Tuesday 31 January 2012

Disoccupati anonimi

Sono Claudia, ho quasi 30 anni e sono disoccupata. E questo non mi definisce, anche se devo ammettere che a parte il nome, gli altri due aspetti danno un quadro abbastanza chiaro della situazione.
È un dato di fatto, e finora sono riuscita a non farne un dramma: essere disoccupata e non sentirlo, forse perché, in risposta a un istinto di conservazione diventato prepotente in un momento così incerto della mia esistenza, sono riuscita a stabilire una routine.

Mi sveglio quando la Gilda, il cocker di casa, appoggia il suo naso umido contro il mio, come a controllare che respiri ancora, confusa dall’assenza di logica: “com’è che al piano di sotto si fa colazione, c’è cibo sul tavolo e questa non si muove dal letto?”; allora mi alzo, e ogni mattina mi concedo il lusso di bere il caffè in pigiama, leggendo un libro e senza controllare continuamente l’orologio. Poi mi lavo la faccia, accendo il computer e vado online a fare il punto della situazione. Fino all’ora di pranzo leggo e rispondo a mail, annunci o compilo form. Cazzeggio anche parecchio su Facebook, confesso, ma quello si fa anche in ufficio. Il pomeriggio lo inizio con i Simpson (l’unico programma guardabile) e quando spengo la TV cerco di trovare qualcosa da fare che non mi obblighi a stare di nuovo seduta davanti a uno schermo. Tra i progetti più riusciti ho incollato foto a un album, creato spille e riordinato la soffitta. Un paio di volte a settimana aiuto un liceale a preparasi a verifiche e interrogazioni.      
A singhiozzo ma comunque da quasi tre mesi, questa è la mia vita. 

Non sono una persona metodica, ma stavolta un po’ d’ordine me lo sono dovuta imporre: ho un file Excel  su cui riporto con rigore da ragioniere nome dell’azienda, indirizzo del sito, e-mail del contatto e data in cui ho inviato il CV. Recentemente ho aggiunto la colonna “risposta” e lì è tutto un copia e incolla di “no grazie”.

Ieri, con il rigore scientifico che questo schema mi impone, mi sono messa a contare le richieste che ho inviato da ottobre a oggi. Sono 179, una cifra che, sommata ai curriculum consegnati a mano in scuole e studi di Brescia e Milano, sfonda il ragguardevole tetto dei 200.
200 CV che corrispondono a 200 potenziali posti di lavoro, e in tutta risposta due contratti consegnati per presa visione e non controfirmati, un paio di trattative in atto, una ventina di repliche negative ma incoraggianti e il resto inghiottito dall’oblio.  
E anche se solo il 10% di questo numero che continua a sembrarmi importante riguardava posizioni aperte, anche con l’autocandidatura non mi sembra di aver fatto improvvisate.

La legge dei grandi numeri qui non si applica: non esiste una percentuale di successo a cui aggrapparsi aumentando esponenzialmente il numero dei contatti. Forse alcune delle mie richieste sono state un po’ azzardate, per posizioni che non rispecchiavano quelle da me occupate in passato, ma mi piaceva aumentare il fattore casualità nell’equazione.  
In generale però, la mia ricerca è stata guidata dal fatto che io mi ci vedevo alla scrivania di ognuno di questi uffici; ogni lavoro per cui ho fatto richiesta me lo sono provato addosso, come un paio di jeans.
Tutti siamo disposti a pagare caro quel paio di jeans che ti calzano come un guanto a cui saremo eternamente grati per  averci salvato in innumerevoli occasioni in cui nessuna mise sembrava funzionare; ma se li troviamo nei saldi, possiamo farci andar bene anche un paio di jeans che vanno un po’ stretti, o magari quelli che non fanno un grande favore alla figura, ma che si abbinano all’intero guardaroba.

Non trovo lavoro e non capisco dove sia il problema: peccherò di presunzione, ma non è solo colpa mia. Non posso essere l’unica responsabile. 
Ho letto e riletto il mio CV, e la mail che lo accompagna, drammatizzando il distacco da quelle parole di cui so di essere l’autrice: sono entrambi studiati, rielaborati e ripuliti fino alla nausea per raggiungere il giusto equilibrio di sintesi e leggerezza, ottenuto con ingredienti quale foto segnaletica, font sbarazzino, dettagli personali e personalizzati.
No, il problema non sono io. Pur con i miei evidenti limiti, il mio navigare a vista in campo professionale, il mio totale disinteresse (o forse disillusione) riguardo a prospettive di carriera, non sono l’ultima degli stronzi.
Sono un essere pensante, bisognoso di contatto umano e con un disperato bisogno di sentirsi utile.   

Puntando proprio sul fattore umano, mi sono prefissa di presentarmi in carne ed ossa in tutti gli uffici che è possibile raggiungere con una gita fuori porta. Settimana scorsa ero a Milano con una lista di indirizzi e una cartina e per una dozzina di volte mi si è ripetuta davanti agli occhi la stessa scena: suono, mi viene aperto e avanzo nel silenzio di un immacolata hall; gli uffici non si vedono, né tantomeno le persone che negli uffici ci lavorano: ogni intrusione viene bloccata dal candido sorriso di un’angelica segretaria che sbucando da dietro il colossale MAC che troneggia sull’unica scrivania visibile prende in consegna i due fogli pinzati insieme che le allungo -mi sembra una bestemmia passarle della carta, per di più strapazzata da ore passate nella mia borsa- e, senza smettere di sorridermi, mi dice "lo consegno al/alla responsabile al termine del meeting in cui è al momento impegnato/a". Prima di salutarmi, un paio di loro mi hanno pure chiesto per cosa mi candidassi, ma per pura curiosità, che andava oltre a quello per cui sono state addestrate.

Ma i più belli sono stati quelli della Fox: bypassata la scrivania della segretaria –scrivania vuota, segretaria malata o in pausa pranzo- mi è toccato scomodare un creativo dal suo scranno. Qui addirittura, facilitata dalla prossimità fisica ho azzardato una stretta di mano e intonato quattro parole di presentazione. La reazione: dopo avermi fatto notare che ero nella città sbagliata -del recruiting se ne occupa Roma- arriva il consiglio, brillante: “non ha consultato la sezione lavora con noi del sito?”.
Ti rispondo via mail.

Thursday 26 January 2012

Ameni inganni

“Culicchia, non ci siamo: hai scritto un libro inutile”. Così avrebbe dovuto dirti il tuo editor. Non ti avrebbe fatto piacere, certo, ma non avrebbe deluso così tante persone che hanno amato le tue storie.
Perché nella tua carriera hai scritto pagine di struggente bellezza, ma nelle duecento e passa pagine del tuo ultimo romanzo non ne ho trovato nemmeno l’ombra.
Hai scritto un libro facile, superficiale, come una sveltina nei bagni di una discoteca.
Noi lettori vogliamo lasciarci sedurre dai personaggi, vogliamo passare con loro languide notti di passione e tenerezza, vogliamo il contorno di champagne, fragole, cioccolato, candele profumate e bubble bath, per non uscire di metafora. Possiamo sembrare anche lettori facili, in realtà siamo pronti per qualcosa di meglio, di inaspettatamente grandioso, come Julia Roberts in Pretty Woman.
Sì, questo è il mio ideale romantico.

Un libro che si esprime al meglio nel risvolto di copertina è come un film il cui il trailer riporta solo e tutto quello che vale la pena vedere. Il resto in entrambi i casi è tempo perso.
Per sicurezza il tuo libro oggi lo riporto in biblioteca, prima che mieta altre vittime tra i miei curiosi e famelici familiari, che ancora leggono quello che gli capita sotto mano senza prima contare le stelline delle recensioni. E meno male che uso ancora la tessera della biblioteca: in libreria non hanno mai sperimentato la formula “soddisfatti o rimborsati”, e se avessi comprato la bella edizione rilegata con l’ammiccante illustrazione psichedelica sarei rimasta con diciotto euro in meno nel portafogli, e mezzo chilo di carta in più a prendere polvere su uno scaffale. Perché questo, signor autore, è il tipo di libro che non finisci nemmeno per perdere a casa di qualche amico a cui l’hai prestato: questo libro ti rimane sul groppone, a ricordarti dei tuoi acquisti sbagliati come quel paio di scarpe in velluto viola cardinalizio che non sono mai riuscita a indossare (tanto belle nella scatola, tanto improponibili con qualsiasi accostamento). O come i libri di Fabio Volo.
Solo che lui non ha la tua credibilità letteraria da difendere.

Ma esponiamo il capo d’accusa: la premessa del romanzo è che Alberto, un quarantenne con tendenze autistiche, ossessionato da riviste porno e modellini di astronavi, perde la madre con cui ancora viveva e deve cavarsela da solo, affrontando problemi pratici come la gestione della casa e cercando di venire a patti con le sue immaginarie relazioni. Ma poi nel libro manca tutto il resto: la premessa è la storia, che non si smuove, non si sviluppa, non devia fino ad arenarsi in un finale che sa di già letto.

Cos'è successo, Culicchia? Lo so, non è un momento facile per nessuno, ma sono sollevata all'idea di non aver contribuito direttamente a pagarti il mutuo.

Non mi sei sembrato particolarmente ispirato, tutto qui… Forse voi artisti potete concedervi il lusso di innestare il pilota automatico: se sei davvero bravo a fare una cosa, e quella cosa ti esce sempre bene, a una certa non c’è più bisogno di sperimentare, e si riesce a rispettare le scadenze venendo allo stesso tempo incontro ai gusti del pubblico.
Io invece, che non ho un talento particolare, riesco a ritenermi soddisfatta di quello che faccio mai per un caso fortunato, ma solo quando vedo il frutto di tante ore passate in febbrile attività e con una paura immensa di fare un grosso errore.

Ecco, forse a te è mancato il coraggio: hai scelto di andare sul sicuro, e hai raggiunto un risultato mediocre.

Ti lascio con un consiglio: la prossima volta, invece che portare il lettore a riconoscersi nel protagonista con le sue nevrosi e disgrazie, cerca di ispirarlo, con personaggi che compiono gesti piccoli e belli, facili da imitare. Ce n'è di bisogno.