E grazie al cielo, a due settimane di distanza, nessuno
sembra ricordarsi che la nazionale spagnola ha umiliato quella italiana sul
capo di battaglia dell’epico scontro europeo, stravincendo con punteggi da oratorio
una partita di rilievo per il mondo del sempre meno nobile giuoco del calcio.
Non abbiamo vinto gli europei. “Abbiamo” chi, poi? Io non
ero a Kiev, domenica primo luglio: non ero né in campo, né in panchina, né tantomeno
sugli spalti, eppure… il calcio porta con sé un campanilismo difficile da rintracciare
in altri sport e soggetto a violente derive provinciali: quanti i bresciani che
hanno lamentato una mancanza di attenzione nei confronti dei giocatori nostrani,
con tre concittadini pilastri della nazionale (Pirlo, Balotelli e Prandelli) e
nemmeno uno schermo tirato su in piazza per la finale.
Abbiamo perso la finale contro una squadra che anche ai
miei occhi inesperti è risultata nettamente più forte, con la palla che
continuava a rimbalzare tra i piedi di giocatori spagnoli di cui continuerò a
ignorare il nome con la rapidità della pallina di un flipper.
Io la finale l’ho vista tutta, anche se non l’ho proprio
vissuta: sprofondata in poltrona dopo un’overdose di carboidrati, mentre
cullavo una birretta e mi sbriciolavo patatine in grembo, ho fatto fatica a
tenere gli occhi aperti per l’intera durata del secondo tempo, quando tutto
poteva ancora succedere ma quando già nessuno ci credeva più. Con gli altri 8 casual supporter, abbiamo sportivamente
aspettato il doppio fischio dell’arbitro per lasciare casa e vagare in un centro
città deserto alla ricerca di un gelato. Non spinti dal bisogno di consolarci,
ma semplicemente consapevoli di meritarci una ricompensa per la lunga
sopportazione.
Non avevamo motivo di rimanerci male: d’altronde, nessuno
che dica una frase qualsiasi di quelle riportate qua sotto può considerarsi un
tifoso:
“Vabbè dai, non sono mica i mondiali… E poi non
dimentichiamoci che i crucchi li abbiamo mandati a casa”
“Era peggio se perdevamo ai rigori, no?”
“Chissà che servizietto gli fa Shakira a Piqué questa
sera…”
Le qualificazioni invece, mi hanno incuriosito di più:
come quando la sera di Italia - Inghilterra sono rientrata a casa dei miei a un’ora
in cui i miei sono solitamente in fase rem per trovarmeli entrambi con il fiato
sospeso davanti ai rigori. Mio padre, che non concede mai alla televisione il
100% di attenzione, quella sera non aveva il giornale dispiegato sulle
ginocchia e quando Pirlo si è dilettato con il cucchiaio, ha accennato un
applauso.
La semifinale ho rischiato di non vederla: sapevo che sarei
rientrata tardi a casa e che ci sarei rimasta, e mi ero studiata la guida TV.
Sapevo anche che c’era la partita, ma la controprogrammazione mi aveva già messo
in difficoltà: alla stessa ora davano anche Milk, il film di e con Sean Penn, e
un documentario sulla minigonna. Il progetto era quello di iniziare con il
documentario, passare alla partita al secondo tempo e in caso di noia ripiegare
sul film che comunque avevo già visto.
Il mio piano sapientemente elaborato ha subito però una
brusca modifica quando ho aperto la porta e ho visto Marta, la mia coinquilina,
in assetto da hooligan. La Marta, che il giorno prima l’aveva passato nel backstage
della sfilata di Gucci a picchiettare lucidalabbra sulle bocche perfette di una
dozzina di modelli, e il giorno stesso aveva messo le mani in faccia a Raul
Bova (lo so, il mondo del lavoro è ingiusto), era sull’orlo del divano
praticamente in reggiseno in un bagno di sudore, un fascio di muscoli pronto a
saltare come una molla, con il collo allungato e gli occhi alla Schillaci che
non perdevano nemmeno un’azione.
In effetti, la disposizione dei mobili nel nostro
appartamento non è il massimo: la TV, redenta sulla via dell’isola ecologica,
ha uno schermo bonsai e per leggere le grafiche bisogna starci a un metro di
distanza. Peccato che il divano si trovi ad almeno 3 metri dal mobile TV, e che
tra il divano e la TV troneggi il tavolo da pranzo. Ma la necessità aguzza l’ingegno,
si sa: approfittando della pausa tra primo e secondo tempo ci siamo inventate un improbabile accrocchio
di cavi, mettendo a repentaglio il già debole segnale dell’antenna, e questo ci
ha permesso di spostare la TV sul tavolino da caffè e di goderci il secondo
tempo spiaggiate come Paolina Borghese, dando fondo a un’intera confezione di
oneste birre del Lidl che custodiamo in frigo per i momenti speciali. Mancava
solo la frittatona di cipolle a completare il quadretto.
Esilarante il nostro commento tecnico:
“Hai notato che prima stavamo molto più di qua che di là?”
“Ma il mediano è come il centrocampista?”
“Questo è carino. È tedesco?”
“E questo? Si è fatto le mèches?”
“Bene, ora dove andiamo a fare gol? A destra o a sinistra?”
“ohohoh
Balotelli, you’re a striker…”
E poi sono arrivati i gol: e dalle finestre aperte è
entrato il boato del bar sotto casa.
Io e Marta ci siamo abbracciate, consapevoli
dell’assurdità della situazione: perché non c’è nessuna spiegazione logica
dietro all’euforia che ti prende in momenti così, è nonostante ciò conviene non
lasciar spazio ai sensi di colpa e abbandonarsi ai festeggiamenti, che una
botta di endorfine ogni tanto sicuramente male non fa.