Sunday 13 February 2011

Burn your bra!


Un amico appassionato d’arte cerava di descrivermi in che modo si fosse sentito offeso dalla violenza con cui era stato accolto dalle opere messe in mostra da un collettivo di artiste femministe.

“Mi hanno fatto vergognare di essere uomo. Mi hanno farcito di sensi di colpa. E a me non sembra di aver mai trattato una donna a pesci in faccia, casomai il contrario”.

Voleva sapere se anch’io, che vengo da Venere come le autrici di queste opere fortemente provocatorie , mi fossi mai sentita in qualche modo discriminata in quanto donna che lotta per la sopravvivenza in una società tipicamente maschilista.

Ci ho pensato, mentre passavo il gessetto sulla punta della stecca. Ho temporeggiato per far salire la suspense mentre rompevo le biglie e solo dopo essermi scusata per aver mandato la nera in buca per prima, ho smesso di atteggiarmi e ho risposto: “No, perché?”.

Forse non sono la persona giusta a cui chiederlo: la divisione maschi e femmine è qualcosa che per me risale alle elementari, quando mi sono accorta di avere un debole per il rosa e nessuna inclinazione a prendere a calci un pallone. Preistoria. Negli ultimi 20 anni non ho cambiato idea sul calcio, ma il rosa è sparito dal mio guardaroba, così come la lotta aperta ai maschi dalla mia agenda.

Ho frequentato le stesse scuole e fatto gli stessi lavori dei miei colleghi, meritandomi gli stessi voti e lo stesso stipendio. Mi è capitato spesso –e l’ho sempre considerato un privilegio- di passare serate senza rappresentanti del gentil sesso a farmi da spalla. E nessuno mi ha mai offerto da bere solo perché ero l’unica donna al tavolo.

Se non è emancipazione questa, su cosa berciano ancora le femministe? Se la galanteria puzza di vecchio e l’uomo non ti apre più la portiera della macchina, è in parte colpa loro. Il percorso partito dal diritto al voto e approdato all’aborto, passando dalla pillola al divorzio, ha raggiunto il traguardo.

Che si preoccupino di quelle donne costrette a camminare tre passi dietro al proprio uomo, mute e silenziose, nascoste da un telo nero come qualcosa da tener nascosto perché motivo di vergogna e non, come dovrebbe essere, per garantire protezione. Loro non possono bruciare reggiseni e reclamare a gran voce l’emancipazione, se non vogliono finire lapidate.

Non ho mai intimidito gli uomini facendo leva sulla mia femminilità, non la ritengo una strategia vincente. Penso sia il lavoro di squadra quello che porta i risultati migliori, e non mi piace scendere a compromessi.

È solo quando smetti di comportarti come se ce l’avessi solo tu,che l’uomo smette di considerarti semplicemente scopabile su una scala da “manco se ne dipendesse il futuro dell’umanità” a “anche se succedesse fra 50 anni”. “Oltre alle gambe c’è di più”, insegna Sabrina Salerno. Pari opportunità garantite.

Quando mi sono cresciute le tette, i miei compagni di classe non hanno fatto una piega; non hanno cominciato a guardarmi in modo diverso, probabilmente perché ho scelto di non sbattergli le suddette in faccia per fargliele notare.
Già allora ne sottovalutavo il potenziale.

Prendete l’”Effetto Lolita”: tutti abbiamo avuto una compagna che appoggiava i gomiti sulla cattedra e le tette sul registro per discutere con il professore di un voto a suo avviso ingiustificatamente basso. Bastava farla annusare, valeva la pena provarci, e funzionava 7 volte su 10. Quella ragazzetta aveva già capito tutto. Chapeu. E questa tecnica, affinata e perfezionata può portare alla promozione anche in campo professionale.

Se sei donna, hai un corpo con tutti gli attributi al posto giusto, una soglia di imbarazzo elevata e un concetto vago di dignità, puoi tenere il cervello in formalina sul comodino e aprirti un sacco di porte con quello che ha in mezzo alle gambe.
Se non è emancipazione questa, fare leva sulla debolezza degli uomini per ottenere tutto e subito… il bunga bunga è un buon esempio: gli unici ingredienti sono donne arriviste, spietate e uomini incredibilmente stupidi, annebbiati dal testosterone. Una ricetta semplice.

Personalmente non mi sento chiamata in causa quando si parla dello sfruttamento del corpo femminile. Lo sfruttamento, in questo caso e in tv, è su base volontaria: nessuno ha obbligato queste giovani donne a fare qualsiasi cosa abbiano o non abbiano fatto ai nostri politici in camera da letto. E se non fosse stato per queste strappone capricciose che non hanno ottenuto quello che gli era stato promesso, non saremmo mai venuti a conoscenza delle preferenze sessuali di anziani dipendenti da Viagra. Peccato, eh?

L’unica cosa che mi accomuna a questo manipolo di arriviste sono i cromosomi.

Leggere che il nostro presidente del consiglio paga delle donne per fare sesso è stato sconvolgente come leggere che sempre il nostro presidente è un narciso con manie di grandezza. Non l’avrei mai detto. Suggerisco meno spionaggio stile Wikileaks e più buonsenso, se vogliamo davvero fare chiarezza in questo troiaio.

Sunday 6 February 2011

Astronauti e ballerine


Non so più cosa rispondere al qualcuno che mi chiede come sto.

Se quel qualcuno affittasse la mia vita e vi ci trasferisse per un paio di giorni si chiederebbe come faccio a mantenere un aplomb squisitamente british e a essere piú preoccupata di organizzarmi il weekend che il futuro.

Se quel qualcuno si lasciasse facilmente prendere dallo sconforto si butterebbe da un ponte ancora prima di chiederselo.

Eh, cosa sarà mai... Volete un prospetto più accurato della situazione? Accontentati.
Sul piano professionale sto per perdere il mio terzo lavoro in tre anni - e non per demeriti miei, ci tengo a precisare -, la mia vita sentimentale è spensierata come pezzo dei Joy Division, vivo in un paese in cui il cielo é grigio 50 settimane su 52 e la gente parla una lingua oscura, arcaica e inaccessibile, nonostante gli sforzi.
Beh, almeno c'e la salute.

Le congiunzioni astrali sfavorevoli stanno trasformando un’ottimista patologica in una cinica cronica. Peccato.

Quando ero a casa per Natale, la mutti, dopo aver ripetutamente sottolineato che “a stare troppo al computer si diventa scemi” mi si è seduta di fianco, ha aspettato che spostassi lo sguardo dallo schermo a lei e guardandomi dritto negli occhi come a perlustrarmi l’anima mi ha chiesto “ma tu, in fondo, cos'é che vuoi fare?” Sapevo che quella del videogame tester non se l’era bevuta, non sono riuscita a convincere nemmeno la sottoscritta...

Non so che lavoro voglio: mi appassiono a tante, troppe cose, ma non riesco a appassionarmi al lavoro in sé. Forse perché non mi è mai stata offerta la possibilità di mettermi in gioco, di scoprire se c'é qualcosa che so fare bene, meglio di qualcun altro. Sono stufa di eseguire istruzioni.

Voglio continuare a buttarmi in esperienze sempre nuove e a prima vista slegate tra loro, ma più il tempo passa, più la lista si accorcia. Il treno degli astronauti e delle ballerine l’ho perso da un pezzo.

E ne sono passati di anni da quando, fresca di laurea, immaginavo il lavoro dei miei sogni. Volevo un lavoro creativo, perché suonava bene, profumava di brunch, casual Fridays, brainstorming e libertà. Peccato i vent’anni di ritardo sull’epoca d’oro dei copywriter, il tracollo economico su scala mondiale, il global warming e i tonni sterminati per rifornire di tekkamaki i nastri trasportatori del running sushi.

E se il battito d’ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo, non vedo perché io non possa incolpare il buco dell’ozono delle mie alterne fortune in campo lavorativo.

Riconosco di non avere un particolare talento, e meno male, altrimenti mi starei mangiando le mani per non averlo sviluppato finora. Ma ho delle qualità: sono curiosa, sono sveglia e sono socialmente compatibile alla maggioranza dato che mi faccio i fatti miei, saluto con il sorriso, cerco di limitare le critiche e quando finisce il caffè ne faccio di fresco.

Non so che lavoro mi inventerò questa volta, ma sto cercando un’esperienza che mi permetta di raccontare storie. Storie diverse, con mezzi diversi. Mezzi come la televisione, internet, i videogame, la musica, ambienti che mi sono più familiari, ma anche la moda, i viaggi, la fotografia, passioni che vorrei diventassero quotidianità.

L’unica cosa certa è che continuerò a non programmare più in là del dopodomani, perché ho capito fare piani rende le cose più facili solo al destino, indicandogli dove soffiare per buttar giù i nostri castelli di carte.

Confiderò nel mio impegno per trasformare i castelli che progetto in aria in castelli di carte. Speriamo che stavolta faccia una comparsata pure una buona dose di culo.