Addento un biscotto mentre mi allaccio le scarpe: sono
seduta sull'orlo della sedia perché sulla schiena c’è già appeso lo zaino che
mi porterò in giro tutto il giorno. La devo smettere di rimandare la sveglia
ogni cinque minuti per mezz’ora. Voglio fare colazione come una cristiana:
attendere che la moka gorgogli diffondendo l’aroma di caffè in tutta la cucina,
imburrare il pane, mettere tazza e piattino in lavastoviglie, lavarmi i denti.
E invece fra quaranta minuti devo essere in classe. E non posso più fare
ritardo, da quando insegno.
“Cla, lo vuoi un goccio di caffè?” mi chiede Valentina,
ancora in pigiama, seduta a gambe incrociate come un Buddha davanti a una torre
di fette biscottate imburrate, immune alla mia ansia.
“Grazie, ma devo scappare. Adesso.”
“Lo sai, vero, che
c’è lo sciopero dei mezzi?”
“Cosa? Anche oggi?”
“È venerdì, ormai è tradizione”
“Ma io a questi dell’ATAC pago anche i biglietti...”
Sbuffando vistosamente, recupero la bicicletta e impreco
contro Matteo e la sua mania di andare a lavoro con la camicia stirata: il
corridoio è bloccato dall’asse da stiro. La sorpasso strusciandomi contro la
parete che ricambia lasciandomi un’ombra bianca sulla giacca. La porta
d’ingresso mi sputa dentro a una mattina che promette pioggia. Alzo il colletto
e spingo sui pedali.
La strada più veloce è la zona pedonale del Pigneto,
occupata da un mercato colorato e chiassoso come la cartolina del mercato
romano. Sempre pedalando, disegno un percorso spezzettato fra passeggini, cani
al guinzaglio e cassette di frutta e verdura. Quando appoggio un piede a terra
per far attraversare un gruppetto di studenti diretti in biblioteca sento
distintamente queste parole: “anvedi n’artra stronza”.
“Come ha detto scusi?” mi sento chiedere, mentre osservo la
mia mano che stringe la manica di una giacca di tweed indossata da un distinto
signore sulla settantina, senza sapere come ci è finita. I nostri sguardi si
incrociano ma nessuno dei due accenna a muoversi. “Lei mi ha detto stronza?”
rincaro la dose, con la voce che mi si alza di un’ottava e stringendo la presa.
Il signore in tweed, ripresosi dallo shock, prima tenta una poco convincente
ritirata “dicevo a quella di prima” e poi, come ricordandosi il motivo di tanto
fastidio se la prende con me e la mia bicicletta “è che voglio essere libero di
circolare” mi urla, la mano a pugno davanti alla faccia, il mazzo di chiavi
stretto con tanta veemenza da far venire le nocche bianche. Quel pugno che mi
agita all’altezza degli occhi mi fa desistere: lascio andare il braccio e
indietreggio. “Beh, non c’è bisogno di dirmi che sono una stronza!”: voglio
urlare anch’io, ma ogni volta che provo ad alzare la voce la gola si stringe e
mi esce uno stridulo strozzato. Un paio di signore, vinte dalla curiosità abbandonano
per un attimo lo studio dei carciofi e ci separano.
Me ne vado senza dare spiegazioni, portando la bici a
mano, consapevole che questo mio gesto equivale a sventolare bandiera bianca.
Hai vinto tu, prepotenza. Ma ti smaschererò sempre, anche quando ti nasconderai
di nuovo sotto a un cardigan marroncino.
In classe sono distratta: continuo a rivedere la stessa
scena e a immaginarmi finali alternativi: io che investo l’anziano signore con
la bici, che gli rubo il mazzo di chiavi per gettarlo in un tombino, che me ne
sbatto dell’insulto e continuo a pedalare sulla strada che a quanto voleva
farmi credere è di sua proprietà.
Nonostante il torto subito bruci ancora, sulla strada del
ritorno evito la zona pedonale, per paura di dovermi giustificare con qualcun
altro.
Nella via di casa, quando mi fermo per lasciar uscire una
macchina dal parcheggio, la custodia vuota di un cd mi rimbalza su una scarpa.
La traiettoria non lascia dubbi: è stato lanciato dal finestrino della macchina
in manovra. “Scusi!” apostrofo l’uomo alla guida, facendo attenzione a dargli
del lei “ha buttato questo per terra?” lui si gira nella mia direzione e
riconosce il pezzo di plastica che ho recuperato dal marciapiede “no, l’ho
buttato per aria!” mi risponde, serio, incolpando la forza di gravità. Quando
mi rendo conto che il mio braccio ha lanciato la custodia all’interno
dell’auto, il brivido dell’istinto mi dà il coraggio di ribattere: “se questa
città è un cesso, è anche colpa sua”. La sorpresa del mio tono più sicuro non
dura molto, spazzata via da un sentito “ma vedi d'annàffanculo!”, che il mio
interlocutore, a disagio nella dimensione del dibattito, ripete con intensità
sempre maggiore finché non svolta intorno all'isolato.
Non ho vinto nemmeno stavolta -e cosa mi aspettavo, che l’autore
di un gesto così irrispettoso si scusasse e scendesse dalla macchina per
gettare i rifiuti nell’apposito bidone?- e i finali alternativi sono carichi
dell’aggressività che sembra regolare i rapporti in questa città -su tutti, io che lo
immobilizzo storcendogli il braccio contro la carrozzeria mentre uso la
custodia del CD per rigargli la macchina.
Sono ancora ferma sul marciapiede, quando l’adrenalina
evapora. L’autocontrollo mi sta abbandonando.
Come era successo poche ore prima, il corpo non ha
aspettato che la mente vagliasse le possibili conseguenze del gesto prima di
agire. E questo è allo stesso tempo elettrizzante e spaventoso.
Imparerò a conviverci.