Saturday 30 November 2013

La prepotenza del cardigan

Addento un biscotto mentre mi allaccio le scarpe: sono seduta sull'orlo della sedia perché sulla schiena c’è già appeso lo zaino che mi porterò in giro tutto il giorno. La devo smettere di rimandare la sveglia ogni cinque minuti per mezz’ora. Voglio fare colazione come una cristiana: attendere che la moka gorgogli diffondendo l’aroma di caffè in tutta la cucina, imburrare il pane, mettere tazza e piattino in lavastoviglie, lavarmi i denti. E invece fra quaranta minuti devo essere in classe. E non posso più fare ritardo, da quando insegno.
“Cla, lo vuoi un goccio di caffè?” mi chiede Valentina, ancora in pigiama, seduta a gambe incrociate come un Buddha davanti a una torre di fette biscottate imburrate, immune alla mia ansia.
“Grazie, ma devo scappare. Adesso.”
 “Lo sai, vero, che c’è lo sciopero dei mezzi?”
“Cosa? Anche oggi?”
“È venerdì, ormai è tradizione”
“Ma io a questi dell’ATAC pago anche i biglietti...”
Sbuffando vistosamente, recupero la bicicletta e impreco contro Matteo e la sua mania di andare a lavoro con la camicia stirata: il corridoio è bloccato dall’asse da stiro. La sorpasso strusciandomi contro la parete che ricambia lasciandomi un’ombra bianca sulla giacca. La porta d’ingresso mi sputa dentro a una mattina che promette pioggia. Alzo il colletto e spingo sui pedali.

La strada più veloce è la zona pedonale del Pigneto, occupata da un mercato colorato e chiassoso come la cartolina del mercato romano. Sempre pedalando, disegno un percorso spezzettato fra passeggini, cani al guinzaglio e cassette di frutta e verdura. Quando appoggio un piede a terra per far attraversare un gruppetto di studenti diretti in biblioteca sento distintamente queste parole: “anvedi n’artra stronza”.
“Come ha detto scusi?” mi sento chiedere, mentre osservo la mia mano che stringe la manica di una giacca di tweed indossata da un distinto signore sulla settantina, senza sapere come ci è finita. I nostri sguardi si incrociano ma nessuno dei due accenna a muoversi. “Lei mi ha detto stronza?” rincaro la dose, con la voce che mi si alza di un’ottava e stringendo la presa. Il signore in tweed, ripresosi dallo shock, prima tenta una poco convincente ritirata “dicevo a quella di prima” e poi, come ricordandosi il motivo di tanto fastidio se la prende con me e la mia bicicletta “è che voglio essere libero di circolare” mi urla, la mano a pugno davanti alla faccia, il mazzo di chiavi stretto con tanta veemenza da far venire le nocche bianche. Quel pugno che mi agita all’altezza degli occhi mi fa desistere: lascio andare il braccio e indietreggio. “Beh, non c’è bisogno di dirmi che sono una stronza!”: voglio urlare anch’io, ma ogni volta che provo ad alzare la voce la gola si stringe e mi esce uno stridulo strozzato. Un paio di signore, vinte dalla curiosità abbandonano per un attimo lo studio dei carciofi e ci separano.
Me ne vado senza dare spiegazioni, portando la bici a mano, consapevole che questo mio gesto equivale a sventolare bandiera bianca. Hai vinto tu, prepotenza. Ma ti smaschererò sempre, anche quando ti nasconderai di nuovo sotto a un cardigan marroncino.   

In classe sono distratta: continuo a rivedere la stessa scena e a immaginarmi finali alternativi: io che investo l’anziano signore con la bici, che gli rubo il mazzo di chiavi per gettarlo in un tombino, che me ne sbatto dell’insulto e continuo a pedalare sulla strada che a quanto voleva farmi credere è di sua proprietà. 
Nonostante il torto subito bruci ancora, sulla strada del ritorno evito la zona pedonale, per paura di dovermi giustificare con qualcun altro.

Nella via di casa, quando mi fermo per lasciar uscire una macchina dal parcheggio, la custodia vuota di un cd mi rimbalza su una scarpa. La traiettoria non lascia dubbi: è stato lanciato dal finestrino della macchina in manovra. “Scusi!” apostrofo l’uomo alla guida, facendo attenzione a dargli del lei “ha buttato questo per terra?” lui si gira nella mia direzione e riconosce il pezzo di plastica che ho recuperato dal marciapiede “no, l’ho buttato per aria!” mi risponde, serio, incolpando la forza di gravità. Quando mi rendo conto che il mio braccio ha lanciato la custodia all’interno dell’auto, il brivido dell’istinto mi dà il coraggio di ribattere: “se questa città è un cesso, è anche colpa sua”. La sorpresa del mio tono più sicuro non dura molto, spazzata via da un sentito “ma vedi d'annàffanculo!”, che il mio interlocutore, a disagio nella dimensione del dibattito, ripete con intensità sempre maggiore finché non svolta intorno all'isolato.

Non ho vinto nemmeno stavolta -e cosa mi aspettavo, che l’autore di un gesto così irrispettoso si scusasse e scendesse dalla macchina per gettare i rifiuti nell’apposito bidone?- e i finali alternativi sono carichi dell’aggressività che sembra regolare i rapporti in questa città -su tutti, io che lo immobilizzo storcendogli il braccio contro la carrozzeria mentre uso la custodia del CD per rigargli la macchina.

Sono ancora ferma sul marciapiede, quando l’adrenalina evapora. L’autocontrollo mi sta abbandonando.

Come era successo poche ore prima, il corpo non ha aspettato che la mente vagliasse le possibili conseguenze del gesto prima di agire. E questo è allo stesso tempo elettrizzante e spaventoso. 
Imparerò a conviverci.