I danzatori si posizionano sul palco
mentre gli ultimi spettatori prendono posto, a luci accese in sala. Seguono una
decina di minuti in cui non succede assolutamente nulla. Il pubblico guarda gli
artisti rapiti dalla scenografia, tre modelli ingombranti e
realistici di cavalli morti impilati. Non c’è musica: in
sottofondo lo scampanellio pacifico di mucche invisibili al pascolo, sovrastato
dai colpetti di tosse sempre più impazienti.
Quando le luci si spengono non parte
la musica, ma i nove sul palco si gettano uno sull'altro, iniziano a lottare e si
strappano i vestiti di dosso. Insistono finché tutti i vestiti non sono stati
strappati. Si urlano anche contro in una lingua che non riconosco. La scena è
molto potente, ma dal diciannovesimo minuto perde un po’ di carica espressiva.
Ritrovatisi mezzi nudi, i danzatori (che non hanno ancora
accennato un passo di danza) liberano il palcoscenico gettando gli stracci in platea e tirano fuori delle
felpe in acetato che nemmeno in classe mia all'ora di ginnastica in terza liceo.
Parte una coreografia, e l’acetato fruscia e fa scintille.
Per tre minuti i nove sul palco sembrano finalmente avere capito dove sono e cosa ci fanno. Sono
scoordinati, ma hanno fisicità molto diverse e nella danza contemporanea un po’
di energia grezza ci sta. Un po’ però. I ballerini tengono il ritmo respirando,
e i loro respiri marcati si trasformano in una gara di rutti. Serissima.
A quasi un’ora dall'inizio dello spettacolo, in regia si
ricordano di schiacciare il pulsantone del play. Sulle note di Mahler, due interpreti
si arrotolano addosso, mentre gli altri agganciano uno dei cavalli morti
a dei cavi che pendono dal soffitto, lo sollevano e poi lo riappoggiano nello
stesso punto. E altri venti minuti ce li giochiamo così.
In modo inaspettato e ingiustificato saltano fuori dei
campanelli, che tutti i ballerini si infilano alle caviglie. L’intero teatro
viene catapultato in un’atmosfera da festa dei popoli: dopo un po’ di
tarantella, anche piacevole nel suo essere non totalmente improvvisata, due
ballerini di colore prendono possesso della scena con quello che come scoprirò
solo leggendo le recensioni è polifonia congolese. Cantano e ballano
spensierati, d'altronde il coreografo se ne sarà accorto che, proprio grazie
alle loro origini questi due ‘hanno il ritmo nel sangue’.
Senza nessun preavviso, il clima si fa nuovamente cupo e
dopo l’ennesimo scontro ci scappa il morto, che viene smutandato, sollevato da
terra, portato in processione e appoggiato sulla pila di cavalli. Peccato che dopo l’omicidio
in scena parte una musica festosa, ed è subito glee: il momento che nelle prove
veniva annunciato dall'indicazione scenica ‘ballate un po’ come cazzo vi pare…’
dal coreografo, che ne approfittava per uscire a fumarsi una sigaretta. È il
gran finale, lo percepiamo e ci speriamo anche un po’, ma Alessandra mi
sussurra all'orecchio ‘Potrebbe non finire mai!’, scatenando la mia risata isterica
e la reazione stizzita del vicino di poltrona che batte i piedi per farmi
smettere. Sono tutti stremati, sul palco e soprattutto in platea, ma ‘the show
must go on’, e per altri 20 inconcludenti minuti, durante i quali il morto si
riprende e simula un rapporto sessuale con la carcassa di un cavallo. I suoi glutei
muscolosi mi distraggono dall'eterna lotta fra Eros e Thanatos.
Quando partono gli applausi, ai quali il mio vicino di
poltrona non partecipa, mi sporgo verso la fila davanti e domando ‘A voi è piaciuto?’
a due ragazzi che sembrano spaesati quanto me. Uno ha la decenza di non
commentare, mentre il suo amico, guardandomi come se fossi un animale esotico, mi
risponde con un sibillino ‘Sì e no.’ Senza aggiungere altro. ‘Che cazzo
di risposta è?’ vorrei replicare ma mi trattengo, perché in fondo ci vuole coraggio ad affermare ‘La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca’.