Un casting. Per un programma televisivo. Io. A un
casting.
Mi sono preparata: ho riletto le risposte che ho dato al
momento della candidatura, ho ripassato le sfide dell’edizione passata e scelto
con cura cosa mettermi.
“Vestiti come a un colloquio di lavoro” mi avevano detto
al telefono, e sono abbastanza contenta del risultato: pantagonna color
melanzana al ginocchio, camicetta nera vivacizzata da una collana etnica,
mascara. L’unico dubbio è sulle scarpe:
non saranno troppo aperti questi sandali? Troppo colorati? Troppo casual? Il
piede nudo è sdoganato in ufficio?
Certo che qui nella sala d’attesa sono pochi gli outfit
che invidio: il mio fashion radar intercetta gonne troppo corte, tacchi troppo
alti, pantaloni troppo stretti, unghie troppo decorate. E abiti da cocktail
color cipria abbinati a sandali con i lustrini, come a un matrimonio. Borse e
cinture in ecopelle che non assomiglia lontanamente alla pelle. Non ci siamo.
Per gli uomini è più difficile sbagliare, ma tra occhiali
a mascherina usati come cerchietto, orologi mastodontici e mocassini senza
calze sembra di stare a Porto Cervo a guardare sugli yacht dei vip.
L’unica vestita meglio di me, almeno in questa stanza che
fa da anticamera al colloquio, è la ragazza che mi si siede di fianco. E lei
sulle scarpe ha vinto: un paio di sandali di rafia coloratissimi, a righe, con
un tacco alto ma non aggressivo. Trucco e parrucco impeccabili, indossa un completo
pantalone color caramello, che ricorda la divisa delle donne manager degli anni
ottanta, ma senza il testosterone delle spalline imbottite e alleggerito dal taglio
del pantalone al ginocchio.
Quando la vedo controllare l’orologio e sbuffare
vistosamente, cerco di intavolare una conversazione:
“Che numero sei?”
Prima mi mostra l’adesivo e poi mi fa “3480”. Così mi
dice, il numero e basta. Ma io non demordo:
“Ah. Io sono il 3498. Ma stanno andando in ordine,
secondo te?”
“Non lo so”.
È scocciata, e non fa nulla per nasconderlo. Ma io faccio
un ultimo tentativo:
“Lo sapevo che avrei passato l’intera giornata chiusa in
albergo, ma dopo quattro ore non mi passa più. E poi se ci pensi siamo anche
sfortunati perché noi siamo stanchi, ma loro lo sono ancora di più, dopo sei
giorni di selezioni, e ci liquideranno in cinque minuti. Tanto li hanno già
scelti, i candidati…”
“E vabbè” mi fa lei.
A chiacchierata abortita, faccio un salto in corridoio a
contare quante persone ho davanti. Rientro in sala d’attesa che ne so quanto
prima.
Torno a sedermi e sfodero il Kindle: non riesco a leggere,
ma mi fa comodo avere una copertura mentre ascolto i discorsi che mi nascono
intorno. Il bello del libro in formato
digitale è che non devi nemmeno far finta di voltare pagina di tanto in tanto.
Gli altri chiacchierano: a gruppi di tre o quattro, si
raccontano cosa fanno; una di quelle vestite solo di un paio di occhiali da
secchiona dice di essere una consulente di immagine (ci si paga davvero
l’affitto?) mentre il ragazzo seduto dietro di lei la introduce
nell'affascinante mondo della manutenzione dei prodotti Apple, che lui per
primo ha esportato nella ridente Basilicata. E quando, inscenando un preventivo
per l’ iPad vestito di una cover matelassé fake Chanel che stringe al petto, le chiede quanto ha di
memoria, lei lo guarda come se le avesse chiesto di risolvere un integrale. Senza
calcolatrice.
Nessuno mi chiede cosa faccio io, e va meglio così dato
che sto ancora elaborando una risposta convincente.
Nonostante il clima di cameratismo, percepisco una
tensione che viene contenuta a fatica nei troppi “in bocca al lupo!”
pronunciati. Qui c’è gente che deve prendere un treno o un aereo per tornare a
casa, che ha chiesto un giorno di permesso al lavoro, che ha fatto l’intera
trafila l’anno scorso. E in fondo, se sono cinque ore che non abbandono
la mia postazione, è perché un po’ ci credo anch'io.
Ho appena addentato una pesca quando un assistente dagli
occhi verdi si affaccia sulla soglia e pronuncia il mio nome. Gli stringo la
mano e seguo la sua testa riccioluta verso una stanza più piccola dove io vengo
parcheggiata su una seggiola alla deriva sulla moquette e lui si va a sedere
vicino all'autore, che è impegnato a far scorrere il mio CV.
Passano svariati secondi, che bastano a svuotarmi la
testa e seccarmi la bocca. È come essere di nuovo come all'esame di maturità.
Del questionario compilato stamattina ricordo solo una
domanda: “Con chi vivi?”, e la mia risposta:
“Con due politici, uno del PD e
uno del PDL, un’insegnante che fa la vita da matricola da dieci anni, un
canadese gay ossessionato da moda e cibo made in Italy. Ah, e un coniglio”.
L’autore ha una t-shirt bianca con le maniche arrotolate
a svelare braccia ricoperte di tatuaggi old school: riconosco un grammofono, un
razzo spaziale, un veliero, una rondine. Anche il taglio di capelli e la
montatura degli occhiali non sfuggono al travestimento da teddy boy.
“Come si chiama il coniglio?”
Questa la so!
“Rita”.
“Sei carnivora?”
Non è che se mi
piacciono i fiori devo per forza fare la fiorista…
“Sono onnivora, o meglio mi piace mangiare di tutto. Non
sono vegetariana insomma, ma Rita si può considerare al sicuro”.
Bene, questo era solo il riscaldamento: il suo compito è mettermi
in difficoltà, e ci riesce con la domanda successiva:
“Mi spieghi una cosa? Una come te che vuole lavorare in
tv, perché partecipa alle selezioni di The Apprentice?”
Ma questi hanno
letto davvero la mia application?
Il messaggio che vuole passare, nonostante la sintassi
tutta sbagliata, è il seguente:
“Perché la probabilità di partecipare al programma è
bassa quanto quella di collaborarci”.
“Ma se hai fatto tutte queste belle esperienze in TV,
come dici, perché non ci sei rimasta?”
“Perché a 30 anni non posso più permettermi di fare la
stagista, o la segretaria a 1000 euro al mese”.
“Hai ragione” lo so.
“…Ma questo non è un colloquio per lavorare nella nostra
casa di produzione” so anche questo.
L’autore si appoggia allo schienale, toglie gli occhiali,
li ripone con cura nella custodia, e avvicina il mio CV al viso, nascondendosi al
mio sguardo. Sono un fascio di nervi calamitato alla seduta, le caviglie
a stringere le gambe della sedia e le mani sotto le cosce. Il mio linguaggio
del corpo urla disagio.
Pregi e difetti,
pregi e difetti, dai che me la sono preparata!
“Quale pensi che sia il tuo punto di forza?”
Punto sull'empatia. Ma non appena la nomino vengo
zittita. “Sono empatica, mi adatto facilmente, lavoro bene in squadra… Vedi, Claudia,
queste cose me le hanno dette le 3497 persone che ti hanno preceduta. Io voglio
sapere cos'è che hai solo te. ”
“Una discreta faccia di culo e tanta voglia di farcela”.
Ma questa la penso soltanto mentre mi sento rispondere “Buon gusto”, forse
memore di alcune mise intercettate in corridoio.
“Ho buon gusto e conosco il
valore dei soldi”.
Una risposta che non lo impressiona.
Si passa ai social media. E cado in una trappola ben
collaudata.
“Sei su Twitter?”
“Sì, ma non ci scrivo.”
Occhiata inquisitiva. Mi giustifico:
“Perché per parlare di me uso facebook, mentre su Twitter
vorrei ritagliarmi un topic, un campo d’azione. Il problema è che non sono
un’esperta in nessuna area.”
“E Briatore lo segui?
“Sì” In realtà no. Mai
letto un tweet di Briatore in vita mia. Perché un grande imprenditore, non è
anche un grande comunicatore a prescindere.
“Capisco. Grazie
Claudia, ti faremo sapere”.
Il tutto è durato meno di cinque minuti e quando mi
chiudo la porta alle spalle la trovo, la frase ad effetto:
“Non c’è nulla che io possa dire o fare che riesca a
farvi cambiare l’idea che vi siete fatti di me quando mi avete vista entrare.
Se su 4000 persone dovete sceglierne 16, lo capite se qualcuno funziona o no. Lo
sentite nella pancia. Se vi ho incuriosito, mi verrete a cercare”.
Bella frase. Peccato che non si sia presentata in tempo
per essere pronunciata.
Poi apro Twitter e leggo gli ultimi post di Briatore: parlano
del GP di Formula Uno con la stessa imparzialità di un romanista in curva durante
il derby. Vi scovo pure degli abomini grammaticali sia in italiano che in
inglese, incompatibili con la mia sovietica ortografia.
E in cuor mio lo mando
un po’ a cagare.