Monday 21 March 2011

Zed’s dead, Baby


Attenzione: ogni riferimento a fatti e persone è espressamente voluto. Anche perché nessuno degli interessati capiterà mai su questa pagina e che ho il culo parato lo confermano le statistiche (il mio blog ha totalizzato in un anno e mezzo 77 visite, di cui 50 refresh miei. Il blog che state leggendo, o prescelti, è talmente esclusivo che l’ho dovuto mettere tra i segnalibri. E io qui ci scrivo).

Spoiler alert: riparlerò dei miei coinquilini, inesauribile fonte di ispirazione e presenza costante nella mia quotidianità. Soprattutto in questi giorni, che ci vedono tutti e tre disoccupati, a sciabattare nel salotto di questo appartamento che sembra improvvisamente più piccolo dei suoi 110 metri quadri.

Ho le carte del divorzio già compilate. Anelo alla vita dell’eremita.

L’altra mattina mi sono svegliata prestissimo per gli standard di questi tempi di cazzeggio creativo. Ho fatto colazione, ho cercato di darmi un tono fermando lo zapping selvaggio sulla BBC e poi mi sono messa al computer, intenzionata a comporre le più spettacolari lettere che abbiano mai accompagnato un curriculum. Tempo 10 minuti e l’illusione della mistica torre d’avorio si schianta contro la detonazione contemporanea di TV e Playstation.

Non ero più sola: senza averne fatto espressamente richiesta, mi sono ritrovata ad Arkham con Batman e un francese in mutande. Che non erano interessati alle mie offerte di collaborazione.

Una sera rientro dal cinema e sulla via della mia stanza incontro Bruce Willis che dal tubo catodico sentenzia “It’s not a motocicle, it’s a chopper baby”; sorrido al buon Bruce, contenta di averlo intercettato in tempo: una battuta che ha fatto la storia del cinema sarebbe stata sprecata davanti a un pubblico composto da due bicchieri di vino, due resti di take away freddi nelle loro vaschette di polistirolo e un divano parecchio stropicciato.

L’ispettore Derrick che è in me, compiaciuto di aver trovato il movente e i colpevoli con un semplice sguardo alla scena del crimine, non la contamina spegnendo la TV ma si stringe nel suo impermeabile e esce dall’inquadratura chiudendosi la porta alle spalle, senza smettere di fischittare il motivetto della sigla.

Grazie Tarantino, per averci regalato un film che per la nostra generazione sarà sempre il semaforo verde per la pomiciata.

Thursday 3 March 2011

L'esercito del surf


Il mio coinquilino soffre di letargismo finesettimanale: la routine solidificata in anni di ozio gli impone di togliere le scarpe al venerdì al ritorno dall’ufficio e di non lasciare la sua stanza fino al lunedì mattina, salvo puntate sporadiche al bagno e in cucina, in risposta al richiamo della natura.
62 ore in 17 metri quadri. Devo controllare, ma per me poco ci manca al Guinness record.

Potete immaginare la sorpresa quando un lunedì mattina apro la mail e scopro che proprio il mio coinquilino, con netto anticipo sul weekend, propone a tutto l’ufficio una festa il venerdì sera. Pubblicizzato come uno skater party,è organizzato da un negozio di streetwear gestito da un amico e il DJ set è ispirato alle musiche che accompagnano i video di skate, snowboard, bmx e altri passatempi squisitamente street.

Si può fare. In fondo, nei gloriosi primi anni ’90 ero una skater anch’io, e facevo avanti e indietro nel vialetto di casa su una tavola customizzata con l’artwork delle Tartarughe Ninja che mi aveva portato Santa Lucia su specifica richiesta.

E così arriva venerdì, e ci diamo appuntamento con gli altri curiosi a casa dove, per entrare nel mood della serata, il nostro resident skater (sempre il mio coinquilino) accende la TV e ci mostra un DVD con gente con i capelli controvento che esegue flip, grab e trick a favore di una lente fish-eye, il tutto impastato di colori fluo e montato in sincope da epilessia su musica punkrockeggiante. Vengo investita dal peso dei miei 28 anni. Sono troppo vecchia per tutto questo, ma se mi tiro indietro ora se ne accorgerebbero anche gli altri. Si può ancora fare.

Quando passa l’orario in cui si rischia di essere i primi a entrare nel locale, usciamo di casa. Perché stiamo andando a uno skater party, e essere cool non è un opzione, ma un comandamento.

Ci accorgiamo di essere arrivati quando il nostro contatto interno comincia a dispensare coreografate strette di mano a un branco di gente frangettata, dimenticandosi di presentarci. Nessuno di noi indossa un berretto e questo ci garantisce invisibilità.

Varchiamo la soglia del bar e anche se abbiamo cercato di evitarlo, siamo i primi. Siamo proprio gli unici avventori, e il busto di Elvis in camicia hawaiana ci regala un sorriso di incoraggiamento, mentre ci avviciniamo al bancone, sovrastato da un barista che sembra un extra di Prison Break.

Lancio uno sguardo intorno: non c’è nemmeno il DJ.

Completiamo il primo giro di birre e restiamo in attesa di istruzioni. Ci raggiunge quello che ci ha trascinato fino a lì e ci fa “beh, qua la festa non c’è, pensavo di andare a ballare” e senza chiederci se era passato per la mente anche a noi, esce dal bar. Per non rientrarci mai più. Come PR non hai futuro, lasciatelo dire.

Sedotti e abbandonati, e ancora soli al bancone, siamo pronti a affogare i dispiaceri nell’alcool. Ma anche il barista, nel frattempo è scomparso. Riappare dopo 20 minuti di pausa sigaretta, ci guarda senza nascondere fastidio, e prima di servirci raccoglie le bottiglie rimaste sui tavoli, insulta un ragazzino che gli è saltato su un piede mentre provava a aprire le danze e riaccende la candela votiva davanti al busto di Elvis. Solo allora, ricordandosi di non sorridere, ci dispensa il secondo giro.

Lancio un altro sguardo intorno: ci sono due scappati dalla seconda media e un tizio visibilmente ubriaco che viene verso di noi. Io a quel punto sono visibilmente annoiata, e approfitto della situazione per testare il mio tedesco.
Già partivamo svantaggiati, lui sbronzo e io analfabeta, ma non avrei mai immaginato le punte di surrealismo toccate da quella conversazione:

“Claudia. Cla-u-di-a. Dall’Italia”
“E cosa fai qui?”
“Ci vivo”
“Ah. E cosa fai?”
“Ah… scusa! Sono una videogame tester”
“Ah… E di lavoro cosa fai?”
“…”
“…”
“E tu cosa fai?”
“Il piastrellista”
“Ho capito: pavimenti?”
“Non solo, anche pareti”
“Certo!giusto…”
“…”
“…”
“Quanti anni hai?”
“Quanti me ne dai?”
“36”
“?” Rumore di mascella dislocata, bocca spalancata per la sorpresa.
“Beh, io ne ho 34” E questa dovrebbe bastarmi come spiegazione.
“Certo!giusto…”

“Senti, è stato davvero un piacere fare quattro chiacchiere, ma devo davvero andare a casa a pettinare le bambole adesso”: questo avrei voluto dirgli ma tra l’orgoglio ferito e il deficit della lingua mi sono invece alzata dallo sgabello, gli ho agitato una mano davanti alla faccia e ho urlato un inequivocabile “Tschüs”.

Così finisce, ingloriosamente, il mio ennesimo tentativo di sentirmi giovane mimetizzandomi fra i giovani.
Conoscete qualcuno che può mettermi in lista per la bocciofila? Free Chinotto a chi mi accompagna!