Sunday 14 July 2013

L’apprendista

Un casting. Per un programma televisivo. Io. A un casting.
Mi sono preparata: ho riletto le risposte che ho dato al momento della candidatura, ho ripassato le sfide dell’edizione passata e scelto con cura cosa mettermi.
“Vestiti come a un colloquio di lavoro” mi avevano detto al telefono, e sono abbastanza contenta del risultato: pantagonna color melanzana al ginocchio, camicetta nera vivacizzata da una collana etnica, mascara.  L’unico dubbio è sulle scarpe: non saranno troppo aperti questi sandali? Troppo colorati? Troppo casual? Il piede nudo è sdoganato in ufficio?
Certo che qui nella sala d’attesa sono pochi gli outfit che invidio: il mio fashion radar intercetta gonne troppo corte, tacchi troppo alti, pantaloni troppo stretti, unghie troppo decorate. E abiti da cocktail color cipria abbinati a sandali con i lustrini, come a un matrimonio. Borse e cinture in ecopelle che non assomiglia lontanamente alla pelle. Non ci siamo.
Per gli uomini è più difficile sbagliare, ma tra occhiali a mascherina usati come cerchietto, orologi mastodontici e mocassini senza calze sembra di stare a Porto Cervo a guardare sugli yacht dei vip.
L’unica vestita meglio di me, almeno in questa stanza che fa da anticamera al colloquio, è la ragazza che mi si siede di fianco. E lei sulle scarpe ha vinto: un paio di sandali di rafia coloratissimi, a righe, con un tacco alto ma non aggressivo. Trucco e parrucco impeccabili, indossa un completo pantalone color caramello, che ricorda la divisa delle donne manager degli anni ottanta, ma senza il testosterone delle spalline imbottite e alleggerito dal taglio del pantalone al ginocchio.

Quando la vedo controllare l’orologio e sbuffare vistosamente, cerco di intavolare una conversazione:
“Che numero sei?”
Prima mi mostra l’adesivo e poi mi fa “3480”. Così mi dice, il numero e basta. Ma io non demordo:
“Ah. Io sono il 3498. Ma stanno andando in ordine, secondo te?”
“Non lo so”.
È scocciata, e non fa nulla per nasconderlo. Ma io faccio un ultimo tentativo:
“Lo sapevo che avrei passato l’intera giornata chiusa in albergo, ma dopo quattro ore non mi passa più. E poi se ci pensi siamo anche sfortunati perché noi siamo stanchi, ma loro lo sono ancora di più, dopo sei giorni di selezioni, e ci liquideranno in cinque minuti. Tanto li hanno già scelti, i candidati…”
“E vabbè” mi fa lei.
A chiacchierata abortita, faccio un salto in corridoio a contare quante persone ho davanti. Rientro in sala d’attesa che ne so quanto prima.

Torno a sedermi e sfodero il Kindle: non riesco a leggere, ma mi fa comodo avere una copertura mentre ascolto i discorsi che mi nascono intorno. Il bello del libro in formato digitale è che non devi nemmeno far finta di voltare pagina di tanto in tanto.

Gli altri chiacchierano: a gruppi di tre o quattro, si raccontano cosa fanno; una di quelle vestite solo di un paio di occhiali da secchiona dice di essere una consulente di immagine (ci si paga davvero l’affitto?) mentre il ragazzo seduto dietro di lei la introduce nell'affascinante mondo della manutenzione dei prodotti Apple, che lui per primo ha esportato nella ridente Basilicata. E quando, inscenando un preventivo per l’ iPad vestito di una cover matelassé fake Chanel  che stringe al petto, le chiede quanto ha di memoria, lei lo guarda come se le avesse chiesto di risolvere un integrale. Senza calcolatrice.   

Nessuno mi chiede cosa faccio io, e va meglio così dato che sto ancora elaborando una risposta convincente.
Nonostante il clima di cameratismo, percepisco una tensione che viene contenuta a fatica nei troppi “in bocca al lupo!” pronunciati. Qui c’è gente che deve prendere un treno o un aereo per tornare a casa, che ha chiesto un giorno di permesso al lavoro, che ha fatto l’intera trafila l’anno scorso. E in fondo, se sono cinque ore che non abbandono la mia postazione, è perché un po’ ci credo anch'io.   

Ho appena addentato una pesca quando un assistente dagli occhi verdi si affaccia sulla soglia e pronuncia il mio nome. Gli stringo la mano e seguo la sua testa riccioluta verso una stanza più piccola dove io vengo parcheggiata su una seggiola alla deriva sulla moquette e lui si va a sedere vicino all'autore, che è impegnato a far scorrere il mio CV.

Passano svariati secondi, che bastano a svuotarmi la testa e seccarmi la bocca. È come essere di nuovo come all'esame di maturità.
Del questionario compilato stamattina ricordo solo una domanda: “Con chi vivi?”, e la mia risposta: 
“Con due politici, uno del PD e uno del PDL, un’insegnante che fa la vita da matricola da dieci anni, un canadese gay ossessionato da moda e cibo made in Italy. Ah, e un coniglio”.

L’autore ha una t-shirt bianca con le maniche arrotolate a svelare braccia ricoperte di tatuaggi old school: riconosco un grammofono, un razzo spaziale, un veliero, una rondine. Anche il taglio di capelli e la montatura degli occhiali non sfuggono al travestimento da teddy boy.
“Come si chiama il coniglio?”
Questa la so!
“Rita”.
“Sei carnivora?”
Non è che se mi piacciono i fiori devo per forza fare la fiorista…
“Sono onnivora, o meglio mi piace mangiare di tutto. Non sono vegetariana insomma, ma Rita si può considerare al sicuro”.

Bene, questo era solo il riscaldamento: il suo compito è mettermi in difficoltà, e ci riesce con la domanda successiva:
“Mi spieghi una cosa? Una come te che vuole lavorare in tv, perché partecipa alle selezioni di The Apprentice?”
Ma questi hanno letto davvero la mia application?
Il messaggio che vuole passare, nonostante la sintassi tutta sbagliata, è il seguente:
“Perché la probabilità di partecipare al programma è bassa quanto quella di collaborarci”.
“Ma se hai fatto tutte queste belle esperienze in TV, come dici, perché non ci sei rimasta?”
“Perché a 30 anni non posso più permettermi di fare la stagista, o la segretaria a 1000 euro al mese”.
“Hai ragione” lo so.
“…Ma questo non è un colloquio per lavorare nella nostra casa di produzione” so anche questo.

L’autore si appoggia allo schienale, toglie gli occhiali, li ripone con cura nella custodia, e avvicina il mio CV al viso, nascondendosi al mio sguardo. Sono un fascio di nervi calamitato alla seduta, le caviglie a stringere le gambe della sedia e le mani sotto le cosce. Il mio linguaggio del corpo urla disagio.

Pregi e difetti, pregi e difetti, dai che me la sono preparata!
“Quale pensi che sia il tuo punto di forza?”
Punto sull'empatia. Ma non appena la nomino vengo zittita. “Sono empatica, mi adatto facilmente, lavoro bene in squadra… Vedi, Claudia, queste cose me le hanno dette le 3497 persone che ti hanno preceduta. Io voglio sapere cos'è che hai solo te. ”
“Una discreta faccia di culo e tanta voglia di farcela”. Ma questa la penso soltanto mentre mi sento rispondere “Buon gusto”, forse memore di alcune mise intercettate in corridoio. 
“Ho buon gusto e conosco il valore dei soldi”.
Una risposta che non lo impressiona.

Si passa ai social media. E cado in una trappola ben collaudata.
“Sei su Twitter?”
“Sì, ma non ci scrivo.”
Occhiata inquisitiva. Mi giustifico:
“Perché per parlare di me uso facebook, mentre su Twitter vorrei ritagliarmi un topic, un campo d’azione. Il problema è che non sono un’esperta  in nessuna area.”
“E Briatore lo segui?
“Sì” In realtà no. Mai letto un tweet di Briatore in vita mia. Perché un grande imprenditore, non è anche un grande comunicatore a prescindere.
 “Capisco. Grazie Claudia, ti faremo sapere”.

Il tutto è durato meno di cinque minuti e quando mi chiudo la porta alle spalle la trovo, la frase ad effetto:
“Non c’è nulla che io possa dire o fare che riesca a farvi cambiare l’idea che vi siete fatti di me quando mi avete vista entrare. Se su 4000 persone dovete sceglierne 16, lo capite se qualcuno funziona o no. Lo sentite nella pancia. Se vi ho incuriosito, mi verrete a cercare”.  
Bella frase. Peccato che non si sia presentata in tempo per essere pronunciata.  

Poi apro Twitter e leggo gli ultimi post di Briatore: parlano del GP di Formula Uno con la stessa imparzialità di un romanista in curva durante il derby. Vi scovo pure degli abomini grammaticali sia in italiano che in inglese, incompatibili con la mia sovietica ortografia. 
E in cuor mio lo mando un po’ a cagare.