Wednesday 7 December 2016

Come non dormire a teatro

I danzatori si posizionano sul palco mentre gli ultimi spettatori prendono posto, a luci accese in sala. Seguono una decina di minuti in cui non succede assolutamente nulla. Il pubblico guarda gli artisti rapiti dalla scenografia, tre modelli ingombranti e realistici di cavalli morti impilati. Non c’è musica: in sottofondo lo scampanellio pacifico di mucche invisibili al pascolo, sovrastato dai colpetti di tosse sempre più impazienti.

Quando le luci si spengono non parte la musica, ma i nove sul palco si gettano uno sull'altro, iniziano a lottare e si strappano i vestiti di dosso. Insistono finché tutti i vestiti non sono stati strappati. Si urlano anche contro in una lingua che non riconosco. La scena è molto potente, ma dal diciannovesimo minuto perde un po’ di carica espressiva.

Ritrovatisi mezzi nudi, i danzatori (che non hanno ancora accennato un passo di danza) liberano il palcoscenico gettando gli stracci in platea e tirano fuori delle felpe in acetato che nemmeno in classe mia all'ora di ginnastica in terza liceo.

Parte una coreografia, e l’acetato fruscia e fa scintille. Per tre minuti i nove sul palco sembrano finalmente avere capito dove sono e cosa ci fanno. Sono scoordinati, ma hanno fisicità molto diverse e nella danza contemporanea un po’ di energia grezza ci sta. Un po’ però. I ballerini tengono il ritmo respirando, e i loro respiri marcati si trasformano in una gara di rutti. Serissima.

A quasi un’ora dall'inizio dello spettacolo, in regia si ricordano di schiacciare il pulsantone del play. Sulle note di Mahler, due interpreti si arrotolano addosso, mentre gli altri agganciano uno dei cavalli morti a dei cavi che pendono dal soffitto, lo sollevano e poi lo riappoggiano nello stesso punto. E altri venti minuti ce li giochiamo così.

In modo inaspettato e ingiustificato saltano fuori dei campanelli, che tutti i ballerini si infilano alle caviglie. L’intero teatro viene catapultato in un’atmosfera da festa dei popoli: dopo un po’ di tarantella, anche piacevole nel suo essere non totalmente improvvisata, due ballerini di colore prendono possesso della scena con quello che come scoprirò solo leggendo le recensioni è polifonia congolese. Cantano e ballano spensierati, d'altronde il coreografo se ne sarà accorto che, proprio grazie alle loro origini questi due ‘hanno il ritmo nel sangue’.

Senza nessun preavviso, il clima si fa nuovamente cupo e dopo l’ennesimo scontro ci scappa il morto, che viene smutandato, sollevato da terra, portato in processione e appoggiato sulla pila di cavalli. Peccato che dopo l’omicidio in scena parte una musica festosa, ed è subito glee: il momento che nelle prove veniva annunciato dall'indicazione scenica ‘ballate un po’ come cazzo vi pare…’ dal coreografo, che ne approfittava per uscire a fumarsi una sigaretta. È il gran finale, lo percepiamo e ci speriamo anche un po’, ma Alessandra mi sussurra all'orecchio ‘Potrebbe non finire mai!’, scatenando la mia risata isterica e la reazione stizzita del vicino di poltrona che batte i piedi per farmi smettere. Sono tutti stremati, sul palco e soprattutto in platea, ma ‘the show must go on’, e per altri 20 inconcludenti minuti, durante i quali il morto si riprende e simula un rapporto sessuale con la carcassa di un cavallo. I suoi glutei muscolosi mi distraggono dall'eterna lotta fra Eros e Thanatos.

Quando partono gli applausi, ai quali il mio vicino di poltrona non partecipa, mi sporgo verso la fila davanti e domando ‘A voi è piaciuto?’ a due ragazzi che sembrano spaesati quanto me. Uno ha la decenza di non commentare, mentre il suo amico, guardandomi come se fossi un animale esotico, mi risponde con un sibillino ‘Sì e no.’ Senza aggiungere altro. ‘Che cazzo di risposta è?’ vorrei replicare ma mi trattengo, perché in fondo ci vuole coraggio ad affermare ‘La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca’.   

Friday 15 January 2016

Una vita contenuta

Nasco  cinque anni fa in Marocco, ad Essaouira, una città che da secoli contrasta l’oceano con i suoi bastioni color ocra saldamente piantati nella sabbia, come un transatlantico incagliato con la prua rivolta verso il mare aperto e la poppa che guarda il deserto allontanarsi.

Un luogo inospitale ed accogliente al tempo stesso, attraversato da gente proveniente da tutto il mondo, che si perde nei vicoli ritagliati tra gli edifici della Medina, dai muri troppo bianchi per essere guardati in faccia prima del tramonto.

Sono di origini umili, e ho passato la mia infanzia in un mondo fortemente intrecciato con le tradizioni. I miei primi ricordi sono legati alla conceria, dove ho passato lunghe settimane immersa in un liquido immondo fatto di cenere mescolata con urina di mucca e guano di piccione; ero intrappolata in una vasca scavata nella roccia, costretta a respirare miasmi soffocanti, e ogni giorno arrivava uno dei ragazzi che mi prendeva per un angolo e mi trascinava di peso all’asciutto solo per battermi, grattarmi, tirarmi, strizzarmi e quando ero prossima allo strappo mi ributtava nel fetido buco a cui non mi sarei mai abituata.
Ogni giorno speravo fosse l’ultimo e nonostante qualcuno di noi passasse regolarmente alla vasca del lavaggio e veniva steso ad asciugare, potendo finalmente stiracchiarsi al sole e seccare l’odore che era penetrato in profondità, eravamo obbligati ad aspettare finché i conciatori, sempre in bilico fra gli orli delle vasche, non avessero deciso che eravamo pronti.

Crescendo ho conosciuto borse privilegiate, la cui pelle è stata trattata con il cromo: in poche ore sono passate dal ricoprire un animale alle montagne russe di grosse cisterne di acciaio simili a lavatrici dove la chimica le ha rese materiale lavorabile: loro non hanno subito la violenza psicologica dell’attesa, dell’eposizione agli agenti atmosferici, dei turisti che ti guardano dall’alto e ti fotografano proprio quando sei più vulnerabile, storcendo il naso per il disgusto. Noi di cuoio marocchino le chiamiamo le industriali: sono pelli asettiche, che sembrano create in laboratorio e non conservano più traccia della loro provenienza animale. Noi invece temiamo il contatto con l’acqua, proprio perché fa emergere la nostra natura selvaggia: quando ci bagniamo rilasciamo quei coloranti naturali che fanno fatica a fissarsi e soprattutto un’ombra olfattiva dei nostri lunghi bagni nella merda.

La conceria è un’esperienza difficile che ti rende morbida ed insieme resistente: nessuna borsa in ecopelle, per quanto ben fatta, potrà resistere come noi al passare del tempo: arriva per tutti un momento complicato e se noi ce la caviamo con un graffio, l’ecopelle si taglia, lo strato superficiale si sgretola e lascia intravedere l’anima di plastica.
Loro dicono che si ‘spellano’ ma mai termine fu meno appropriato.

Quando si cresce in Marocco, non è facile allontanarsi dalle proprie origini: la maggior parte del pellame che era con me in conceria è finito ad ornare i cesti di paglia intrecciata che affollano i souk; ogni cestino cerca di distinguersi dalle altre centinaia di borse simili con cui viene appeso sopra al banco per un dettaglio nella decorazione: ci sono quelli con gli specchietti applicati, le nappine colorate, elementi in metallo, e poi perline, pailettes e addirittura i pizzi di plastica ritagliati delle tovaglie usa e getta.
L’ambizione delle borse da souk è quella di essere acquistate e prestare servizio sulla spiaggia, trasportando il telo, la crema solare e la settimana enigmistica, o di fare una comparsata al mercato, al braccio di una donna che ha visto la pubblicità di Dolce & Gabbana e che, nel ruolo di una Sofia Loren contemporanea, non vuole mettere frutta e verdura nel trolley di tela cerata stampa tartan che usa anche sua nonna – e la Loren stessa, suppongo.

Ma queste borse di paglia non possono contare su una lunga carriera: non sono troppo capienti e non si possono chiudere, hanno manici corti che lasciano un’ombra marrone sulle mani sudate, e perdono facilmente i loro strati di trucco e gli abitini estivi. Sono quegli accessori che come tutti i souvenir azzerano il loro fascino una volta che la valigia viene disfatta.

Ma io ero diversa, e l’ho capito presto: invece che essere lasciata del mio colore naturale, in conceria mi hanno tinto di rame con riflessi dorati: era come trovarsi a capo scoperto ad esibire le meches fresche di parrucchiere alle donne della medina con i folti capelli scuri nascosti sotto l’hijab. Non potevo sopportare gli sguardi di disapprovazione dei conservatori, dovevo lasciare Essaouira al più presto.

Dalla conceria passo quindi al piccolo laboratorio di una designer che mi aiuta ad evolvere nella mia forma definitiva: sono rettangolare, ho 3 pieghe, una comoda apertura superiore a zip e una tracolla laterale.
Non appena finita la fase dello sviluppo, lascio il laboratorio per trasferirmi in un piccolo negozio dai colori accesi e dai ritmi rilassati: sto seduta su un pouf insieme ad altre giovani borse, ascolto tanto musica che viene da lontano e tengo gli occhi fissi sulla porta, aspettando la persona che mi porterà via con sé.
Ricordo bene quel periodo: entravano tante donne, soprattutto turiste, curiose di visitare un atelier: alcune non mi notavano nemmeno, altre mi accarezzavano e poi mi riappoggiavano sul pouf dopo aver letto l’etichetta del prezzo. La spensieratezza generale era però venata da stress: magari stavo chiacchierando con la borsa dello scaffale di fronte, fantasticando su cosa ci sarebbe piaciuto nascondere, contenere o trasportare, e in un attimo quella veniva sollevata, appoggiata vicino alla cassa, infilata in una busta di plastica lasciando così per sempre il mio campo visivo e la mia vita; ero consapevole che poteva succedere in ogni momento, ma non mi sono mai sentita pronta per questi frettolosi addii.

Finché un giorno, un giorno come gli altri, non sono entrate in negozio due sorelle italiane e dopo averci spupazzate tutte hanno scelto me. Senza rendermene conto ero io quella che lasciava Essaouira senza salutare.

Non è stato amore a prima vista il nostro… Sono stata selezionata dopo un’attenta analisi su quali colori e forme potevano avere più possibilità di non stancare, come succede con i cestini del souk. Ho attraversato altre 4 città del Marocco chiusa nello zaino e una volta in Italia le altre borse mi hanno fatto spazio nell’armadio.

Sono l’unica non europea del gruppo e anche se la mia forma la ricorda, non potrei mai essere scambiata per una pochette: parlo un francese scolastico con un forte accento arabo, non sono di certo una taglia extra small, non ho la rigidità di una clutch, ma mi adatto alla mano che mi stringe o al fianco su cui mi appoggio; qualsiasi borsa da sera si vergognerebbe a riempirsi fino a mostrare delle rotondità, mentre io non ho spigoli vivi, sono molto più capiente di quanto sembro e sono contenta di rendermi utile.

Non sono una borsa di città, che mal sopporta i lavori manuali, un contenitore fragile anche all’interno: io non ho una fodera di seta, ma sono doppiata in pesante broccato con disegni ispirati ai tappeti del mio paese d’origine. Ho pure una tasca, profonda, perché devo tenere separati telefono e chiavi di casa senza che nessuno si graffi, me inclusa.
Ho la cerniera a vista, delle borchiette su un fianco e invece che un laccio corto da legare al polso, da un gancio laterale mi parte un’unica tracolla fatta di tante listarelle di pelle intrecciate. Sono comoda senza essere fuori luogo in una situazione formale, e questo mi ha permesso di essere scelta per svariate occasioni. 

Sono in Italia dal 2011 ormai, e le mie colleghe sono diventate anche le mie amiche.

Condivido lo scaffale con borse che hanno 40 anni di servizio alle spalle: hanno accompagnato due generazioni, perso e cambiato colore, conquistato graffi e pieghe sul campo, cercano di non mostrare la fodera rattoppata, i denti della zip che si inceppano, ma sono passate allo status di vintage e qualcuno si gira a guardarle chiede loro l’età, ma in modo garbato, come la si chiede ad una signora solo per poterle fare i complimenti.

Ci sono poi le borse da battaglia, le mie preferite: quelle che escono di casa tutti i giorni, prendono i mezzi pubblici, la pioggia, gli spigoli dei libri nei fianchi oppure cadono dal sedile dell’automobile per una frenata brusca e vomitano il contenuto sui tappetini. Le borse che non vengono svuotate quasi mai, che passano la vita appese per i manici all’appendiabili. Fanno un lavoro logorante, ma conoscono il mondo meglio di tutte noi altre messe insieme.

E poi ci sono le borse nobili, quelle che non hanno mai avuto bisogno di lavorare: c’è questo secchiello di coccodrillo che si gode la pensione avvolto in una federa di lino sul ripiano più alto dell’armadio, e che ogni tanto viene invitato ad un evento. I suoi racconti spaziano dall’infanzia dorata di cui descrive le cure ricevute durante la manifattura esclusiva, alla fama sotto i riflettori delle vetrine del centro da cui sosteneva lo sguardo di tante donne che volevano possederlo. ‘Io non sono mai stato un semplice contenitore’ afferma, ‘negli anni '80 ero un simbolo, non dovevo nemmeno presentarmi... Il mio status bastava. Con la crisi sono diventato anacronistico, un’offesa a chi non ha i soldi per arrivare alla fine del mese. Sono troppo sbruffone per essere portato in un luogo pubblico. Ma invecchierò come il vino buono, aumentando di valore, e sono già pronto alla mia nuova stagione di gloria’.

Io per ora ho un contratto a chiamata, e lavoro di solito il sabato sera: sto bene con tanti colori, non ho una stagione preferita e vado d’accordo sia con i tacchi che con i jeans. Per questo sono spesso in libera uscita.

Il mio momento preferito sono i matrimoni, e ne ho visti parecchi: seguo la cerimonia dal banco della chiesa, vicino ai fiori, e una volta al ristorante vengo adagiata su una tovaglia candida e torno a casa piena di ricordi. Ho imparato a nascondere un confetto sul fondo perché voglio riempirmi del suo profumo.

La discoteca invece mi piace meno: mi ricordo il mio primo capodanno, passato su uno sgabello soffocata dai cappotti di tutti: un inferno. Sentivo solo le giacche lamentarsi del caldo, e io per la prima volta ho avuto paura di essere rubata, o abbandonata lì. Mi avevano tolto anche il compito di custodire il portafoglio, mi sentivo inutile così svuotata.

Forse il mio attacca di panico ha lasciato il segno perché da allora vengo sempre lasciata in guardaroba, di solito uno stanzino freddo e inospitale, dove mi buttano in terra in un angolo, con un adesivo orrendo appiccicato in faccia e devo aspettare ferma per ore, mentre la musica che rimbomba nei muri mi fa venire il mal di testa. Non capisco perché mi portano a ballare se poi non posso scendere in pista…
Quando torno nell’armadio puzzo di fumo e le altre mi chiedono se mi sono divertita. Sopporterei meglio un pomeriggio chiusa nell’armadietto della palestra, con i calzini sporchi dimenticati.

Ogni tanto faccio un trattamento di bellezza, e un batuffolo di cotone imbevuto di latte detergente mi accarezza da cima a fondo, togliendo la sporcizia che ho assorbito sul lavoro e lasciandomi morbida e profumata. È un momento bellissimo, che mi rilassa e mi prepara a quelle che mi piace chiamare ferie. Non sono ancora pronta ad essere dismessa, a finire in una custodia di cotone nel ripiano più alto, anche se lo so che presto arriverà una borsa più giovane e carina di me, con la voglia instancabile di uscire a fare serata.
Quando fantastico sul mio futuro ho un solo desiderio: quello di essere riscoperta: immagino un trasloco, o una pulizia dell’armadio, quando nessuno si ricorderà più di me; forse finirò in uno scatolone, forse in un negozio dell’usato, chissà… Ma spero di incrociare di nuovo lo sguardo curioso di una donna che mi solleverà, infilerà la mia tracolla sulla spalla, e sorriderà alla sua immagine allo specchio.