Wednesday 24 June 2009

In hairstyling we trust


Se c’è una categoria professionale in cui una donna ripone incondizionata fiducia è quella dei parrucchieri. Una donna si fida del proprio parrucchiere. Ogni donna ha o è alla costante ricerca del parrucchiere di fiducia.
Non del medico, che non ascolta mai la diagnosi che porto insieme ai sintomi, non del commercialista, che mi costa più delle tasse, non del panettiere sotto casa che quella volta mi ha infilato nel sacchetto la rosetta del giorno prima… il parrucchiere è l’unico che non mi tradisce mai. A meno che non sbagli meches.

E qui mi trovo a confessare che sono invece io a tradire, ormai da sei mesi e senza rimorso, quello che, sulla base di un rapporto consolidatosi negli anni, definivo affettuosamente “il mio parrucchiere”.

L’ultima volta che l’ho pagato per i suoi servigi, si è dimenticato di trattarmi come se fossi l’unica donna presente sulla faccia della terra, e la mancanza di queste attenzioni mi ha presentato il suo lavoro sotto una luce diversa.
Ci eravamo accordati su un taglio corto, estivo, wash and go. Lui sforbicia forsennatamente per una decina di minuti e mi riconsegna a me stessa dopo la piega che sembravo Morrisey. E va bene che Morrisey è un’icona gay, e che gli anni ’80 in fatto di stile sono più di moda adesso che vent’anni fa… Ma non mi ci riconoscevo. È bastato lavare i capelli per tornare alla normalità. Così, nonostante la sorpresa iniziale mi sono ritrovata con una testa inoffensiva, quasi bon ton… ma un bon ton noioso, da sciura, non un bon ton malizioso alla Coco Chanel… Mi sono ritrovata con lo stesso taglio di capelli di mia madre.
E mia madre non è Morrisey.

Per me andare dal parrucchiere è una specie di rito di passaggio: mi taglio i capelli quando mo trovo all’inizio di una nuova esperienza. E il fatto che non riesca a farli crescere fino alle spalle, dimostra che vivo in un clima di ciclica instabilità. Cambio vita, cambio posto, cambio strada, cambio lavoro, cambio ragazzo e cambio taglio di capelli, così ogni volta che mi incrocio nello specchio ricordo a me stessa che ho voltato pagina e mi ritrovo con una nuova pagina bianca tutta da riempire.

Io sono la cliente che qualsiasi parrucchiere vorrebbe: sono curiosa e mi piace lasciare fare a chi conosce il mestiere senza prefigurarmi il risultato, esigo ispirazione -anche a scapito della tecnica-, l’acqua dello shampoo va sempre bene e basta mettermi le mani in testa per azzerare ogni mia difesa personale. In più la situazione di partenza è solitamente disperata e risulta più facile compiere il miracolo di ridare una forma ai capelli.
Contento tu, che hai fatto un bel taglio, contenta io, che sicuramente sono più a posto di prima. Ed è questa botta di autostima reciproca crea complicità e cementa il rapporto.

I parrucchieri hanno una tattica: nel lavarmi i capelli mi fanno anche il lavaggio del cervello. E io mi ritrovo a dire di sì a ogni loro proposta. È più forte di me. Settimana scorsa, ad esempio, mi sono presentata come modella a una lezione di taglio alla Tony & Guy academy, nota scuola di parrucchieri di Milano. Quando i professori riuniti in commissione mi hanno chiesto che taglio volessi, credo di aver azzeccato la risposta perché nel pronunciare la parola “caschetto” ho visto i loro sguardi illuminarsi. E quando Leon, il colorista, mi ha implorato di fermarmi un’ora extra perché voleva fortemente completare il discorso taglio con un colore adeguato ho fatto carte false in ufficio perché non avrei sopportato la sua delusione in seguito a un mio rifiuto.

Sono stata sequestrata per l’intera mattinata da un commando di parrucchieri gay che mi hanno rilasciata solo dopo aver svolto con precisione le consuete operazioni di shampoo, taglio, colore e piega. Mi hanno regalato un caschetto grafico, leggermente asimmetrico, in tonalità castano mirtillo. Gratis. E alla fine loro erano più contenti di me! Come si fa a non amarli?

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