Sunday 8 March 2009

Sindrome da abbandono

Appuntamento con un’amica in ticinese. Amica che non vedo da troppo tempo: quando ci siamo conosciute ci siamo viste praticamente tutti i giorni per quasi un anno e poi ne abbiamo lasciati passare altri due senza più riuscire a incontrarci. Come è possibile? È quello che mi chiedo anch’io: prima eravamo lontane e adesso che la distanza fra noi si è ridotta siamo troppo impegnate, o almeno così pare. Che la distanza fisica sia inversamente proporzionale alla distanza tra due anime?

Che fatica. I rapporti umani sono fragili, e a rischio di estinzione.
Non ci siamo più parlate da quando ci siamo salutate l’ultima volta. Nemmeno per telefono. Qualche messaggio ogni tanto, programmando di vederci “il prima possibile”. Cosa significa?
Eppure è una persona che conosco bene, con cui ho condiviso tanto, una persona che non esito a definire una mia amica. Amica immaginaria?

Fra l’altro, si telefonava meglio quando si telefonava peggio.
Ci avete mai pensato? Cosa succederebbe alla comunicazione se si eliminassero i cellulari, e tutti i dispositivi di messaggistica istantanea?
Il veicolo era meno versatile forse; prima del cambio di millennio quando si usciva il telefono rimaneva a casa, ben attaccato al suo filo, ma il suo uso era ben definito: una volta per telefono ci si parlava, ricordate?
E niente può sostituire la telefonata che arriva nel cuore della notte, da una persona che si è sorpresa a pensarti e che vuole dirtelo.

Ho divagato. Mi capita sempre più spesso, da quando mi sono accorta che sto invecchiando.
Che è un processo inevitabile, ma è meglio se continuo a ignorarlo.

Riprendiamo il filo: memori di tanti tentativi falliti e non ancora rassegnate, la mia amica e io decidiamo di riprovarci seriamente, e pianifichiamo il nostro incontro nei minimi dettagli.
Unico elemento lasciato in sospeso, l’ora dell’appuntamento; indicativamente posizionato nella fascia ora felice dell’aperitivo milanese, ma in balia delle ancor più milanesi variabili: il traffico, la caccia al parcheggio possibile e la minaccia Ecopass che ti fa sentire al sicuro solo quando lasci la macchina a casa.

… Tanto ci sentiamo per telefono… Infatti.

Esco dall’ufficio e faccio la telefonata di sopralluogo: il telefono squilla a vuoto.
Passato un quarto d’ora, faccio il secondo tentativo: ancora nessuna risposta.
Faccio passare altro tempo mentre mi preparo per uscire e quando mi incammino per raggiungere il luogo dove ci siamo date appuntamento riprovo per una terza volta, ma anche questa telefonata non va a segno.

Mantengo una calma invidiabile e mi trovo a elaborare congetture:
“Non avrà sentito… il telefono sarà finito sul fondo della borsa, soffocato da tutti quegli oggetti ingiustificati che rendono le borse pesanti e le donne isteriche perché non trovano mai quello che cercano e quello che si portano non serve mai”.
“Non si sarà accorta di aver tolto la suoneria. Succede anche a me”.
“Starà guidando, sicuramente ha l’autoradio accesa e la musica ha coperto il suono del telefono. Magari sta cantando, come faccio io quando sono in macchina da sola. Chissà cosa canta?”.
“Ha dimenticato il cellulare a casa. Sì, deve essere così. Ecco perché non risponde!”.

E poi, tutto a un tratto, qualcosa si rompe, e la logica viene spazzata via da una forma fulminante di sindrome da abbandono. Tutto è chiaro: la mia amica non verrà. Inutile cercare giustificazioni.

Ma non ci metto una pietra sopra, Non ancora. Voglio sapere come è andata.
Se ne sarà dimenticata? Ma se l’abbiamo deciso oggi! Questa non si può nemmeno definire memoria a breve termine!
O forse, prospettiva agghiacciante, mi ha detto di sì vinta dalla mia insistenza, anche se in realtà non ha nessun desiderio di vedermi. In fondo l’invito è partito da me.
Anche questo è possibile, ma quanto fa male? E poi, può essere una motivazione valida per non presentarsi a un appuntamento? Di solito ci si nasconde dietro a una scusa, una qualsiasi.
Di solito ti muore una zia molto anziana e molto malata.

In questo turbinio di ipotesi l’autocommiserazione prende il sopravvento, e la parabola già discendente crolla a picco; se prima c’ero rimasta male ora sono inconsolabile: “sono così noiosa?”, “io uscirei con me?”, “nessuno vuole passare il suo tempo in mia compagnia”,
“e comunque sono sempre l’ultima scelta”, fino a arrivare all’assioma: “nessuno –a parte mamma e papà, ma loro non contano- nessuno a questo mondo mi vuole bene!”.

E proprio quando ci sto prendendo gusto a piangermi addosso, ecco che mi arriva un messaggio.
Leggo il mittente: è lei. Sudo freddo: la risposta che non ho trovato è lì, a portata di tasto.
Ma prima di leggere il testo, svelando così l’arcano, pregusto sadicamente una lista di punizioni adeguate e direttamente proporzionali alla futilità della motivazione: più debole la scusa, più alta la posizione nella mia lista nera.

Sono troppo amareggiata per osservare cinicamente che fare uscire dalla mia vita una persona a cui non interesso più significa fare il suo gioco: facilitarle l’uscita di scena, risparmiarle l’evasione con le lenzuola annodate per srotolarle il tappeto rosso.
Com’è che non riesco nemmeno a trovare un modo per vendicare l’onta subita?

È un minuto che fisso il monitor del cellulare, l’icona del messaggio che lampeggia, la bustina ancora chiusa. Leggi: “scusa Cla, non ho realizzato, sono in ospedale perché la mia coinquilina ha avuto uno shock anafilattico. Non me ne sono accorta perché ho il muto, e nella confusione ho dimenticato di chiamare.”

Merda! Questa mi sembra una motivazione più che valida! L’amarezza viene soppiantata dal senso di colpa. “Come ho potuto pensare che una mia amica…”; caleidoscopio di emozioni altalenanti, e tutto nel giro di un ora.

Però sul muto ci avevo azzeccato!

La morale di questa storia è: quanto siamo vulnerabili? E quanto abbiamo bisogno di comprensione? L’uomo è un animale sociale, costantemente alla ricerca di un altro in cui rispecchiarsi e trovare sostegno.
E forse il segreto della sicurezza in se stessi è da ricercarsi proprio nell’approvazione altrui.

E lasciando perdere la morale, dobbiamo però riconoscere che i mezzi di comunicazione non aiutano a comunicare davvero. Io so solo che per telefono non riesco ad esprimermi come vorrei... faccio fatica a stabilire un contatto con la persona all’altro capo del filo. Filo che quando era fisico, quello del grigio scatolotto della SIP, mi attorcigliavo attorno a un dito per rallentare il battito del cuore, che insieme ai palmi sudaticci segnalava una telefonata che era diversa da tutte le altre. Non ho ancora trovato la funzione antistress nel mio cellulare.

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