Saturday 18 February 2012

Cacio e pepe

Ho ricominciato a andare a Milano tutti i giorni. Lo so, le cattive abitudini sono dure a morire.
E ogni giorno si ripresenta l’annoso problema della pausa pranzo.
Un giorno sono andata da Mac Donald’s, a assaggiare un hamburger con la mozzarella: non è stato il pranzo più indimenticabile della mia vita, ma le aspettative erano abbastanza basse.
Ieri invece, per interrompere una dieta di preziosissime pizze e focacce (a giudicare dai prezzi), ho deciso di regalarmi una mezz’ora seduta e di gustarmi un pasto caldo.

Solo che non è stato facile come sembrava…

Scelgo un baretto molto frequentato e, per non rubare il posto agli aficionados, chiedo al barista dove posso sedermi: questo scrolla le spalle e mi dice “siediti”. Eseguo l’ordine e vengo subito assalita da un cameriere che ha fatto della simpatia forzata il marchio di fabbrica.
Ordino un piatto di pasta, e appena il gioviale personaggio si allontana, dopo aver pronunciato “ottima scelta!”, mi rendo conto di aver commesso un errore: ho ordinato della pasta in un locale senza cucina.

Tempo due minuti mi viene scaraventato sul tavolo, senza tante cerimonie, un piatto con dentro una bestemmia: una dozzina di penne (non rigate!) scotte, riscaldate al microonde e di nuovo raffreddate, secche e appiccicaticce, tenute insieme dal formaggio e naviganti in un dito d’olio.

Premessa necessaria: io mangio di tutto e di gusto, ma non mi piace essere presa per il culo. E io con questa pasta ce l'ho messa tutta, ma non sono riuscita a finirla.

Mi è montata dentro una rabbia che sono riuscita a sopprimere solo raccontando il mio disagio alla prima persona che mi è capitata a tiro: se non avessi avuto l’ardire di lamentarmi con il proprietario del bar, quella pasta mi sarebbe rimasta sullo stomaco.

Trovandomi nei panni della cagacazzo, ci sono andata cauta, esordendo con un mea culpa “forse ho sbagliato io a ordinare, dato che non avete la cucina…” prima dell’affondo “... ma voi non potete presentare una pasta così!”. Sono passata quindi alla descrizione di tutto quello che c’era di sbagliato in quel piatto, concludendo con un consiglio non richiesto “insomma, se la pasta non potete cucinarla, non mettetela sul menù”.
In tutta risposta, mi sono sciroppata un’accurata analisi costi/benefici: a quanto pare, gli affari danno ragione all’oste e i numeri parlano chiaro se, a fronte di una persona insoddisfatta del servizio (la sottoscritta), lui sfama le restanti 120/150 persone che ogni giorno si accalcano nel suo locale. Sarà. E soprattutto, devo tenere ben presente che “la pasta la faccio pagare solo 5 euro, non 15”. Egraziealcazzo, mi sono trattenuta dal ribattere.

Io non voglio insegnare il mestiere a nessuno, ma come si fa a sbagliare così clamorosamente una pasta che non ha nemmeno il sugo? Non ti ho chiesto un aspic di aragosta accompagnato da spumiglie di foie gras. Un piatto di pasta, perdio!  Per lo stesso motivo, non vedo perché devi farmi credere che stai facendo volontariato, della serie “sfamare gli affamati”, quando invece con i 5 euro miei fai la spesa per 3 chili di pasta cacio e pepe.

E lì ho capito due cose: che un arredamento di gusto non è garanzia di buona cucina. E che i milanesi probabilmente si nutrono di design.

Quando ho lavorato come cameriera, parte del mio lavoro era assicurarmi che i clienti fossero soddisfatti; anche se chiedere a un tedesco se si era trovato bene in un ristorante italiano era retorico, lo facevo comunque, e quando mi rispondeva “buonissimo!” mi inorgoglivo tutta, manco fossi stata io a spadellare ai fornelli.
Invece in questo caso una critica è servita solo a insospettire il mio interlocutore, che mi ha fatto comunque pagare la pasta che non ho mangiato, offrendomi un caffè per seppellire l’ascia di guerra.

Potevo pagare, uscire di lì incattivita e sputtanarlo, e invece ho voluto essere trasparente, segnalare la mia insoddisfazione, uscire a cuor leggero e sputtanarlo.

La vita è troppo breve per mangiare cibo scadente. 

Sunday 12 February 2012

Ciao amore ciao

Ho appena finito di leggere un libro –Caos calmo di Veronesi– in cui il protagonista crede che la moglie scomparsa comunichi con lui attraverso i testi delle canzoni dei Radiohead.

Ho avuto anch’io un’epifania di questo genere: ascoltando in loop l’ultimo disco dei Black Keys, una collezione di canzoni tanto ruvide quanto ruffiane, una frase, tra le tante orecchiabilissime che si incollano alla lingua, continua a rimbombarmi nella testa: She’s the worst thing, I’ve been addicted to, che in italiano, snaturata la ritmica incalzante, suona come lei è stata la mia peggiore dipendenza.

Queste parole, ribaltate sulla prospettiva femminile, descrivono cosa per me è ora la persona che per quattro anni ho definito il mio ragazzo: la dipendenza più forte e pericolosa mai provata.

Posso affermarlo adesso, che ne sono uscita, ora che sono pulita, dopo essere passata attraverso tutte le fasi dell’intossicazione:
  • La scoperta
Mi incuriosiva. Mi piaceva, tanto, d’altronde mi era piaciuto da subito. E mi piaceva sempre di più man mano lo conoscevo. C’erano tutte le premesse: il mistero che lascia spazio alla complicità, la continua riscoperta.

Come con qualsiasi sostanza psicotropa, ero sotto prima ancora di rendermene conto.
  • L’assuefazione
Volevo solo stare con lui. Sempre. L’ho amato di un’adorazione che solo una liceale può professare senza perdere la faccia, cercavo di compiacerlo in tutto e non accettavo di vederlo contrariato.

Ero terrorizzata di non essere alla sua altezza.

Ho amato incondizionatamente, preoccupata esclusivamente della sua felicità. E siamo stati felici, e tanto, sostenuti da quella spensieratezza che ti fa credere che tutto sia possibile.

Giocavamo, ma nessuno aveva stabilito le regole. Con il risultato che nessuno dei due ha vinto.

Il nostro unico comandamento era rimanere liberi all’interno della coppia. Solo che la libertà si trasforma velocemente in egoismo, se si perde di vista l’obiettivo comune.
  • La dipendenza
Avevo bisogno di quelle massicce scariche di endorfine generate dal nostro stare insieme.

Pensando alle circostanze in cui ci eravamo trovati, mi ero convinta che lui fosse l’unico possibile per me, l’unica persona che calcasse il mio universo spazio-temporale, la cui imperfezione si incastrasse perfettamente con la mia imperfezione. Non tanto la mia metà –da donna emancipata non accettavo il fatto di aver bisogno di un uomo che mi completasse- ma sicuramente qualcuno che arricchiva la mia esistenza.

Il problema della dipendenza però è il suo essere a senso unico, e il danneggiare sempre solo una delle due parti: l’alcool se ne sta tutto tranquillo in una bottiglia; può cercare di sedurmi promettendomi di rendermi infinitamente più attraente di quanto sono in realtà, ma la sua influenza si ferma lì. Sono io quello che stappo la bottiglia e vado incontro alle conseguenze.
  • La crisi da astinenza
L’ho seguito ovunque, a volte l’ho inseguito e il resto del tempo l’ho aspettato.

Ho imparato a sopportare la solitudine, docile e fiduciosa che una ricompensa sarebbe arrivata.
Mi mancava terribilmente, quando mi tagliava fuori dalle sue malinconie, ma non volevo farglielo pesare; volevo dimostrarmi più forte, più indipendente di quanto fossi in realtà.
  • Il collasso
E poi sono stata male: non ho avuto bisogno di una puntura di adrenalina nel cuore, come Uma Thurman/Mia in Pulp Fiction, ma per riprendermi ho dovuto passare attraverso la presa di coscienza che qualcosa non andava, nonostante continuassi a negare l’evidenza.
  • Il distacco
Doloroso ma necessario. Fisico, come la subitanea (e per me allarmante) perdita di appetito che ha seguito la separazione e che mi ha portato fino allo studio di un medico il quale, premuroso ma schietto, mi ha messo alla porta dopo soli due minuti: d’amore non si muore, a quanto pare.
  • Il desiderio di rivalsa
Ce l’ho fatta. Ce l’ho fatta. Ce l’ho fatta.
E tu devi accorgertene. Voglio che tu sappia che non ho più bisogno di te per sorridere; ma prima devo convincere me stessa.
Sto bene. Sto bene. Sto bene.
Starei ancora meglio se ti rendessi finalmente conto di avermi persa. Perché la cosa peggiore che puoi fare a uno dei tuoi affetti è darlo per scontato. Bisogna meritarselo, l’amore, e custodirlo.
  • La sobrietà
Ci siamo rivisti, dopo 6 mesi di sporadici contatti: all’inizio telefonate tecniche, quasi investigative, con cui provavamo a ricostruire l’accaduto perdendoci invece in un magma di recriminazioni. Poi siamo passati alla civile conversazione, raccontando dell’io, chiedendo del tu e evitando accuratamente di fare riferimento al noi.

Ho fatto uso di surrogati, come la chat: un contesto protetto in sono riuscita a lasciarmi andare. Proprio come era successo all’inizio, quando avevamo capito che non eravamo solo buoni compagni di master.

E poi, settimana scorsa, abbiamo passeggiato in centro, proprio come era successo all’inizio, quando cercavamo scuse per ritagliarci dei momenti solo per noi.

Solo che le farfalle nello stomaco non c’erano più.

Sono come un'ex alcolista che catapultato in una festa con l’open bar ordina solo coca cola. E non perché ha paura di ricascarci, ma perché ha scoperto che la coca cola le piace tantissimo.

Ho voltato pagina, e se qualcuno mai mi metterà alle strette chiedendomi di giustificare alcune scelte compiute in passato, risponderò orgogliosa “perché ero innamorata”.

Non sarà una risposta dalla logica inappuntabile, ma mi sembra una spiegazione più che nobile.