Wednesday 7 December 2016

Come non dormire a teatro

I danzatori si posizionano sul palco mentre gli ultimi spettatori prendono posto, a luci accese in sala. Seguono una decina di minuti in cui non succede assolutamente nulla. Il pubblico guarda gli artisti rapiti dalla scenografia, tre modelli ingombranti e realistici di cavalli morti impilati. Non c’è musica: in sottofondo lo scampanellio pacifico di mucche invisibili al pascolo, sovrastato dai colpetti di tosse sempre più impazienti.

Quando le luci si spengono non parte la musica, ma i nove sul palco si gettano uno sull'altro, iniziano a lottare e si strappano i vestiti di dosso. Insistono finché tutti i vestiti non sono stati strappati. Si urlano anche contro in una lingua che non riconosco. La scena è molto potente, ma dal diciannovesimo minuto perde un po’ di carica espressiva.

Ritrovatisi mezzi nudi, i danzatori (che non hanno ancora accennato un passo di danza) liberano il palcoscenico gettando gli stracci in platea e tirano fuori delle felpe in acetato che nemmeno in classe mia all'ora di ginnastica in terza liceo.

Parte una coreografia, e l’acetato fruscia e fa scintille. Per tre minuti i nove sul palco sembrano finalmente avere capito dove sono e cosa ci fanno. Sono scoordinati, ma hanno fisicità molto diverse e nella danza contemporanea un po’ di energia grezza ci sta. Un po’ però. I ballerini tengono il ritmo respirando, e i loro respiri marcati si trasformano in una gara di rutti. Serissima.

A quasi un’ora dall'inizio dello spettacolo, in regia si ricordano di schiacciare il pulsantone del play. Sulle note di Mahler, due interpreti si arrotolano addosso, mentre gli altri agganciano uno dei cavalli morti a dei cavi che pendono dal soffitto, lo sollevano e poi lo riappoggiano nello stesso punto. E altri venti minuti ce li giochiamo così.

In modo inaspettato e ingiustificato saltano fuori dei campanelli, che tutti i ballerini si infilano alle caviglie. L’intero teatro viene catapultato in un’atmosfera da festa dei popoli: dopo un po’ di tarantella, anche piacevole nel suo essere non totalmente improvvisata, due ballerini di colore prendono possesso della scena con quello che come scoprirò solo leggendo le recensioni è polifonia congolese. Cantano e ballano spensierati, d'altronde il coreografo se ne sarà accorto che, proprio grazie alle loro origini questi due ‘hanno il ritmo nel sangue’.

Senza nessun preavviso, il clima si fa nuovamente cupo e dopo l’ennesimo scontro ci scappa il morto, che viene smutandato, sollevato da terra, portato in processione e appoggiato sulla pila di cavalli. Peccato che dopo l’omicidio in scena parte una musica festosa, ed è subito glee: il momento che nelle prove veniva annunciato dall'indicazione scenica ‘ballate un po’ come cazzo vi pare…’ dal coreografo, che ne approfittava per uscire a fumarsi una sigaretta. È il gran finale, lo percepiamo e ci speriamo anche un po’, ma Alessandra mi sussurra all'orecchio ‘Potrebbe non finire mai!’, scatenando la mia risata isterica e la reazione stizzita del vicino di poltrona che batte i piedi per farmi smettere. Sono tutti stremati, sul palco e soprattutto in platea, ma ‘the show must go on’, e per altri 20 inconcludenti minuti, durante i quali il morto si riprende e simula un rapporto sessuale con la carcassa di un cavallo. I suoi glutei muscolosi mi distraggono dall'eterna lotta fra Eros e Thanatos.

Quando partono gli applausi, ai quali il mio vicino di poltrona non partecipa, mi sporgo verso la fila davanti e domando ‘A voi è piaciuto?’ a due ragazzi che sembrano spaesati quanto me. Uno ha la decenza di non commentare, mentre il suo amico, guardandomi come se fossi un animale esotico, mi risponde con un sibillino ‘Sì e no.’ Senza aggiungere altro. ‘Che cazzo di risposta è?’ vorrei replicare ma mi trattengo, perché in fondo ci vuole coraggio ad affermare ‘La corazzata Potemkin è una cagata pazzesca’.   

Friday 15 January 2016

Una vita contenuta

Nasco  cinque anni fa in Marocco, ad Essaouira, una città che da secoli contrasta l’oceano con i suoi bastioni color ocra saldamente piantati nella sabbia, come un transatlantico incagliato con la prua rivolta verso il mare aperto e la poppa che guarda il deserto allontanarsi.

Un luogo inospitale ed accogliente al tempo stesso, attraversato da gente proveniente da tutto il mondo, che si perde nei vicoli ritagliati tra gli edifici della Medina, dai muri troppo bianchi per essere guardati in faccia prima del tramonto.

Sono di origini umili, e ho passato la mia infanzia in un mondo fortemente intrecciato con le tradizioni. I miei primi ricordi sono legati alla conceria, dove ho passato lunghe settimane immersa in un liquido immondo fatto di cenere mescolata con urina di mucca e guano di piccione; ero intrappolata in una vasca scavata nella roccia, costretta a respirare miasmi soffocanti, e ogni giorno arrivava uno dei ragazzi che mi prendeva per un angolo e mi trascinava di peso all’asciutto solo per battermi, grattarmi, tirarmi, strizzarmi e quando ero prossima allo strappo mi ributtava nel fetido buco a cui non mi sarei mai abituata.
Ogni giorno speravo fosse l’ultimo e nonostante qualcuno di noi passasse regolarmente alla vasca del lavaggio e veniva steso ad asciugare, potendo finalmente stiracchiarsi al sole e seccare l’odore che era penetrato in profondità, eravamo obbligati ad aspettare finché i conciatori, sempre in bilico fra gli orli delle vasche, non avessero deciso che eravamo pronti.

Crescendo ho conosciuto borse privilegiate, la cui pelle è stata trattata con il cromo: in poche ore sono passate dal ricoprire un animale alle montagne russe di grosse cisterne di acciaio simili a lavatrici dove la chimica le ha rese materiale lavorabile: loro non hanno subito la violenza psicologica dell’attesa, dell’eposizione agli agenti atmosferici, dei turisti che ti guardano dall’alto e ti fotografano proprio quando sei più vulnerabile, storcendo il naso per il disgusto. Noi di cuoio marocchino le chiamiamo le industriali: sono pelli asettiche, che sembrano create in laboratorio e non conservano più traccia della loro provenienza animale. Noi invece temiamo il contatto con l’acqua, proprio perché fa emergere la nostra natura selvaggia: quando ci bagniamo rilasciamo quei coloranti naturali che fanno fatica a fissarsi e soprattutto un’ombra olfattiva dei nostri lunghi bagni nella merda.

La conceria è un’esperienza difficile che ti rende morbida ed insieme resistente: nessuna borsa in ecopelle, per quanto ben fatta, potrà resistere come noi al passare del tempo: arriva per tutti un momento complicato e se noi ce la caviamo con un graffio, l’ecopelle si taglia, lo strato superficiale si sgretola e lascia intravedere l’anima di plastica.
Loro dicono che si ‘spellano’ ma mai termine fu meno appropriato.

Quando si cresce in Marocco, non è facile allontanarsi dalle proprie origini: la maggior parte del pellame che era con me in conceria è finito ad ornare i cesti di paglia intrecciata che affollano i souk; ogni cestino cerca di distinguersi dalle altre centinaia di borse simili con cui viene appeso sopra al banco per un dettaglio nella decorazione: ci sono quelli con gli specchietti applicati, le nappine colorate, elementi in metallo, e poi perline, pailettes e addirittura i pizzi di plastica ritagliati delle tovaglie usa e getta.
L’ambizione delle borse da souk è quella di essere acquistate e prestare servizio sulla spiaggia, trasportando il telo, la crema solare e la settimana enigmistica, o di fare una comparsata al mercato, al braccio di una donna che ha visto la pubblicità di Dolce & Gabbana e che, nel ruolo di una Sofia Loren contemporanea, non vuole mettere frutta e verdura nel trolley di tela cerata stampa tartan che usa anche sua nonna – e la Loren stessa, suppongo.

Ma queste borse di paglia non possono contare su una lunga carriera: non sono troppo capienti e non si possono chiudere, hanno manici corti che lasciano un’ombra marrone sulle mani sudate, e perdono facilmente i loro strati di trucco e gli abitini estivi. Sono quegli accessori che come tutti i souvenir azzerano il loro fascino una volta che la valigia viene disfatta.

Ma io ero diversa, e l’ho capito presto: invece che essere lasciata del mio colore naturale, in conceria mi hanno tinto di rame con riflessi dorati: era come trovarsi a capo scoperto ad esibire le meches fresche di parrucchiere alle donne della medina con i folti capelli scuri nascosti sotto l’hijab. Non potevo sopportare gli sguardi di disapprovazione dei conservatori, dovevo lasciare Essaouira al più presto.

Dalla conceria passo quindi al piccolo laboratorio di una designer che mi aiuta ad evolvere nella mia forma definitiva: sono rettangolare, ho 3 pieghe, una comoda apertura superiore a zip e una tracolla laterale.
Non appena finita la fase dello sviluppo, lascio il laboratorio per trasferirmi in un piccolo negozio dai colori accesi e dai ritmi rilassati: sto seduta su un pouf insieme ad altre giovani borse, ascolto tanto musica che viene da lontano e tengo gli occhi fissi sulla porta, aspettando la persona che mi porterà via con sé.
Ricordo bene quel periodo: entravano tante donne, soprattutto turiste, curiose di visitare un atelier: alcune non mi notavano nemmeno, altre mi accarezzavano e poi mi riappoggiavano sul pouf dopo aver letto l’etichetta del prezzo. La spensieratezza generale era però venata da stress: magari stavo chiacchierando con la borsa dello scaffale di fronte, fantasticando su cosa ci sarebbe piaciuto nascondere, contenere o trasportare, e in un attimo quella veniva sollevata, appoggiata vicino alla cassa, infilata in una busta di plastica lasciando così per sempre il mio campo visivo e la mia vita; ero consapevole che poteva succedere in ogni momento, ma non mi sono mai sentita pronta per questi frettolosi addii.

Finché un giorno, un giorno come gli altri, non sono entrate in negozio due sorelle italiane e dopo averci spupazzate tutte hanno scelto me. Senza rendermene conto ero io quella che lasciava Essaouira senza salutare.

Non è stato amore a prima vista il nostro… Sono stata selezionata dopo un’attenta analisi su quali colori e forme potevano avere più possibilità di non stancare, come succede con i cestini del souk. Ho attraversato altre 4 città del Marocco chiusa nello zaino e una volta in Italia le altre borse mi hanno fatto spazio nell’armadio.

Sono l’unica non europea del gruppo e anche se la mia forma la ricorda, non potrei mai essere scambiata per una pochette: parlo un francese scolastico con un forte accento arabo, non sono di certo una taglia extra small, non ho la rigidità di una clutch, ma mi adatto alla mano che mi stringe o al fianco su cui mi appoggio; qualsiasi borsa da sera si vergognerebbe a riempirsi fino a mostrare delle rotondità, mentre io non ho spigoli vivi, sono molto più capiente di quanto sembro e sono contenta di rendermi utile.

Non sono una borsa di città, che mal sopporta i lavori manuali, un contenitore fragile anche all’interno: io non ho una fodera di seta, ma sono doppiata in pesante broccato con disegni ispirati ai tappeti del mio paese d’origine. Ho pure una tasca, profonda, perché devo tenere separati telefono e chiavi di casa senza che nessuno si graffi, me inclusa.
Ho la cerniera a vista, delle borchiette su un fianco e invece che un laccio corto da legare al polso, da un gancio laterale mi parte un’unica tracolla fatta di tante listarelle di pelle intrecciate. Sono comoda senza essere fuori luogo in una situazione formale, e questo mi ha permesso di essere scelta per svariate occasioni. 

Sono in Italia dal 2011 ormai, e le mie colleghe sono diventate anche le mie amiche.

Condivido lo scaffale con borse che hanno 40 anni di servizio alle spalle: hanno accompagnato due generazioni, perso e cambiato colore, conquistato graffi e pieghe sul campo, cercano di non mostrare la fodera rattoppata, i denti della zip che si inceppano, ma sono passate allo status di vintage e qualcuno si gira a guardarle chiede loro l’età, ma in modo garbato, come la si chiede ad una signora solo per poterle fare i complimenti.

Ci sono poi le borse da battaglia, le mie preferite: quelle che escono di casa tutti i giorni, prendono i mezzi pubblici, la pioggia, gli spigoli dei libri nei fianchi oppure cadono dal sedile dell’automobile per una frenata brusca e vomitano il contenuto sui tappetini. Le borse che non vengono svuotate quasi mai, che passano la vita appese per i manici all’appendiabili. Fanno un lavoro logorante, ma conoscono il mondo meglio di tutte noi altre messe insieme.

E poi ci sono le borse nobili, quelle che non hanno mai avuto bisogno di lavorare: c’è questo secchiello di coccodrillo che si gode la pensione avvolto in una federa di lino sul ripiano più alto dell’armadio, e che ogni tanto viene invitato ad un evento. I suoi racconti spaziano dall’infanzia dorata di cui descrive le cure ricevute durante la manifattura esclusiva, alla fama sotto i riflettori delle vetrine del centro da cui sosteneva lo sguardo di tante donne che volevano possederlo. ‘Io non sono mai stato un semplice contenitore’ afferma, ‘negli anni '80 ero un simbolo, non dovevo nemmeno presentarmi... Il mio status bastava. Con la crisi sono diventato anacronistico, un’offesa a chi non ha i soldi per arrivare alla fine del mese. Sono troppo sbruffone per essere portato in un luogo pubblico. Ma invecchierò come il vino buono, aumentando di valore, e sono già pronto alla mia nuova stagione di gloria’.

Io per ora ho un contratto a chiamata, e lavoro di solito il sabato sera: sto bene con tanti colori, non ho una stagione preferita e vado d’accordo sia con i tacchi che con i jeans. Per questo sono spesso in libera uscita.

Il mio momento preferito sono i matrimoni, e ne ho visti parecchi: seguo la cerimonia dal banco della chiesa, vicino ai fiori, e una volta al ristorante vengo adagiata su una tovaglia candida e torno a casa piena di ricordi. Ho imparato a nascondere un confetto sul fondo perché voglio riempirmi del suo profumo.

La discoteca invece mi piace meno: mi ricordo il mio primo capodanno, passato su uno sgabello soffocata dai cappotti di tutti: un inferno. Sentivo solo le giacche lamentarsi del caldo, e io per la prima volta ho avuto paura di essere rubata, o abbandonata lì. Mi avevano tolto anche il compito di custodire il portafoglio, mi sentivo inutile così svuotata.

Forse il mio attacca di panico ha lasciato il segno perché da allora vengo sempre lasciata in guardaroba, di solito uno stanzino freddo e inospitale, dove mi buttano in terra in un angolo, con un adesivo orrendo appiccicato in faccia e devo aspettare ferma per ore, mentre la musica che rimbomba nei muri mi fa venire il mal di testa. Non capisco perché mi portano a ballare se poi non posso scendere in pista…
Quando torno nell’armadio puzzo di fumo e le altre mi chiedono se mi sono divertita. Sopporterei meglio un pomeriggio chiusa nell’armadietto della palestra, con i calzini sporchi dimenticati.

Ogni tanto faccio un trattamento di bellezza, e un batuffolo di cotone imbevuto di latte detergente mi accarezza da cima a fondo, togliendo la sporcizia che ho assorbito sul lavoro e lasciandomi morbida e profumata. È un momento bellissimo, che mi rilassa e mi prepara a quelle che mi piace chiamare ferie. Non sono ancora pronta ad essere dismessa, a finire in una custodia di cotone nel ripiano più alto, anche se lo so che presto arriverà una borsa più giovane e carina di me, con la voglia instancabile di uscire a fare serata.
Quando fantastico sul mio futuro ho un solo desiderio: quello di essere riscoperta: immagino un trasloco, o una pulizia dell’armadio, quando nessuno si ricorderà più di me; forse finirò in uno scatolone, forse in un negozio dell’usato, chissà… Ma spero di incrociare di nuovo lo sguardo curioso di una donna che mi solleverà, infilerà la mia tracolla sulla spalla, e sorriderà alla sua immagine allo specchio.

Friday 20 December 2013

All Stars e Gazelle

Brescia, Claudia dal calzolaio

“Buongiorno, quanto costa rifare il tacco?”
“Mi faccia vedere… Per questo posso fare dieci euro”
“D’accordo. Quando posso ripassare a prenderli?”
“Fra tre giorni sono pronti.”
“Perfetto.”
“Che nome metto?”
“Claudia”
“Ecco a lei. Si ricordi di riportare il cedolino. Grazie e arrivederci.”
“Grazie e lei.”

Roma, Claudia dal calzolaio

“Questi sono i miei stivali preferiti”
annuncio, estraendo i miei stivaletti grigi da una borsa come un coniglio dal cilindro.
Sono un paio di scarpe consumate al punto da giustificare il lancio nel bidone della spazzatura, ma non riesco ad abbandonarli. Abbiamo fatto tanta strada insieme. Letteralmente.
Ricordo persino l’ultima volta che li ho fatti aggiustare: a Madrid la suola dello stivale sinistro si era scollata sul davanti, e sembrava mi parlasse, mentre camminavo: se avessi ascoltato avrei sentito una vocina che diceva “lasciami qui, non ne posso più!” E invece avevo trovato qualcuno disposto ad incollarli e obbligato i miei stivali a disegnare traiettorie irripetibili perdendoci insieme nell’ennesima città.
Una volta invece, in Marocco, ho detto addio alle mie All Stars dopo anni di appassionata convivenza. Le ho lasciate sul lungomare, baciate dal sole, posizionate per la foto ricordo con la lingua rigirata all’esterno e i lacci sciolti, come se, esauste, avessero infine trovato il posto perfetto dove fermarsi.  

“Scusa, posso?”
Il calzolaio allunga la mano, prende gli stivali e li appoggia sul banco, per analizzarli più da vicino.
Io analizzo lui: non pensavo che il calzolaio fosse un lavoro per giovani. Si accorge del mio interesse, ma lo interpreta come sospetto:
“Ah, scusa per le mani, sono ancora nere perché stavo verniciando. Ma non preoccuparti, non sporcano.
Avrà più o meno la mia età: mercoledì sera calcetto con gli amici, domenica allo stadio, giovedì prove con la band: sono anni che perfezionano i loro pezzi, ma non si sentono mai abbastanza sicuri da aggiungerli in scaletta alle  cover che suonano in concerto. Non riesco a trovare traccia di una donna.
Cosa è successo qui?” chiede, mostrando il tacco consumato sul lato esterno
“Lo so, faccio così a tutte le scarpe, cammino tutta storta…”
“No, è che non sollevi i piedi!”
Tiro indietro istintivamente le spalle e raddrizzo la schiena, come a mascherare un difetto di postura o la svogliatezza che  mi portano a trascinarmi mollemente sull’asfalto invece che galleggiare a una spanna dal suolo. Il calzolaio riporta l’attenzione sugli stivaletti: li avvicina alla luce, fa passare un dito lungo il bordo, saggia con i polpastrelli la tenuta delle cuciture, con tanto affetto da provocarmi un moto di gelosia.
Sbircio in basso sotto al bancone per soddisfare una curiosità: in linea con la felpa col cappuccio e la maglia dei Fugazi, in fondo ai jeans spuntano delle Adidas Gazelle rosse. Cosa mi aspettavo di trovare, dei mocassini in coccodrillo?

“E qui? Come mai è così?” mi mostra il tacco destro, dove manca un pezzo di para.
“Lì è stata Rita, il coniglio che ho a casa. L’ultima volta che ho lavato gli stivali li ho messi in giardino ad asciugare, e Rita è saltata sul muretto per assaggiarli. Fortunatamente non gli sono piaciuti.”
“È che i conigli hanno bisogno di rosicchiare, perché i denti davanti continuano a crescere. Glielo dai del pane secco?”
Il calzolaio attende la mia risposta guardandomi negli occhi e io non posso far altro che confessare:
“Quello lo lanciano i vicini dal terrazzo. Meno male, perché se quel coniglio dipendesse solo da me sarebbe morto di fame molto tempo fa.”
Ricevo un’altra occhiata piena di disappunto. La battuta non è stata apprezzata. Possiamo tornare a parlare delle mie scarpe adesso?
“Allora, per aggiustarli devo sostituire questo pezzo” mi fa, mentre strappa la suola consumata.
“Benissimo. Ma posso anche aspettare. Adesso non…”
“Guarda che non riesco a farteli prima di venerdì.”
“Certo. Venerdì è perfetto. Quanto ti devo?"
“Per questa riparazione chiedo 7 euro. E vedi che con 7 euro non ti fa più niente nessuno.”
“Hai ragione. Anche se ultimamente ho notato che qualche negoziante ha provato ad alzare i prezzi, con la scusa che adesso il Pigneto è di moda.”
“Ma noi non possiamo mica chiedere i soldi che chiedono al centro!”
“Sono d’accordo” affermo, mentre allungo i soldi per pagare. Resto con il portafoglio aperto per accogliere lo scontrino che non viene stampato.
“Fra l’altro, anche questa cosa dei quartieri trendy… Ho letto che adesso puntano tutti sul rivitalizzare il Quadraro…” lo dico con la sicurezza del collaboratore di Vice, sito che il mio calzolaio probabilmente non frequenta.
“Ma che se ne vadano tutti al Quadraro e ci lascino in pace a noi. Senti, che nome metto?”
“Claudia”
“Bene cara, ci vediamo venerdì” Niente ricevuta, niente cedolino.
“Va bene. A venerdì. Grazie.”

I miei stivali vengono riposti su una mensola, addossati a altre decine di scarpe bisognose di cure. Li guardo un’ultima volta e infilo la porta: questo è un arrivederci, non un addio.

Saturday 30 November 2013

La prepotenza del cardigan

Addento un biscotto mentre mi allaccio le scarpe: sono seduta sull'orlo della sedia perché sulla schiena c’è già appeso lo zaino che mi porterò in giro tutto il giorno. La devo smettere di rimandare la sveglia ogni cinque minuti per mezz’ora. Voglio fare colazione come una cristiana: attendere che la moka gorgogli diffondendo l’aroma di caffè in tutta la cucina, imburrare il pane, mettere tazza e piattino in lavastoviglie, lavarmi i denti. E invece fra quaranta minuti devo essere in classe. E non posso più fare ritardo, da quando insegno.
“Cla, lo vuoi un goccio di caffè?” mi chiede Valentina, ancora in pigiama, seduta a gambe incrociate come un Buddha davanti a una torre di fette biscottate imburrate, immune alla mia ansia.
“Grazie, ma devo scappare. Adesso.”
 “Lo sai, vero, che c’è lo sciopero dei mezzi?”
“Cosa? Anche oggi?”
“È venerdì, ormai è tradizione”
“Ma io a questi dell’ATAC pago anche i biglietti...”
Sbuffando vistosamente, recupero la bicicletta e impreco contro Matteo e la sua mania di andare a lavoro con la camicia stirata: il corridoio è bloccato dall’asse da stiro. La sorpasso strusciandomi contro la parete che ricambia lasciandomi un’ombra bianca sulla giacca. La porta d’ingresso mi sputa dentro a una mattina che promette pioggia. Alzo il colletto e spingo sui pedali.

La strada più veloce è la zona pedonale del Pigneto, occupata da un mercato colorato e chiassoso come la cartolina del mercato romano. Sempre pedalando, disegno un percorso spezzettato fra passeggini, cani al guinzaglio e cassette di frutta e verdura. Quando appoggio un piede a terra per far attraversare un gruppetto di studenti diretti in biblioteca sento distintamente queste parole: “anvedi n’artra stronza”.
“Come ha detto scusi?” mi sento chiedere, mentre osservo la mia mano che stringe la manica di una giacca di tweed indossata da un distinto signore sulla settantina, senza sapere come ci è finita. I nostri sguardi si incrociano ma nessuno dei due accenna a muoversi. “Lei mi ha detto stronza?” rincaro la dose, con la voce che mi si alza di un’ottava e stringendo la presa. Il signore in tweed, ripresosi dallo shock, prima tenta una poco convincente ritirata “dicevo a quella di prima” e poi, come ricordandosi il motivo di tanto fastidio se la prende con me e la mia bicicletta “è che voglio essere libero di circolare” mi urla, la mano a pugno davanti alla faccia, il mazzo di chiavi stretto con tanta veemenza da far venire le nocche bianche. Quel pugno che mi agita all’altezza degli occhi mi fa desistere: lascio andare il braccio e indietreggio. “Beh, non c’è bisogno di dirmi che sono una stronza!”: voglio urlare anch’io, ma ogni volta che provo ad alzare la voce la gola si stringe e mi esce uno stridulo strozzato. Un paio di signore, vinte dalla curiosità abbandonano per un attimo lo studio dei carciofi e ci separano.
Me ne vado senza dare spiegazioni, portando la bici a mano, consapevole che questo mio gesto equivale a sventolare bandiera bianca. Hai vinto tu, prepotenza. Ma ti smaschererò sempre, anche quando ti nasconderai di nuovo sotto a un cardigan marroncino.   

In classe sono distratta: continuo a rivedere la stessa scena e a immaginarmi finali alternativi: io che investo l’anziano signore con la bici, che gli rubo il mazzo di chiavi per gettarlo in un tombino, che me ne sbatto dell’insulto e continuo a pedalare sulla strada che a quanto voleva farmi credere è di sua proprietà. 
Nonostante il torto subito bruci ancora, sulla strada del ritorno evito la zona pedonale, per paura di dovermi giustificare con qualcun altro.

Nella via di casa, quando mi fermo per lasciar uscire una macchina dal parcheggio, la custodia vuota di un cd mi rimbalza su una scarpa. La traiettoria non lascia dubbi: è stato lanciato dal finestrino della macchina in manovra. “Scusi!” apostrofo l’uomo alla guida, facendo attenzione a dargli del lei “ha buttato questo per terra?” lui si gira nella mia direzione e riconosce il pezzo di plastica che ho recuperato dal marciapiede “no, l’ho buttato per aria!” mi risponde, serio, incolpando la forza di gravità. Quando mi rendo conto che il mio braccio ha lanciato la custodia all’interno dell’auto, il brivido dell’istinto mi dà il coraggio di ribattere: “se questa città è un cesso, è anche colpa sua”. La sorpresa del mio tono più sicuro non dura molto, spazzata via da un sentito “ma vedi d'annàffanculo!”, che il mio interlocutore, a disagio nella dimensione del dibattito, ripete con intensità sempre maggiore finché non svolta intorno all'isolato.

Non ho vinto nemmeno stavolta -e cosa mi aspettavo, che l’autore di un gesto così irrispettoso si scusasse e scendesse dalla macchina per gettare i rifiuti nell’apposito bidone?- e i finali alternativi sono carichi dell’aggressività che sembra regolare i rapporti in questa città -su tutti, io che lo immobilizzo storcendogli il braccio contro la carrozzeria mentre uso la custodia del CD per rigargli la macchina.

Sono ancora ferma sul marciapiede, quando l’adrenalina evapora. L’autocontrollo mi sta abbandonando.

Come era successo poche ore prima, il corpo non ha aspettato che la mente vagliasse le possibili conseguenze del gesto prima di agire. E questo è allo stesso tempo elettrizzante e spaventoso. 
Imparerò a conviverci.  

Monday 30 September 2013

Le relazioni pericolose

La vibrazione del cellulare lo fa scivolare giù dal comodino. Girarmi su un fianco e allungare il braccio sotto al letto per recuperarlo è un’impresa che potrei giustificare solo regalandomi un altro paio di ore di sonno.

Ho dormito poco, di quel sonno che non riesce ad essere ristoratore, la cui premessa è il matrimonio di amici e quindi l’anarchia totale in merito a quando e quanto mangiare, bere e fumare. Il sonno matto e disturbatissimo che precede la giornata dei sensi di colpa a tema salutistico.

Il cellulare, intanto, non smette di squillare. È una chiamata da un numero sconosciuto, che maledico e scelgo di ignorare. Non faccio in tempo a spegnere il telefono che lo stesso mittente ci riprova. 
Mi arrendo di fronte all'insistenza e per zittire la suoneria rispondo.

‘Pronto?’ 
Dice una voce di due tonalità più bassa di quella che ho quando sono in posizione verticale.
‘Buongiorno. Parlo con Claudia?’
Uomo, giovane, accento romano, cadenza professionale.
‘Sì, sono io’
‘Ti disturbo? Stavi dormendo?’
‘Diciamo che ero ancora a letto. Ma ero sveglia’ (da un paio di minuti almeno).

Ho la lingua di pile, gli occhi iniettati di sangue e cerchiati di mascara. Mi sono buttata a letto senza sfilarmi il reggiseno.

‘Mi dispiace! Senti, ti chiamo in merito all'annuncio che hai postato su Bakeka per le lezioni d’inglese. Ma in realtà non mi interessano le lezioni.’

Mi metto a sedere, e cerco di anticipare quello che mi verrà offerto. Mi decido a ritagliarmi uno spazio online per aumentare la visibilità in campo lavorativo e cercheranno di rifilarmi la qualunque, già lo so.

‘Io lavoro per la Fashion Image e stiamo per realizzare un corto che si ispira al film ‘le relazioni pericolose’. L’ha visto?’
‘No, ma potrei documentarmi…’
‘Guarda, te lo racconto io: in breve è la storia di una professoressa universitaria che seduce uno dei suoi studenti. Noi stiamo cercando una persona che sappia parlare inglese per interpretare la parte della professoressa, e abbiamo trovato il tuo annuncio.’
‘Ah. Ok…’ 

Mi alzo e scendo in cucina in cerca di caffè e di un foglio dove prendere appunti. Questa non è una telefonata da affrontare di domenica mattina.  
Il mio interlocutore intanto recita la sua parte di casting director e cerca di darmi tutti i dettagli prima che io riesca a formulare delle domande. Ogni volta che dice chesting mi mordo la lingua per non correggerlo. Un paio di lezioni di inglese non fanno male a nessuno.  

‘Tu hai esperienza?’
‘Come insegnante o come attrice?... Beh, ho lavorato per un po’ in televisione, ma non sono mai stata davanti alla telecamera’
‘Vedi Claudia, questa professoressa è un po’ dottor Jekyll e mister Hide: deve essere seria, professionale ma allo stesso tempo provocante: in fondo è la storia di un amore proibito. Nell'annuncio hai messo una foto, un primo piano. Posso chiederti come sei fatta? Le tue misure?’

La caffeina non è ancora entrata in circolo e prima di indagare sull'importanza delle mie misure rispondo, anche se mi tengo sulla difensiva ‘Sono normale: né alta né bassa, né grassa né magra. Normale’.
‘Va bene. Normale va bene. Vedi, il copione è in fase di scrittura e stiamo selezionando gli attori. Il chesting è gratuito e ti invitiamo a farlo, ma tieni presente a gli attori non avranno controfigure. Si tratta di un corto destinato al mercato internazionale, e ti chiederemmo quattro pomeriggi di disponibilità per un compenso di 1200 euro.   

Sono ormai sospettosa, quando provo a scucire delle informazioni più dettagliate
‘Scusa, mi ripeti come si chiama l’agenzia? Avete un sito dove posso vedere altri vostri lavori?’
e ottengo una risposta vaga come il resto della conversazione
‘In realtà siamo freelance, e quando giriamo affittiamo uno studio. Allora, ti interessa?’

Ho detto di no. Un sintetico ‘No grazie, non sono lo persona che cercate’. Ho detto no a un cortometraggio senza copione, incentrato su un amore licenzioso interpretato da gente senza formazione né esperienza di attore e destinato a un non meglio identificato mercato internazionale. Ho detto no a una persona che non mi ha dato né il suo nome né i contatti dell’azienda per cui chiamava. Un'agenzia senza sito internet né ufficio. 

Ho detto no a dei soldi apparentemente facili, per non finire nei risultati di Google alla voce ‘video professoressa seduce studente’. 

E in fondo un po' mi scocciava: sono troppo giovane per risultare credibile come docente universitaria.

Sunday 14 July 2013

L’apprendista

Un casting. Per un programma televisivo. Io. A un casting.
Mi sono preparata: ho riletto le risposte che ho dato al momento della candidatura, ho ripassato le sfide dell’edizione passata e scelto con cura cosa mettermi.
“Vestiti come a un colloquio di lavoro” mi avevano detto al telefono, e sono abbastanza contenta del risultato: pantagonna color melanzana al ginocchio, camicetta nera vivacizzata da una collana etnica, mascara.  L’unico dubbio è sulle scarpe: non saranno troppo aperti questi sandali? Troppo colorati? Troppo casual? Il piede nudo è sdoganato in ufficio?
Certo che qui nella sala d’attesa sono pochi gli outfit che invidio: il mio fashion radar intercetta gonne troppo corte, tacchi troppo alti, pantaloni troppo stretti, unghie troppo decorate. E abiti da cocktail color cipria abbinati a sandali con i lustrini, come a un matrimonio. Borse e cinture in ecopelle che non assomiglia lontanamente alla pelle. Non ci siamo.
Per gli uomini è più difficile sbagliare, ma tra occhiali a mascherina usati come cerchietto, orologi mastodontici e mocassini senza calze sembra di stare a Porto Cervo a guardare sugli yacht dei vip.
L’unica vestita meglio di me, almeno in questa stanza che fa da anticamera al colloquio, è la ragazza che mi si siede di fianco. E lei sulle scarpe ha vinto: un paio di sandali di rafia coloratissimi, a righe, con un tacco alto ma non aggressivo. Trucco e parrucco impeccabili, indossa un completo pantalone color caramello, che ricorda la divisa delle donne manager degli anni ottanta, ma senza il testosterone delle spalline imbottite e alleggerito dal taglio del pantalone al ginocchio.

Quando la vedo controllare l’orologio e sbuffare vistosamente, cerco di intavolare una conversazione:
“Che numero sei?”
Prima mi mostra l’adesivo e poi mi fa “3480”. Così mi dice, il numero e basta. Ma io non demordo:
“Ah. Io sono il 3498. Ma stanno andando in ordine, secondo te?”
“Non lo so”.
È scocciata, e non fa nulla per nasconderlo. Ma io faccio un ultimo tentativo:
“Lo sapevo che avrei passato l’intera giornata chiusa in albergo, ma dopo quattro ore non mi passa più. E poi se ci pensi siamo anche sfortunati perché noi siamo stanchi, ma loro lo sono ancora di più, dopo sei giorni di selezioni, e ci liquideranno in cinque minuti. Tanto li hanno già scelti, i candidati…”
“E vabbè” mi fa lei.
A chiacchierata abortita, faccio un salto in corridoio a contare quante persone ho davanti. Rientro in sala d’attesa che ne so quanto prima.

Torno a sedermi e sfodero il Kindle: non riesco a leggere, ma mi fa comodo avere una copertura mentre ascolto i discorsi che mi nascono intorno. Il bello del libro in formato digitale è che non devi nemmeno far finta di voltare pagina di tanto in tanto.

Gli altri chiacchierano: a gruppi di tre o quattro, si raccontano cosa fanno; una di quelle vestite solo di un paio di occhiali da secchiona dice di essere una consulente di immagine (ci si paga davvero l’affitto?) mentre il ragazzo seduto dietro di lei la introduce nell'affascinante mondo della manutenzione dei prodotti Apple, che lui per primo ha esportato nella ridente Basilicata. E quando, inscenando un preventivo per l’ iPad vestito di una cover matelassé fake Chanel  che stringe al petto, le chiede quanto ha di memoria, lei lo guarda come se le avesse chiesto di risolvere un integrale. Senza calcolatrice.   

Nessuno mi chiede cosa faccio io, e va meglio così dato che sto ancora elaborando una risposta convincente.
Nonostante il clima di cameratismo, percepisco una tensione che viene contenuta a fatica nei troppi “in bocca al lupo!” pronunciati. Qui c’è gente che deve prendere un treno o un aereo per tornare a casa, che ha chiesto un giorno di permesso al lavoro, che ha fatto l’intera trafila l’anno scorso. E in fondo, se sono cinque ore che non abbandono la mia postazione, è perché un po’ ci credo anch'io.   

Ho appena addentato una pesca quando un assistente dagli occhi verdi si affaccia sulla soglia e pronuncia il mio nome. Gli stringo la mano e seguo la sua testa riccioluta verso una stanza più piccola dove io vengo parcheggiata su una seggiola alla deriva sulla moquette e lui si va a sedere vicino all'autore, che è impegnato a far scorrere il mio CV.

Passano svariati secondi, che bastano a svuotarmi la testa e seccarmi la bocca. È come essere di nuovo come all'esame di maturità.
Del questionario compilato stamattina ricordo solo una domanda: “Con chi vivi?”, e la mia risposta: 
“Con due politici, uno del PD e uno del PDL, un’insegnante che fa la vita da matricola da dieci anni, un canadese gay ossessionato da moda e cibo made in Italy. Ah, e un coniglio”.

L’autore ha una t-shirt bianca con le maniche arrotolate a svelare braccia ricoperte di tatuaggi old school: riconosco un grammofono, un razzo spaziale, un veliero, una rondine. Anche il taglio di capelli e la montatura degli occhiali non sfuggono al travestimento da teddy boy.
“Come si chiama il coniglio?”
Questa la so!
“Rita”.
“Sei carnivora?”
Non è che se mi piacciono i fiori devo per forza fare la fiorista…
“Sono onnivora, o meglio mi piace mangiare di tutto. Non sono vegetariana insomma, ma Rita si può considerare al sicuro”.

Bene, questo era solo il riscaldamento: il suo compito è mettermi in difficoltà, e ci riesce con la domanda successiva:
“Mi spieghi una cosa? Una come te che vuole lavorare in tv, perché partecipa alle selezioni di The Apprentice?”
Ma questi hanno letto davvero la mia application?
Il messaggio che vuole passare, nonostante la sintassi tutta sbagliata, è il seguente:
“Perché la probabilità di partecipare al programma è bassa quanto quella di collaborarci”.
“Ma se hai fatto tutte queste belle esperienze in TV, come dici, perché non ci sei rimasta?”
“Perché a 30 anni non posso più permettermi di fare la stagista, o la segretaria a 1000 euro al mese”.
“Hai ragione” lo so.
“…Ma questo non è un colloquio per lavorare nella nostra casa di produzione” so anche questo.

L’autore si appoggia allo schienale, toglie gli occhiali, li ripone con cura nella custodia, e avvicina il mio CV al viso, nascondendosi al mio sguardo. Sono un fascio di nervi calamitato alla seduta, le caviglie a stringere le gambe della sedia e le mani sotto le cosce. Il mio linguaggio del corpo urla disagio.

Pregi e difetti, pregi e difetti, dai che me la sono preparata!
“Quale pensi che sia il tuo punto di forza?”
Punto sull'empatia. Ma non appena la nomino vengo zittita. “Sono empatica, mi adatto facilmente, lavoro bene in squadra… Vedi, Claudia, queste cose me le hanno dette le 3497 persone che ti hanno preceduta. Io voglio sapere cos'è che hai solo te. ”
“Una discreta faccia di culo e tanta voglia di farcela”. Ma questa la penso soltanto mentre mi sento rispondere “Buon gusto”, forse memore di alcune mise intercettate in corridoio. 
“Ho buon gusto e conosco il valore dei soldi”.
Una risposta che non lo impressiona.

Si passa ai social media. E cado in una trappola ben collaudata.
“Sei su Twitter?”
“Sì, ma non ci scrivo.”
Occhiata inquisitiva. Mi giustifico:
“Perché per parlare di me uso facebook, mentre su Twitter vorrei ritagliarmi un topic, un campo d’azione. Il problema è che non sono un’esperta  in nessuna area.”
“E Briatore lo segui?
“Sì” In realtà no. Mai letto un tweet di Briatore in vita mia. Perché un grande imprenditore, non è anche un grande comunicatore a prescindere.
 “Capisco. Grazie Claudia, ti faremo sapere”.

Il tutto è durato meno di cinque minuti e quando mi chiudo la porta alle spalle la trovo, la frase ad effetto:
“Non c’è nulla che io possa dire o fare che riesca a farvi cambiare l’idea che vi siete fatti di me quando mi avete vista entrare. Se su 4000 persone dovete sceglierne 16, lo capite se qualcuno funziona o no. Lo sentite nella pancia. Se vi ho incuriosito, mi verrete a cercare”.  
Bella frase. Peccato che non si sia presentata in tempo per essere pronunciata.  

Poi apro Twitter e leggo gli ultimi post di Briatore: parlano del GP di Formula Uno con la stessa imparzialità di un romanista in curva durante il derby. Vi scovo pure degli abomini grammaticali sia in italiano che in inglese, incompatibili con la mia sovietica ortografia. 
E in cuor mio lo mando un po’ a cagare.

Monday 3 June 2013

Sguinzagliata

Rieccomi!

mi spiace non averti dato grossa soddisfazione l’altra sera quando ci siamo incrociati su Skype, ma devi capirmi: questa è la mia ultima settimana di lezione e sto dando fondo alle ultime energie rimaste.
Ho come l’impressione che a tutti sia concessa una quota stabilita di parole da utilizzare nell'arco della giornata, e che io esaurisca sempre le mie a metà pomeriggio.

Un po’ è colpa del mio lavoro: mentre volteggio con disinvoltura davanti alla lavagna brandendo un pennarello manco fosse una bacchetta magica e declamando l’intera tabella dei verbi irregolari che risuonano come formule oscure alle orecchie dei miei studenti, sono costretta a parlare.
Non è semplice mania di protagonismo: più bravo sei come insegnante, meno parole utilizzi e soprattutto deleghi direttamente il piacere della scoperta di una nuova lingua a chi la vuole imparare. Ma io non sono ancora una brava insegnante.
Sono un’insegnante brava, però: sarà merito dell’impegno che ho messo in circolo, se quello che era iniziato come un esperimento per pagare l’affitto si sta trasformando in un lavoro, o meglio in una professione. Perché a me, in fondo, mentre uso il pennarello come la bacchetta di un direttore d’orchestra per far ripetere alla classe come un mantra le parole dalla pronuncia più ostica, le giornate passano rapide e spesso liete. E forse, proprio per sovrastare la mia mania di protagonismo, i miei studenti dicono la loro, e lo fanno quasi sempre in inglese.

Ieri sera, nella migliore tradizione da scuole dell’obbligo, sono uscita a cena con una delle mie classi per festeggiare la fine del corso. Dopo aver deciso di comune accordo di usare la nostra lingua madre una volta varcata la soglia del ristorante, abbiamo passato la serata a passarci vassoi, riempirci bicchieri e raccontarci avventure di viaggio. Si è instaurata da subito una familiarità che non ti aspetti in un gruppo di persone che fino a poche settimane prima ignoravano l’esistenza degli altri: una coppia, due mamme, una nonna, il laureando e il pensionato: una tavolata di individui dalle età e storie più diverse, accomunati dalla curiosità verso l’altro. Un club di cui potrei essere la presidente: da quando sono a Roma, città che mi ha visto approdare in solitaria, mi capita sempre più spesso di trovarmi in compagnia di persone che non mi conoscono e di sentire che non potrei essere in nessun altro posto.

Mi ha fatto ridere il commento che hai fatto al mio regalo di compleanno, anche se gli autori non hanno apprezzato: per tua informazione, non dubito della buona fede dei miei amici, ma mi tocca darti ragione: la bici a Roma può ucciderti più facilmente che nel resto del mondo.
Fra l’altro, rendendomi antipatica sia ai pedoni che agli automobilisti, mi impegno a usare la bici come mezzo di locomozione, e a non destinarla esclusivamente per le passeggiate della domenica.
Nel tentativo di costruirmi dei percorsi che siano i più brevi e possibilmente sicuri, salgo e scendo dai marciapiedi a piacimento, percorro dei tratti contromano e quando il semaforo è rosso faccio lo slalom tra le macchine e mi piazzo in pole position.

Quando è venuto e trovarmi Jon, un paio di settimane fa, ho obbligato anche lui a girare Roma in bici: nel tratto dei fori imperiali, tra piazza Venezia e il Colosseo, l’ho tenuto d’occhio perché perso nella contemplazione ha rischiato di investire un paio di turisti. Quando mostro i tesori di questa città mi inorgoglisco come se avessi qualche merito. E li mostro con lo stesso entusiasmo di quando avevo insegnato a Gilda a portarmi il suo guinzaglio prima di fare una passeggiata, e dovevano saperlo tutti.

Devi venire a trovarmi: sul piano artistico e architettonico sono una pessima guida – catalogo gli edifici in tre periodi storici: romano, rinascimentale e fascista -,  ma ho già una nutrita lista di posti in cui si mangia benissimo. E soprattutto, a differenza di qualsiasi guida turistica, il mio itinerario si basa esclusivamente sulla voglia del momento. Con Jon abbiamo battezzato questo approccio il totally random tour, il cui momento clou è il tourist spotting.
Mentre consumavamo la granita al caffè più buona della capitale osservando attentamente il campionario di umanità riunito davanti al Pantheon in un assolato sabato pomeriggio abbiamo trovato il nostro turista preferito: un russo superaccessoriato a bordo di un Segway che scattava fotografie con l’iPad. Trovava particolarmente pittoresco un gladiatore che si è lasciato ritrarre in numerose pose, e si è quasi spaventato quando questo si è messo a rincorrerlo sfoderando una massiccia spada di legno perché non aveva versato l’obolo.

Oggi non devo lavorare: è una libertà talmente sguinzagliata che passerò il resto della giornata a pensare alle mille cose meravigliose che potrei fare e quando finalmente mi trascinerò fuori di casa sarà ormai troppo tardi per farne almeno la metà. Ma questa è Roma: un buco nero che assorbe i sogni, i progetti e le paure con una forza impossibile da contrastare. 
E se verrai a trovarmi te ne accorgerai anche tu.

Ti abbraccio