che è arrivata, signorina”.

Claudia (ricambiando il sorriso per automatismo, ma elaborando un articolato insulto che decide infine di non pronunciare perché il gioviale bigliettaio pesa 130 kili e una soglia di irritabilità impossibile da valutare): “capisco… allora potrebbe darmi un biglietto per tornare a Brescia?”

E questo lo chiamate customer service?
Cerco solidarietà lanciando uno sguardo complice al bigliettaio vicino: mi sorride mestamente, quasi a giustificarsi, un armadio d’uomo con una vistosa cicatrice che gli percorre un’intera guancia. Con una benda sull’occhio sarebbe perfetto per fare da comparsa in Pirati dei Caraibi.

Non voglio aggiungere la mia voce al coro delle lamentele nei riguardi delle Ferrovie dello Stato. Non è carino sparare sulla Croce Rossa. E poi l’ho fatto spesso, quando ero pendolare.
Lamentarsi serviva solo a lavarsi di dosso la frustrazione di non sapere mai a che ora saresti arrivato a destinazione… Perché non è il ritardo in sé che fa perdere le staffe, ma il ritardo non giustificato.

Quanto tempo ho passato su un treno in movimento (lento, ma in movimento)? Che percentuale della mia vita?
Fino a 10 ore a settimana nel periodo d’oro, quando era avanti e indietro a Milano dal lunedì al venerdì. E quanti viaggi ho fatto senza poter appoggiare il culo su un sedile? Troppi. Anche l’ultimo, venerdì, stipati in 12 nello spazio tra le porte. Ho fatto i 3 gradini per salire sul vagone e mi sono fermata lì: corridoi congestionati, gente dappertutto. Sospetto che qualcuno si sia fatto l’intero viaggio chiuso nella ritirata, e che abbia viaggiato più comodo di me, accoccolato sulla tazza del cesso. Io ho usato il mio trolley come sgabello ma la combinazione maniglia - coccige non si è rivelata ergonomica…

È stata diffusa la notizia che la Regione Lombardia non intende rinnovare il contratto alle Ferrovie dello Stato se queste non si daranno una regolata per limitare scioperi e ritardi.
I vertici delle FS con aria di sfida hanno risposto che sono curiosi di vedere chi si presenterà per occupare il loro posto garantendo lo stesso numero di collegamenti. È ora che gli svizzeri entrino in campo. Voglio treni di cioccolato puntuali come orologi a cucù!

Capitolo a parte meriterebbe l’alta velocità.
Si è laureata una mia amica di Roma e mi ha invitata alla festa. Presente! Lo zaino ce l’ho sempre pronto sotto al letto, compro un biglietto e sono da te.
Siete stati sul sito di Trenitalia recentemente? Provate a cercare un treno da Milano a Roma. Ne troverete un’infinità, uno ogni mezz’ora, ma se ci fate caso sono tutti treni ad alta velocità. È chiaro che la Freccia Rossa è il fiore all’occhiello, la soluzione migliore, un servizio finalmente all’altezza degli standard europei, ma… non è che sia proprio alla portata di tutti… io ho rotto il salvadanaio e non ci ho trovato i 136 euro necessari per andare a Roma e assicurarmi il rientro.

Ho cercato nel sito altre soluzioni, utilizzando treni come intercity e interregionali, ma il ventaglio di scelte si è notevolmente ridotto. Il sistema è ostico, per me che risolvo ogni incomprensione con il mio pc premendo ctrl+alt+canc: per concludere la ricerca di un itinerario con successo bisogna usare una serie di scorciatoie che sembra di dover liberare Zelda all’ultimo livello e senza vite di riserva. E il risultato sembra tarato sugli standard di viaggio di fine ‘800… vuoi fare andare a Roma con soli 45 euro (ma poi ci resti, perché questo è solo il prezzo dell’andata)? Preparati a un calvario di sole 7 ore di viaggio (anche questo one-way)!

Lo zaino questa volta è rimasto sotto il letto, e il morale è sceso sotto i tacchi. Ma non lascerò più che uno stupido treno mi rovini la festa di laurea (degli altri)!
Avrò un po’ di fine settimana impegnati: mi chiuderò in garage a assemblare la DeLorean. Ecco la soluzione. Se voglio davvero viaggiare come si faceva 200 anni fa con la DeLorean potrò andare a farmi direttamente un weekend nell’ ‘800!

Varese, Aeroporto di Malpensa, martedì 13 gennaio.

Inaugurazione del nuovo corso di Alitalia che riprende il servizio sotto la bandiera della CAI e che, per mantenere continuità col passato e uno standard tarato sull’infinita pazienza dei clienti abituali, ha deciso di tenere a terra 11 aerei. Che bella figura che ci facciamo con quei primi della classe di Air France!

Dove vogliamo andare con questa immobile Italia, dove risulta già difficile muoversi all’interno dei confini? Anche i –pochi- cervelli rimasti in patria fanno fatica a fuggire così!

Wednesday 25 February 2009

La filosofia del parco giochi

Conosco una persona che ha trovato la chiave d’accesso al significato della vita in uno spazio praticabile e alla portata di tutti.
Non era impegnato a osservare le profondità dell’universo con un telescopio, né cercava di isolare sottoparticelle in laboratorio; passeggiava in un parco giochi.
Passeggiava, nemmeno troppo assorto, e tutt’a un tratto quello che gli ingombra il campo visivo non è più un parco giochi ma la rappresentazione, solida, colorata e a prova di bambino, della vita stessa.

Ci sono tutti gli estremi per parlare di illuminazione, anche perché le riflessioni scaturite hanno dato origine a una teoria che ha del condivisibile.

Siamo abbastanza abituati, grazie a incontri-scontri con religione e filosofia, a lavorare sulle simbologie per spiegare tutto quello che risulta sovradimensionato e difficile da analizzare.
Ma non mi era mai capitato di prendere uno scivolo come simulacro.
E invece si può: lo scivolo è l’immagine della crescita, di come l’esperienza riesca a rendere esperibile e quindi a semplificare e la realtà. Non si può conoscere e godere di una cosa fino a quando non la si prova, non la si studia, non la si fa.

Lo scivolo, quando la tua statura raggiunge a malapena il metro e ti trovi a osservarlo dal basso, si staglia imponente e minaccioso. Già l’approcciarlo richiede una certa dote di determinazione: non si può provare, lo scivolo. Si affronta e basta.
Ma non c’è divertimento senza la fatica dell’ascesa. L’unico modo per godersi la discesa infatti è arrampicarsi per quella ripida scaletta. E una volta messo il piede sul primo gradino non si torna indietro.

Come il significato del viaggio non sta nella meta ma nel percorso, lo scivolo è il gioco dei grandi per definizione perché si impone come una salita da affrontare.

Quando sei lì sopra però ti rendi conto che tutto quello che si stende ai tuoi piedi ha un aspetto famigliare; anche l’altezza fa meno paura, perché conosci il modo di tornare a terra.

Un altro elemento che non manca mai in un parco giochi che e che si presta al gioco dei simboli è la giostra. Per quel suo percorrere tragitti anche lunghi ritornando sempre al punto di partenza e ricalcando lo stesso percorso, la giostra indica la ciclicità della vita, il ripresentarsi sotto forme nuove di situazioni già vissute. Tutto scorre, e tutto ritorna. È il karma, che vuole tutto collegato e determinato dall’intenzione che anima ogni nostro gesto.

E l’altalena?

L’altalena descrive gli estremi entro cui oscilla l’esistenza: euforia e sconforto, entusiasmo e apatia, piacere e fastidio, affetto e distacco. Gli alti, i bassi e tutte le sfumature. Le due facce della stessa medaglia. Il bicchiere che è allo stesso tempo mezzo vuoto e mezzo pieno.

L’altalena è sempre stata il mio gioco preferito. Anche adesso che ho passato da lustri l’età consigliata, quando ne incrocio una non riesco a non provarla, e mi lancio a gambe raccolte sotto il seggiolino in cui strizzo i fianchi. Vado in altalena in posizione fetale. È sgraziato, ma è anche l’unico modo per non impattare al suolo, quando sei di 50 centimetri fuori misura.

Aridaje!

Questa è la seconda volta che apro ufficialmente il mio terzo blog.

Terzo in ordine cronologico. Davvero avete pensato che scrivessi su 3 blog in contemporanea? Ma chi sono, Ganesh e le sue 6 braccia?

Ci sono già passata di qui, ma l’emozione è quella della prima volta: pianto una bandierina per colonizzare il mio asteroide perso nello sconfinato spazio del web e un leggero brivido mi percorre la schiena.

Negli ultimi anni ho cambiato blog più spesso di quanto ho cambiato ragazzo.

I miei ex (blog) mi piacevano, e mi hanno dato un sacco di soddisfazioni.
Ma poi, inspiegabilmente arrivava il momento in cui me ne disinnamoravo.
Così, da un giorno all’altro, senza un motivo, ho smesso di aggiornarli fino a quando loro hanno smesso di aspettare un post, un commento e si sono spenti per inedia.

Sono un’inconcludente recidiva. E se ci pensate bene, non è una buona combinazione.
Sono quella che 1000 ne pensa, 100 ne prova e 0 ne finisce.
E non è –sempre- una questione di volontà. È proprio nella mia natura

È come essere un cleptomane narcolettico: con l’oggetto del desiderio sottratto al negozio nascosto in tasca, guadagni l’uscita e, tirato un respiro di sollievo, crolli addormentato sull’uscio.
Ma che figura ci fai? La stessa figura che mi aspetto di fare inaugurando questo spazio. Chissà questo quanto sopravviverà? Si accettano scommesse!

Dead blog walking!