Tuesday 20 December 2011

Amarcord


Dieci anni fa varcavo per la prima volta il portone di via Salvecchio a Bergamo alta, entrando in punta di piedi nel boschetto della mia fantasia, altrimenti conosciuto come università.

Settimana scorsa, a più di sei anni dalla mia laurea, sono tornata in una delle sedi dove andavo a lezione con il pretesto di usare indisturbata i bagni. Mi sono di nuovo persa nei corridoi, registrando cambiamenti minimi, se escludiamo che gli sbarbati del primo anno appoggiati alle colonne in cortile non hanno facce conosciute.

Ho perso un po’ di gente per strada, nonostante grazie a Facebook si riesca a seguire le tracce di chiunque. L’estate scorsa, ripercorrendo catene di tag sono venuta a sapere che si è sposato un mio ex compagno: tra gli invitati c’era l’intera squadra del calcetto fondata in aula studio, che ha affrontato la foto di rito con la maglietta della divisa e i pantaloni calati.
Goliardia! E pensare che non c’è foto di gruppo che li ritragga con i pantaloni: fa ridere una volta, fa sorridere la seconda, ora avete 30 anni e non siete proprio la combriccola di “Amici miei”. Se non la smettete prima di diventare padri di famiglia, scatta l’effetto cinepanettone.

Lasciata la facoltà, ho fatto una passeggiata in via Colleoni, con l’idea di prendere un caffè in uno dei baretti in cui bivaccavo nelle numerose ore buche. A città alta i cellulari ancora non prendono, ma gli schermi al plasma ormai campeggiano ovunque e il mio pub preferito è stato rimpiazzato da un anonimo punto vendita di una catena di profumerie. È lo specchio dei tempi, mi sono detta: dal caffè letterario -anche se le nostre pause pranzo non erano propriamente ritrovi di intellettuali- al punto d’incontro delle shampiste preoccupate per la sorte degli inquilini della casa del Grande Fratello.

Sopraffatta dal magone, provo a telefonare a Laura, vecchia gloria dei tempi di scienze della comunicazione, dimenticandomi che mandando un piccione viaggiatore avrei più probabilità di recapitare il messaggio: il cellulare non trova la rete e io cerco di distillare i sentimenti che mi pervadono in un sms che invierò una volta rientrata sotto il rassicurante ombrello gsm. Perché bisogna dirlo alle persone che ci hanno cambiato la vita che ce ne siamo accorti del favore che ci hanno fatto.

Continuo la discesa verso città bassa: ho appuntamento con Paola, un pezzo della mia esperienza accademica che mi sono tenuta stretta: con Paola, che da un paio d’anni è la mamma più bella del mondo, e che il mese prossimo convolerà a nozze, ci sono cresciuta, o almeno lei cresceva mentre io le riversavo addosso la frustrazione causata della fatica che sto tuttora facendo a crescere.

Nonostante mi trovi bloccata a anni luce di distanza dai suoi traguardi, riconosco che ne ho fatta di strada, da quando i pomeriggi in piazza Vecchia scivolavano nell’indecisione se presenziare le lezioni o prendersi un gelato, che “con un sole così, chi ha voglia di chiudersi in aula?”.

Non posso dimostrarlo di essermi allontanata molto: a conti fatti ho quasi 30 anni, nessuna prospettiva di carriera, una collezione di esperienza lavorative che non intimidirebbero nemmeno uno stagista, sono disinnamorata, e non ho nulla su cui appoggiarmi per costruirmi un futuro. Invece dell’ambizione, spesso ho scelto la comodità. E non riesco a vedere più in là del dopodomani. Non mi sento adulta.

Eppure, ripensando al 2011, riconosco che qualcosa nella percezione di me stessa sia cambiato, e mi abbia portato verso scelte azzardate, e non facilmente condivisibili: come quando, in una congiuntura economica terrificante, ho deciso di non accettare un posto di lavoro perché sentivo il bisogno di ascoltarmi e capire che direzione prendere. O come quando, perdendo un amore alla cui ombra mi stavo annullando, ho imparato a amare me stessa.

Il desiderio di prevalsa, per dimostrare agli altri che non sono solo quanto riportato nel curriculum, è stato sostituito da una nuova consapevolezza: non sta agli altri dirmi cosa posso o devo fare perché la decisione spetta solo a me.

E ho viaggiato. 3 mesi su 12 (il minimo indispensabile). E questo è il regalo più grande che si possa fare a un’anima che non riesce a staccarsi dal pensiero di sé stessa. C’è dell’altro, oltre all’autocommiserazione: c’è la vita.

E voglio viverne ancora di anni così burrascosi, voglio cambiare idea, voglio stravolgere piani, voglio provare, sbagliare e riprovare fino a quando non troverò il mio posto nel mondo.

E quando lo troverò, preparate bottiglie e aspirine, perché siete già da ora invitati all’housewarming party meno adulto cui abbiate mai preso parte.