Wednesday 6 March 2013

My favourite addiction


Gilda si rotola nella neve, con l’entusiasmo contagioso del cucciolo alla prese con le prime volte, e io mi ritrovo a correre fra i filari per farmi inseguire. È un cane tutto orecchie, e sembra che sorrida sempre. Le sono grata per avermi fatto uscire di casa, nonostante il gelo. E non mi va di rientrare subito… finché questo pallido sole regge, mi godo la mia campagna monocromatica. Questa scenografia è così bella che si merita una colonna sonora: accendo l’iPod e seleziono i Black Keys; c’è una canzone del loro ultimo album che mi piacerebbe aver scritto, e che ho eletto a mantra. Quando arriva il ritornello, “She’s the worst thing, I’ve been addicted to”, lo canto di gustoSe non mi fossi liberata della mia peggiore dipendenza, probabilmente in questo momento gli starei scrivendo per raccontargli di Gilda, della neve e della mia campagna. E invece tengo tutto per me.

Mi chiamo Claudia, ho 30 anni e sono una codipendente emotiva. Non si dice mai ex codipendente, così come non si dice ex alcolista, perché con l’intossicazione non si sa mai. Ma sono sobria da 18 mesi e le fasi della dipendenza le ho vissute tutte:

·         La scoperta

Sull’interregionale che ci sta portando a Venezia, si viaggia con i finestrini abbassati: l’aria condizionata è fuori uso, le tende frustano l’aria e il frastuono dei binari riempie il vagone. Siamo seduti uno di fronte all’altra, con un libro aperto sulle ginocchia. Mancano pochi giorni agli esami del master, e Francesca ci ha invitati a casa sua per il fine settimana; ci siamo pure ripromessi di ritagliarci un paio d’ore per un ripasso generale… Sappiamo che non succederà, ma almeno abbiamo la coscienza a posto. Il mio sedile è immerso nel feroce sole di luglio, e quando mi infilo gli occhiali da sole lui mi fa: “Sai che così assomigli un po’ a Uma Thurman?”; lo urla in effetti, per abbattere il muro di suono che ci separa e in tutta risposta mi trovo gli occhi di tre sconosciuti addosso, a valutare l’effettiva somiglianza. La battuta che mi spetta: “ma che cazzo dici?” non si presenta in tempo e viene rimpiazzata da un trasognato “davvero?”

Quella stessa sera, Venezia è il nostro parco giochi: dopo che l’ultimo turista è salito sul vaporetto che lo riconsegnerà a Mestre e ai suoi alberghi, lasciamo l’appartamento di Francesca e scriviamo una traiettoria tra campi e calli che finiscono in un canale, raccogliendo facce nuove lungo la via. Consumiamo spritz sovradimensionati cercando di asciugarli con pizze mangiate direttamente dal cartone, seduti sui gradini di qualche chiesa, e ripetiamo la sequenza fino a perdere il conto e il controllo. Del resto ricordo poco, ma mi sembra di aver portato qualcuno in spalla, di aver rimpianto di non essere maschio per non poter pisciare dal ponte di Rialto e di essere finita schiena a terra in piazza san Marco dopo aver azzardato qualche mossa di capoeira. Ricordo anche che durante la notte ho aperto gli occhi e lui era disteso di fianco a me, e respirava leggero, il viso consegnato all’abbandono, arreso al sonno senza incubi delle persone che non hanno niente da rimproverarsi. E ho espresso il desiderio di svegliarmi altre volte al suo fianco. 

·         L’assuefazione

Quando l’ho baciato la prima volta, l’unica luce era quella della luna. Avevamo i piedi a mollo in una piscinetta gonfiabile, nel giardino della casa in cui sono cresciuta. La piscina era stata un’idea mia: l’avevo installata per giustificare il tema della festa, un pool party che faceva il verso a Hollywood, e per obbligare i miei amici a indossare il pareo e a liberalizzare i gavettoni. Un anno più tardi ci baciavamo in piedi nella vasca del mio appartamento, rigorosamente con i piedi in acqua. Avevamo dei rituali, e momenti che erano solo nostri: il mercoledì mattina raggiungevamo Milano da due città diverse, e mentre il treno rallentava per entrare in stazione centrale, ascoltavo la nostra canzone, sapendo che lui stava facendo lo stesso. Minuti più tardi, facevamo colazione insieme sotto alla radio con cui collaborava. Ci tendevamo imboscate e visite a sorpresa, ci lasciavamo biglietti nascosti nelle tasche.
E siamo stati felici, e tanto, sostenuti da quella spensieratezza che ti fa credere che tutto sia possibile.
La nostra prima estate insieme, lui aveva insistito per raggiungermi in Sardegna, dove facevo la stagione come cameriera: io dovevo essere riconsegnata ogni sera alle 7; lui ogni mattina passava a prendermi in motorino e insieme facevamo fuga, come due liceali  che scappano dalla versione di latino. In quelle due settimane senza sonno, ci siamo baciati su ogni spiaggia della Gallura.

·         La dipendenza

Avevo bisogno di quelle massicce scariche di endorfine generate dal nostro stare insieme.
Pensando alle circostanze in cui ci eravamo trovati, mi ero convinta che lui fosse l’unico possibile per me, l’unica persona che calcasse il mio universo spazio-temporale, la cui imperfezione si incastrasse perfettamente con la mia imperfezione.
Ma stare insieme era una scommessa, da quando aveva trovato lavoro a Francoforte e ci eravamo rassegnati alla recitare la parte dei pendolari dell’amore.

·         La crisi da astinenza

“Sono stufo di stare qui”, aveva annunciato una sera, rientrando dall’ufficio. Un mese più tardi stringeva fra le mani un biglietto per il giro del mondo in otto tappe e sette mesi. E io mi ero affrettata a regalargli uno zaino, con sommo orrore di mia sorella. Ero la sua più grande fan: capivo le sue ragioni, ma non le sposavo quando diceva “voglio fare questa esperienza da solo, voglio mettermi alla prova”.
E così, tralasciando una breve convivenza, da pendolare dell’amore mi sono ritrovata a farne da cronista: narravo le sue gesta a persone che in quei racconti cercavano il mio personaggio. Per accontentarle, ho comprato un biglietto e l’ho raggiunto in Indonesia. Una sorpresa che aveva il sapore di un’invasione.
Era solo il nuovo capitolo di una storia in cui l’ho seguito ovunque, a volte l’ho inseguito e il resto del tempo l’ho aspettato.

·         Il collasso

Chiara è bellissima nell’abito bianco, e Olly inaspettatamente spigliato in giacca e cravatta, anche se non ne ha voluto sapere di tagliarsi i capelli. La chiesetta di campagna è stipata di amici, arrivati in gran numero da Francoforte, dove gli sposi si sono conosciuti. È tutto semplice e autentico, fin nel dettaglio. Se mai io… Se mai noi… Noi… Non ci vediamo da un mese e quando arrivo, a cerimonia iniziata, lui è sull’altare, concentrato sulla chitarra. Cerco il suo sguardo durante lo scambio degli anelli: vorrei dargli un’altra occasione per prendermi in giro perché anche stavolta mi sono commossa, ma lui è nascosto dietro ad un leggio. Lo sa, che mi costa rinunciare a tutto questo, e che questo è solo l’ennesimo compromesso che ho accettato, pur di stare con lui.

La mattina seguente, quando lascio il suo letto, mi prende per un braccio:
“Te ne vai di già?”
“Te l’ho detto, domani vado in Liguria con la Lu e gli altri. Tu che fai? Ci raggiungi là?”
“Non so…”
“Dai, siamo ospiti, è per fare una settimana di mare…”
“mmm… Ci penso e ti faccio sapere…”
“Certo” dico, anche se di una cosa sola sono certa: che non mi sveglierò mai più al suo fianco.

·         Il distacco

Non posso piangere davanti agli amici che mi hanno conosciuta come la sua ragazza, ma ho davvero bisogno d’aiuto. Non mangio più e non dormo più, non mi riconosco più. La dottoressa che mi visita mi lascia sfogare, mi somministra un abbraccio e mi mette alla porta in pochi minuti: d’amore non si muore, pare, e l’unica cura efficace è il tempo.
Quando ricevo il suo messaggio, sono seduta in riva al Meno, in compagnia del libro di tedesco e di una birra: sono settimane che non ci sentiamo, e adesso vuole farsi 700 chilometri per venire a parlarmi. La sola idea mi manda nel panico. Lascio passare 24 ore e gli rispondo: “se vuoi solo parlarmi, possiamo sentirci per telefono”. “Perfetto! Puoi metterti su Skype stasera?” mi scrive mezzo minuto dopo.
Questa puntata della mia vita è sceneggiata malissimo e girata in economia. Mancano i colpi di scena e non c’è nemmeno il lieto fine. Mi molla con una videochiamata e la spiegazione della sua scomparsa è noiosa come il verbale dell’assemblea di condominio. “Non potevo restare con te sapendo che non ti amavo più”, mi dice, e io non verso nemmeno una lacrima.

·         La sobrietà

Dopo mesi di sporadici contatti ci rivediamo, quasi per caso. Quando mi abbraccia, indugia un po’ troppo prima di lasciarmi andare mentre io resto in ascolto: niente sangue alle guance, niente battito accelerato, niente farfalle nello stomaco. Sono solo un involucro. Cerco in lui qualche indizio della sua vita senza di me, e mi stupisco di come non sia cambiato nulla.
Passeggiamo nella nostra Milano, le mani nelle tasche, lo sguardo sulle scarpe. Proprio come era successo all’inizio. Ma questo tipo di imbarazzo ha un sapore diverso.
Ci intratteniamo in una civile conversazione, raccontando dell’io, chiedendo del tu e evitando accuratamente di fare riferimento a noi. Proprio come era successo all’inizio. Solo che all’inizio, qui a parco Sempione cercavo gli scoiattoli che si inseguivano sui rami mentre oggi scopro dei ratti ben pasciuti che si infilano sotto a un cespuglio.

Mi chiamo Claudia, ho 30 anni, e sono stata una codipendente emotiva. Adesso non lo sono più, non con lui almeno. Non riesco però a stare lontana da libri e film che parlano d’amore, e mi illudo di farne un uso terapeutico. Per precauzione, tenetemi lontana dai Baci Perugina.