Saturday, 29 December 2012

Mangia prega ama

















Un taxi poi… e tutto per me. Non lo prendo mai, il taxi, e non potrò di certo permettermelo spesso nei prossimi due mesi, però questa volta non c’era alternativa. Ho seguito alla lettera le indicazioni ricevute via mail: in aeroporto ho tenuto stretto il mio zaino rifiutando aiuto e risparmiando mancia e mi sono infilata all’ufficio turistico per farmi indicare un taxi regolare. L’indirizzo dell’ostello l’ho scribacchiato dietro al biglietto aereo: lo passo al tassista, che annuisce, mi carica e si fa strada strombazzando nella lunga coda che lascia il parcheggio per immettersi sulla strada principale.

E che taxi poi… chi se lo immaginava che le gloriose fiat Uno venissero in pensione in Indonesia? Questa è la stessa macchina con cui ho imparato a guidare, una vita fa, nei campi vicino a casa: stessi sedili scomodi, stesso cambio a quattro marce, stessi finestrini che si abbassano con la manovella. Anche il colore è lo stesso: bianco e basta. Alla mia macchina però mancava l’autoradio mentre in questa, dal sistema rudimentale di casse aggiunte al magro impianto di serie, escono le frequenze di una stazione radio locale: quando le prime note di “like a prayer” si diffondono nell'abitacolo il tassista, fino a quel momento silenzioso, alza decisamente il volume e la canta nel suo inglese fantasioso.
Sorrido, e ci scambiamo uno sguardo nello specchietto retrovisore. Non avremo una lingua comune, ma sappiamo entrambi che i primi dischi della signora Ciccone sono pietre miliari nella storia della musica pop.
La canterei anch’io, se non fossi così agitata… rimetto in borsa il cellulare che ho cercato invano di rianimare, e abbasso il finestrino.

Il nostro aereo è atterrato sotto a un acquazzone da manuale e l’asfalto è ancora bagnato. Non c’è quel caldo soffocante che mi immaginavo… Ma in fondo cosa potevo immaginarmi?
La mia idea di Bali fino all’anno scorso era sintetizzata dalla minacciosa maschera di legno intagliato che mia zia tiene appesa nel tinello, ingombrante ricordo di un viaggio di nozze col sapore di un’impresa coloniale. Poi è arrivato Hollywood, che in modo brutalmente illusorio mi ha presentato Bali come il posto in cui Julia Roberts, ingrassata a Roma e dimagrita in India trova infine la pace dei sensi con un Javier Bardem abbronzatissimo e proprietario di mezza isola. Mangia, prega, ama: è questo il mio programma di viaggio, anche se la preghiera che tutto vada per il meglio finora ha messo in ombra il resto.
Sono una donna emancipata e non posso permettermi di credere alle favole, ma sarebbe bello se anche la mia Bali, andando contro all’evidenza, non assomigliasse alla periferia intasata di traffico di qualsiasi città.

Sono mesi che mi sento chiedere “Allora, come va con I.?”; le relazioni a distanza non sono facili, nemmeno da spiegare, e negli ultimi tempi gli sguardi condiscendenti dei miei amici mi hanno messo spesso a disagio. Sono mesi che lui è partito e io l’ho seguito come potevo mentre viaggiava tra i fusi orari di Sudamerica e Oceania. Da pendolare dell’amore ora ne sono diventata la cronista: narro le sue gesta evitando di raccontare che ruolo gioco io in tutto ciò. È per rispondere a quest’unica domanda che senza aspettare che il mio ragazzo mi invitasse a raggiungerlo ho comprato un biglietto e dopo 36 ore di viaggio mi ritrovo qui, su questo taxi che comincia a starmi stretto;  l’odore di Arbre Magique appena scartato mi da’ alla testa: un deodorante all’aroma chimico di cocco in un paese esotico, ricoperto di palme… Ma perché?
Abbasso il finestrino: fuori dal taxi scorrono al rallentatore muretti e recinzioni che faticano a contenere una vegetazione che scoppia di salute: come cercare lussureggiante sul dizionario illustrato. Sono piante invadenti, con ampie foglie lucide che arrivano a coprire come a proteggerle delle piccole costruzioni che punteggiano la strada: sembrano delle case in miniatura appoggiate sopra una colonna, decorate con drappi gialli e con vassoi di foglie pieni di fiori. Credo che abbiano qualche significato religioso perché davanti ad ogni casetta brucia un bastoncino di incenso. Vorrei chiederlo al tassista, cosa sono questi altari, e vorrei anche chiedergli quanto ci vorrà ad arrivare a destinazione con questo traffico, ma lui non parla inglese e io non parlo più, che forse per il finto odore di cocco o per la paura di non trovare nessuno ad attendermi faccio fatica a respirare.

Con I. ci siamo sentiti una settimana fa, quand’era ancora in Nuova Zelanda. Sarà stato prematuro, ma gli ho chiesto se aveva capito cosa voleva fare una volta che il suo giro del mondo l’avesse riportato al punto di partenza. Lui si è rabbuiato, ed è riuscito solo a dirmi “non puoi chiedermi di tornare a Francoforte”. Francoforte... una città in cui sono finita per stare con lui, e che sarei pronta a lasciare dopodomani, per stare con lui. 
Sono più di tre anni che saltiamo da un posto all’altro, da un lavoro all’altro per paura di mettere radici, e a me comincia a mancare la terra sotto i piedi.

“Rita’s house?” domanda il tassista indicando un edificio rosa alla nostra destra. Fuori dal cancello c’è I.: ha una maglietta gialla e non l’ho mai visto così abbronzato. Non sarà Javier Bardem, ma nemmeno io sono Julia Roberts... “Stop!” ordino, e quando il taxi si ferma I. mi vede e mi viene incontro.
Pago e raccolgo lo zaino mentre I. si fa sempre più vicino alla portiera. Stringo la maniglia e inspiro forte come prima di un tuffo. Andrà. Tutto. Bene. 

Thursday, 13 December 2012

Dottore del buco


Non appena mi richiudo la porta alle spalle, vengo abbracciata da un enorme mazzo di fiori. Tenendolo stretto, mi faccio spazio a colpi di naso per riuscire a intravedere chi mi sta aspettando in cortile dopo essere stato seduto dietro di me in aula magna mentre discutevo la tesi. Sto spuntando mentalmente la lista delle presenze quando vengo sommersa da un’ondata di facce amiche e ancora impacciata dal cespuglio multicolore che stringo tra le braccia, comincio a distribuire baci.

Paola sembra vittima di una paresi facciale, da quanto sorride; so che i fiori me li ha comprati lei, e so anche perché: dal basso dei miei biechi calcoli costi-benefici, le avevo confessato che trovavo stupido pagare così tanto una cosa che sta già morendo. Le avevo anche confessato che nessuno mi aveva mai regalato fiori, ma che era meglio così, perché tanto non avrebbe avuto senso pagare così tanto una cosa che sta già morendo.
“Ti piacciono?” mi chiede Paola. “Tantissimo” rispondo io, e come sempre con lei non c’è bisogno di mentire. Questo mazzo di fiori, giallo di girasoli e rosso di peperoncini, è irriverente, chiassoso, genuino, e mette di buonumore. Proprio come Paola, con gli indomabili riccioli rossi le improbabili calze a righe.   

Sono venuti tutti per la mia laurea: i miei compagni di università, anche quelli che saranno al mio posto nei prossimi giorni, la mia famiglia, gli amici di lunga data e le colleghe del negozio. Durante le foto di rito,  quando l’intera squadra di calcetto dell’aula studio si cala letteralmente le braghe davanti all'obiettivo di mia sorella, un usciere ci chiede di contenere l’entusiasmo, per rispetto a quegli studenti che devono ancora discutere la tesi.
La Lu mi gira intorno con la macchina fotografica, scattando a ripetizione. Le sequestro la macchina, con la scusa di testimoniare la sua presenza dall'altro lato dell’obiettivo, ma anche con l’intenzione di cancellare tutte le foto in cui sembro un mostro, e mi ritrovo così a ripercorrere l’ultima mezz'ora com'è stata fermata per immagini.

Nella prima foto ci sono io di spalle, a spezzare un semicerchio di cinque professori visibilmente annoiati. Il tavolo che ci separa è massiccio, di legno scuro, solenne come i pesanti tendaggi di velluto che incorniciano le finestre, e le lunghe toghe nere che impacciano i docenti quando si passano la mia tesi. Una fotografia che funzionerebbe benissimo anche in bianco e nero, nel suo essere fuori dal tempo.

La seconda foto invece è presa più da vicino: nell'inquadratura rientriamo di profilo solo io e il mio relatore, che ha assunto lo stessa espressione della gioconda, nonostante si noti che io sto gesticolando risolutamente a caccia di approvazione. Lui è Antonio Scurati, docente di sociologia della comunicazione. Mi era bastato vederlo una volta sedersi sulla cattedra con nonchalance per sceglierlo come relatore. A tutti noi del terzo anno era noto come il killer: si era presentato la prima lezione del semestre vestito completamente di nero, con tanto di dolcevita e guanti di pelle, e il nomignolo gli era rimasto appiccicato addosso tutto l’anno. Un uomo alto, con gli occhi di ghiaccio, poco incline al sorriso, vintage di classe come un cattivo di James Bond.

Nella terza foto è lui a parlare, rivolgendosi al presidente della commissione, mentre io sfoglio la mia tesi come se la vedessi per la prima volta.
Avevo scelto di scrivere dei Radiohead, cercando di fare un parallelo fra i musicisti che avevano accompagnato le rivolte studentesche del ’68 con le loro canzoni di protesta e questa band di Oxford che invece raccontava benissimo lo spaesamento che aveva seguito i tragici fatti dell’undici settembre. La tesi l’avevo intitolata Il rock nella società del rischio, e sentivo che poteva funzionare. Il Professor Scurati non conosceva i Radiohead, ma aveva accettato la mia proposta senza riserve. La sfida consisteva semmai nel presentare il mio punto di vista anche agli altri membri della commissione.

Nella quarta foto, la mia tesi è passata fra le mani del presidente della facoltà, il quale mi lancia uno sguardo da sopra gli occhiali a cui io rispondo mordendomi il labbro: era una domanda retorica la sua, e la risposta campeggiava sulla prima pagina, scritta di mio pugno, eppure era bastato quello per farmi andare nel pallone. Sono ancora frastornata, ma dalla nebbia della frenesia riemergono alcuni dettagli: la discussione… perché ho fatto un discorso così generale e non mi sono invece concentrata sull’analisi dell’album che ben rappresentava le teorie analizzate? Avrei potuto far ascoltare un pezzo di canzone, mostrare l’artwork dei dischi… Sapevo di avere solo una decina di minuti, e quando sono scaduti è dovuto intervenire il relatore a tirare le fila del mio discorso. Me la sono giocata malissimo. Scrivere e riscrivere una cosa per settimane può darti l’impressione di averla imparata, ma comunicarla in modo efficace è un'altra cosa.

Ed ecco la quinta foto, scattata prima del frontale con il mazzo di fiori: io che infilo l’uscita dall’aula magna con lo sguardo basso e le labbra serrate. Espressione che ho  assunto anche in questo momento, concentrata sul display della fotocamera e assente dai festeggiamenti di cui dovrei essere protagonista.

“Tutto bene, Clod?” mi chiede Paola “Beh, potevo prepararla meglio la presentazione”, rispondo, per dare sfogo alla sensazione di malessere che mi ha invaso . “Ma va, scema, sei andata benissimo! E poi fanno così con tutti i professori: fanno finta di ascoltarti, ma in realtà pensano solo a cosa ordineranno per pranzo al ristorante”. Sorrido a Paola, anche se non sorrido dentro: lì dove ci dovrei sentire un’esplosione di sollievo c’è un grumo di rabbia, e non so perché. O forse lo so, anche se non mi va di raccontarmelo… Dopo tre anni di totale anonimato avevo finalmente la possibilità di esprimermi, di raccontarmi, di spiegare perché avevo scelto di trattare un argomento come la musica, e invece mi sono sentita ripetere la lezioncina imparata a memoria. 
Sono una secchiona, lo sono sempre stata, e non ho nemmeno il coraggio di difendere le mie opinioni.

Mentre rimugino sull'occasione sprecata, attraverso il cortile e raggiungo i miei genitori, che in piedi in un angolo osservano le manifestazioni di affetto più svariate, intontiti dal caos che ha preso piede.
Non riesco a collocarli, tra le mura dell’università e forse per questo che non avevo insistito perché venissero oggi: si tratta di una laurea di primo livello in scienze della comunicazione, non certo di un traguardo accademico. Ma alla fine sono contenta che mi abbiano accompagnato: hanno appoggiato –e finanziato- ogni mia decisione, senza mai chiedere un riscontro, e sarebbe stato egoista escluderli da questa grossa parte della mia quotidianità. Mamma, che non mi farebbe mai un complimento in pubblico, si preoccupa dell’aspetto pratico, chiedendomi se ho deciso dove andremo a mangiare, mentre papà mi sorride, sintetizzando così quelle mille parole che non riuscirebbe comunque a pronunciare.
Sono tutti fieri di me, tranne la sottoscritta. Non voglio rovinare la giornata a nessuno, specialmente a me stessa, ma non riesco a rassegnarmi al fatto che avevo una sola possibilità, e non l’ho sfruttata al meglio.

Spiego a mamma che prima di andare a pranzo dobbiamo aspettare il momento della proclamazione, e mi ributto nella mischia. “E adesso cosa farai?” mi chiede mio cugino, e io rispondo “vacanza”, che in fondo è quello che ho fatto finora… A scuola me la sono sempre cavata senza grossi sforzi, e l’università non è stata un’eccezione: ho riempito il mio libretto di esami e non ho perso tempo, ma non mi sono mai messa in gioco davvero. Non ho mai fatto la fatica di mia sorella che sputa sangue su quei modellini di architettura che la tengono in piedi tutta la notte. E se non mi fa piacere quando mi dice che la mia facoltà è facile, è perché so che ha ragione.

Io e altri cinque studenti veniamo convocati nuovamente in aula magna per la proclamazione: i professori ci attendono in piedi davanti al tavolo, e noi ci allineiamo di fronte a loro. Mi laureo con 107 su 110. Un voto senza infamia e senza lode.
 “E adesso cosa farò?” penso, mentre stringo la mano al professor Scurati, tenendolo stretta più a lungo del dovuto mentre cerco nei suoi occhi di ghiaccio l’ombra di una risposta. Ma i suoi occhi mi restituiscono solo la mia immagine riflessa.

Wednesday, 5 December 2012

Claudia, mia sorella

Sto facendo un corso di scrittura. Lo sanno anche i soprammobili di casa mia. D'altronde, ho trovato casa al Pigneto e non posso non avere velleità artistiche, pena lo sfratto.
Pubblico qui tutti i miei compiti a casa, perché sono una che non butta via niente, e così mento a me stessa sul fatto che sto trascurando il blog.

L'esercizio di questa settimane era immaginare il discorso che qualcuno avrebbe fatto al nostro funerale, e io che sono autoreferenziale a priori mi ci sono trovata a mio agio. Ho messo queste parole in bocca a mia sorella, conscia del fatto che in realtà lei sarebbe molto più spietata. Enjoy it!


Claudia ci ha messo una vita a imparare a stare da sola con se stessa senza annoiarsi. Nessuno l’ha potuta accompagnare in quest’ultimo viaggio, e sono sicura che sentirà molto più lei la nostra mancanza che non noi la sua.

Non so quale Claudia vi resterà attaccata alla memoria… Essere sorelle ha significato condurre due esistenze parallele, almeno fino agli anni del liceo: l’anno e mezzo che separa le nostre nascite era troppo breve per separare anche le nostre esperienze. E così, crescendo, di Claudie ne ho conosciute tante, e resterò in compagnia di ognuna di loro.

Mia sorella era un organismo mutevole, ma in ogni sua mutazione rimaneva ancorata ad alcuni punti fissi.

Aveva un profondo senso di giustizia, e da quando si era tatuata un simbolo buddhista su un piede affermava di credere nel karma, che chiamava così per svecchiare l’immaginario cattolico sbandierato da nostra madre. Ma se la ricompensa non arrivava immediatamente, non ci credeva più: se dopo un’ingiustizia subita gli eventi non rientravano in carreggiata, soffriva di un istantaneo calo d’entusiasmo. Era totalmente sprovvista di pazienza, per lei era tutto e subito.
Claudia non aveva mai pensato alla morte, perché la morte non l’aveva mai sfiorata, eppure si sentiva morire ogni volta che le cose non andavano secondo i suoi piani. Fortunatamente, non ne faceva un dramma. Lo sconforto offuscava la sua costante euforia con la stessa rapidità di una nuvola che per un attimo oscura il sole.

Tra i quattro stereotipi alla Sex and the City in cui tutti abbiamo provato a riconoscerci, Claudia, anche se giocava a fare Carrie, era 100% Charlotte, l’inguaribile ottimista. La sua amica Laura, che apprezzava il cinismo di Miranda, dopo un paio di settimane di frequentazione in università l’aveva ribattezzata Pollyanna-di-merda. Mai soprannome fu più azzeccato.

Claudia era empatia pura, e il suo umore la cartina al tornasole dello stato d’animo delle persone a cui era più legata. Era l’unica donna che conoscevo totalmente priva di mistero: era come un fascio di nervi esposto, che rispondeva a qualsiasi stimolo senza potersi controllare.
Azione e reazione, conditi dall’occasionale pentimento.
Ricordo che alle medie, la professoressa di lettere aveva fatto un test a tutta la classe: ogni studente doveva immaginare un deserto e posizionarvi un cubo, una scala, un albero e un cavallo. Questi oggetti simbolici rappresentavano concetti più ampi: il cubo ad esempio era la proiezione della propria personalità e le caratteristiche attribuite a questo solido raccontavano qualcosa della persona che l’aveva immaginato. Il cubo che Claudia aveva immaginato era di vetro. E una Claudia fatta di vetro non poteva nascondere nulla.

Forse per questo ha sempre avuto la lacrima facile, anzi facilissima; piangere era la sua risposta prediletta. Col tempo, aveva affinato la tecnica, e piangeva in modo composto, senza che il naso gocciolasse e senza fare smorfie, ma le lacrime non è mai riuscita a trattenerle. Piangeva di commozione davanti alla bellezza , di frustrazione davanti alla stanchezza, di rabbia davanti a un sopruso, di dolore davanti a una delusione. Piangeva quando non le venivano le parole.
E questo è strano, perché sappiamo tutti che Claudia parlava tantissimo: la comunicazione era un'altra delle sue fisse.

C’è questa foto che è rimasta negli archivi della nostra famiglia: ci sono io in fasce nella culla con gli occhi fissi su mia sorella che in groppa al suo cavallo a dondolo sfoglia un gigantesco libro: l’espressione concentrata e la bocca aperta suggeriscono che mi sta raccontando una favola, metà inventata, metà rimaneggiata con l’aiuto delle figure.

A Claudia le storie sono sempre piaciute. Le piaceva raccontarsi, come faceva nel suo blog, ma le piaceva ancora di più sentirsi raccontare le vite degli altri. Non a caso, i suoi film e i suoi romanzi di riferimento erano quelli che avevano come protagonisti la gente comune, quelli che mostravano lo straordinario racchiuso nel quotidiano. Aveva fatto suo il motto del pianista sull’oceano “non sei fottuto veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”, e per non rimanere mai a corto di storie, faceva un sacco di ricerca sul campo. Era un’appassionata osservatrice del genere umano: giocava a fare sociologia da quattro soldi, e riusciva a essere curiosa senza essere maliziosa.

Sento che mia sorella mi è vicina, che in questo momento ci sta osservando e che avrebbe mille domande da farci. Per questo vi chiedo di farle un regalo: la prossima volta che vi ricorderete di lei, perché non le raccontate qualcosa che vi è successo, così da tenerla occupata con le vostre storie? Sono certa che apprezzerebbe. 

Wednesday, 28 November 2012

Suor Andreina

Io ho imparato a leggere a 5 anni, perché ho giocato tantissimo con il grillo parlante che mi ha portato santa Lucia. Adesso ho 6 anni e mezzo e sto imparando a scrivere in corsivo.
La zeta in corsivo maiuscolo è difficile: è piena di pance e trattini, e mi esce tutta storta. Perché il mio cognome inizia proprio con la zeta? Suor Andreina sta passando fra i banchi a controllare che abbiamo scritto il nostro nome corretto sul quadernone di ortografia; lei è la nostra la maestra: è vecchissima, perché ha i capelli grigi che le escono dal velo, e ha lo stesso odore che sento quando prima di pranzo vado in cucina a prendere il cestino con il pane da portare in refettorio.
A mia mamma suor Andreina piace perché è severa, a me non piace perché è troppo severa.

Ecco, ho fatto un pasticcio: ho scritto il mio nome tutto a penna e non riesco a cancellare la zeta con la gomma, nemmeno se lecco il lato blu come mi ha fatto vedere Marco. La mia zeta non sembra la zeta che suor Andreina ha disegnato con il gesso sulla lavagna... la mia zeta è proprio brutta. Adesso strappo il foglio e ci riprovo.

Oggi sul banco ho l'astuccio delle Barbie di Lidia. Lidia è la mia amica del cuore, e ci scambiamo le cose: lei mi ha prestato le penne che profumano di frutta e io le ho dato il mio temperino a forma di lattina di coca cola. Lidia però non è la mia vicina di banco, anche se a me piacerebbe molto. In classe siamo in 22, 15 maschi e 7 femmine, e vicino a me ci sono Stefano da una parte e la finestra dall'altra.

La mia scuola è più bella dell'asilo di mia sorella perché qui c'è un giardino grandissimo, con le altalene che vanno veloce e un campo da calcio vero. Dentro al giardino vive un pavone, tutto blu e verde: a me fa un po' paura perché quando strilla sembra un elefante, però quando guardo fuori dalla finestra dell'aula lo cerco sempre. A volte le suore lo lasciano uscire dalla gabbia, ma non quando facciamo ricreazione. Settimana scorsa ho trovato nel prato una piuma della coda, di quelle che il pavone usa per fare la ruota  e l'ho regalata alla mamma. 

A me piace tantissimo colorare, e anche a Luisa, la mia sorellina, ma lei è piccola e non riesce a stare nelle righe. Ieri, durante educazione artistica, abbiamo colorato l'autunno; era tutto su una fotocopia: una zucca, tre castagne e due foglie cadute da un albero. Dato che ora sono grande, posso usare i pastelli acquerellabili, che devo stare attenta a non far cadere, altrimenti si rompe la mina dentro e ogni volta che si temperano si stacca la punta. Io ho una scatola di metallo con 25 pastelli acquerellabili che tengo sotto al banco e quando li uso poi li rimetto sempre via in ordine di colore, dal bianco al nero. 
Quando dovevo colorare l'autunno ho preso il viola, il mio colore preferito, e ho colorato la zucca. Sono stata velocissima. Ma quando ho chiamato suor Andreina al banco e la ho fatto vedere cosa avevo fatto, lei non ha sorriso come fa sempre la mamma quando le porto i miei disegni. No, lei mi ha detto: “Claudia, le zucche non sono viola, sono arancioni”. Poi ha preso un'altra fotocopia e due dei miei pastelli, quello arancio chiaro e quello arancio scuro, e ha colorato un pezzo di zucca, facendo le sfumature. “Si fa così”, mi ha detto “vai avanti da sola”. 
Mi sono guardata intorno: tutti i miei compagni stavano colorando la zucca di arancione. 
Per fare le sfumature come quelle di suor Andreina, lecco la punta del pastello, perché è così che si trasforma in acquerello. Ha un sapore buonissimo, anche se non sa di arancione.

Quando sentiamo bussare alla porta, tendiamo l’orecchio, 22 pastelli si fermano a mezz’aria e 22 paia di occhi guardano la maestra: suor Andreina va ad aprire, fa entrare un uomo con dei grossi baffi neri e ci dice: “Bambini, questo è il sindaco di Rodengo Saiano, salutate”. Io non so cosa fa il sindaco di lavoro, ma so che è una persona importante. Io e i miei compagni diciamo “Buongiorno”, perché ai grandi non va bene dire “ciao”. Il sindaco non dice nulla, guarda i nostri disegni appesi alle pareti e la zeta sulla lavagna, poi sorride e se ne va. Quando il sindaco chiude la porta però, suor Andreina non sorride: è tutta rossa in faccia, ha le mani chiuse e pugno e urla “siete un branco di somari, dovevate alzarvi!”.
Siamo stati davvero così somari? Noi ci alziamo sempre quando entrano le maestre, chi lo sapeva che il sindaco è più importante delle maestre? E poi il sindaco non sembrava arrabbiato, suor Andreina invece sì.

Io non voglio che Suor Andreina si arrabbi: quando si arrabbia strilla più forte del pavone che sembra un elefante, quando mi sgrida io mi metto a piangere e quando piango i miei compagni si mettono a ridere, e a me non piace e così piango ancora di più.

Ho pianto in classe quando una volta mi sono dimenticata di fare i compiti di matematica, e Suor Andreina mi ha messo un brutto voto. Non avevo mai preso male, io prendo sempre bene, e a volte benissimo.  
Ma quella volta sul quaderno c’era scritto male grande, in rosso, con tre punti esclamativi e a penna. Non potevo cancellarlo, e avevo paura a dirlo alla mamma, ma quando lei lo ha visto mi ha spiegato che non era successo niente, e che se la prossima volta sto più attenta non succederà più.

Quando arrivo a casa il pomeriggio la mamma prepara la merenda e io guardo i cartoni con Luisa. I miei cartoni preferiti sono i puffi. Io vorrei essere puffetta, ma la mamma mi taglia sempre i capelli corti come un maschio. Gargamella, che è cattivo perché vuole mangiare i puffi, ha un vestito lungo e nero come quello di suor Andreina. Io e i miei compagni invece abbiamo tutti il grembiule blu, e sembriamo proprio i puffi.

Certi giorni mi piacerebbe essere un puffo perché loro non vanno a scuola e non devono fare i compiti. Ma poi mi ricordo di Gargamella e penso che anche se suor Andreina a volte è cattiva, almeno lei non vuole mangiarci.

Grand Central, novembre 2006


L’unica cosa che mi da’ la forza di uscire dal piumone in questa gelida mattina di novembre è il pensiero che da domani potrò dimenticarmi di puntare la sveglia. Se mi alzo e inizio questa giornata, ogni minuto che passa sarò più vicina a un’intera settimana di tregua da questo tour de force.

Sono stata ripresa da Melissa perché negli ultimi giorni il nostro rituale mattutino si è consumato in tempi un po’ stretti, costringendo le bambine a fare colazione di corsa e rischiando di arrivare tardi a scuola.

In realtà la sveglia suona sempre alla stessa ora, ma ultimamente gli incidenti di percorso si sono moltiplicati; ieri mattina ad esempio, quando minacciava neve, Harriet voleva uscire di casa in maniche corte e c’è voluto un quarto d’ora di trattative per convincerla che portarsi un maglione non era poi un’ idea tanto malvagia.

A me fino alla quinta elementare come mi vestivo lo decideva mia mamma, e infatti sfoggiavo dei colletti con il pizzo da fare invidia al piccolo lord Fauntleroy. A me fino a quando non ho raggiunto mia mamma in altezza, se facevo i capricci arrivavano anche un paio di sculaccioni ben assestati, a risolvere il contenzioso.

Ma questi bambini americani sono organismi più complessi, versioni in miniatura dei loro genitori, nevrosi e idiosincrasie comprese: e così, mentre l’istinto mi urlava di infilare la testa e le braccia di Harriet dentro un maglione, senza grosse giustificazioni, lo sguardo della sua mamma affacciata sulla soglia mi obbligava a fingere di ignorare il tono polemico e continuare l’opera di diplomazia. Infruttuosa. “Tu non puoi dirmi cosa devo fare!” mi ha urlato a un certo punto Harriet, con un’aria di sfida che io non ho sfoggiato  nemmeno negli anni della contestazione adolescenziale. E se dice queste cose adesso che ha cinque anni, non oso immaginare che slogan farà suoi quando l’adolescenza arriverà davvero.

L’aria è elettrica in questi giorni: sono tutte e tre nervose, mamma e figlie, perché stasera arriva Steve, il papà di Lyla e Harriet, a prendersi la sua fetta semestrale di affetto filiale.
Dell’ex marito so solo che se n’è tornato in Inghilterra a inventarsi una nuova famiglia proprio nell’autunno del 2001 in un momento drammatico sia per New York che per Melissa, che aveva recentemente perso la madre poche settimane dopo aver avuto la seconda figlia. Sono poche informazioni, ma sicuramente non rappresentano un buon biglietto da visita.
Un paio di settimane all'anno Steve, invece che essere una voce dal forte accento di Manchester che telefona il giovedì per salutare, si materializza e porta le figlie in vacanza con lui.  

Sono genitori part-time, questi WASP che hanno studiato e continuano a lavorare nella grande mela, ma che si sono spostati dal bilocale alla villetta a nord della città per permettere alla prole e a un cane di scorrazzare felici in giardino. Troppo impegnati a guadagnare soldi per pagare l’au pair da sfoggiare alla cena di Thanksgiving per dedicarsi a passatempi quali svegliare o mettere a letto i propri figli.
E sono genitori full time le au pair europee e le bambinaie sudamericane che si incontrano al parco giochi il pomeriggio, alla guida di passeggini superaccessoriati.

All'ora in cui Melissa scende in cucina per la dose quotidiana di caffè e New York Times io rientro a casa dopo aver svegliato, vestito, pettinato, sfamato e accompagnato a scuola le sue figlie. All'ora in cui lei rientra per cena, io ho già rifatto l’intero processo al contrario.

Vivo con una mamma single, e non la invidio: dal lunedì al venerdì è tappata in ufficio, mentre il fine settimana viene travolta da un turbine di attività pianificate in modo che le figlie non si annoino mai.
Chissà cosa farà questo fine settimana, quando loro saranno con il padre… l’uomo che prima l’abbandona e torna solo per portarsi via le sue figlie;  l’uomo cui lei ha impedito di presentarsi a casa, perché sa che non riuscirebbe a nascondere il dolore e la rabbia del distacco di fronte a Lyla e Harriet.
Ha deciso che è meglio fare tutto in sordina, e ha quindi chiesto a me di accompagnare le bambine in città, dove il padre ha preso una stanza in albergo.

Nel pomeriggio preparo la valigia: Melissa vorrebbe darmi delle indicazioni, ma non riesce a concentrarsi. Sono tre giorni ormai che è in stato catatonico: è gelosa che le bambine vogliano passare del tempo con Steve, e allo stesso tempo desidera che si trovino bene con lui anche questa volta, e che non sentano troppo la sua mancanza. Ci accompagna in stazione, e riesce pure a sorridere quando il treno lascia la banchina e noi la salutiamo dal finestrino. Che donna: da grande voglio essere come lei. Magari con un pizzico di fortuna in più.

Sul treno Lyla è euforica: mi racconta delle ultime vacanze con il padre -d’estate in una casa in Toscana con una mega piscina, circondata da uno stuolo di fratelli e sorelle acquisiti- e comincia a fare una lista di tutto quello che vorrebbe fare in questi giorni speciali in città. Harriet è invece silenziosa, combattuta tra la voglia di rivedere papà e la paura di stare lontano da mamma.

Arriviamo a Gran Central all’ora di punta, e mentre attraversiamo il grande atrio alla ricerca dell’uscita giusta per montare su un taxi, l’incoscienza mi abbandona: d’un tratto è come se mi vedessi dall'alto  mentre tiro un trolley e tengo per mano due bambine di 5 e 9 anni, noi tre a formare una piccola carovana colorata persa nella pancia di una città che non conosco. Un brivido mi attraversa la schiena, nonostante mi renda conto che è una cosa semplice quella che mi è stata chiesta, perfettamente calibrata sulle mie possibilità. E infatti non ho problemi a fermare un taxi, caricare bagagli e passeggeri e indicare l’indirizzo corretto al tassista.  

Dal taxi telefono a Steve, e quando raggiungiamo l’albergo lui è già sulla soglia ad aspettarci. La bambine gli saltano al collo mentre io scarico la valigia, poi mi ringrazia e ci diamo appuntamento per la domenica.  

Mentre cammino veloce verso la metropolitana mi sento leggera: sarà che sono ufficialmente in vacanza penso, e per cinque lunghi giorni non dovrò prendermi cura delle bambine… Ma è una leggerezza strana questa, che non mi fa rilassare, come quando hai la sensazione di aver dimenticato qualcosa da qualche parte: forse non sono leggera, forse ho solo un grande vuoto dentro. Ho lasciato Lyla e Harriet da cinque minuti, e già mi mancano.

Io che ogni lunedì avevo bisogno di essere rassicurata al telefono da mia madre, per sentirmi ripetere che sarei sopravvissuta a un’altra settimana, io che temevo quotidianamente di non farcela, io che facevo i capricci perché non tutti i giorni erano come il sabato che passavo a perdermi tra le street di Manhattan  io ero in grado di prendermi cura di un altro essere umano. Anzi, di due.

Le cose, dopo quel viaggio in treno, non sarebbero mai più state le stesse: partivo figlia, sorella maggiore di due bambine al seguito, e tornavo madre, o quasi.
Non sono mai cresciuta tanto in un pomeriggio solo.

Sunday, 11 November 2012

Vernissage

“Alla galleria d’arte dove lavora Marco inaugurano una mostra domani sera, potremmo fare un salto…” mi dice Valentina, mentre scola la pasta. “Volentieri” rispondo io con genuino entusiasmo, mentre cerco un buco per infilare la mia spesa. Siamo nella cucina che da due giorni è anche la mia cucina. Una cucina piena di pensili pieni di confezioni piene di cibo. Provviste per eserciti per mesi d’assedio. O uno degli schemi infernali degli ultimi livelli di Tetris.

Valentina e Marco sono due dei miei nuovi coinquilini. In tutto siamo in cinque, in questo “villino cielo terra” come diceva l’annuncio su Porta Portese, recentemente ristrutturato, trasformato in studentato e sottratto agli studenti assegnatari dopo un paio d’anni di feste alla Animal House, che hanno messo a repentaglio non solo la sicurezza degli occupanti ma soprattutto la struttura della casa. Ora l’affitto lo paghiamo noi, trentenni lavoratori dalle belle speranze. 
Cinque vite che si annusano in questa grande cucina, e si nascondono dietro alle porte delle camere da letto.  

Casa nuova quindi, e coinquilini nuovissimi. Non è la mia prima volta: dopo sei spostamenti negli ultimi otto anni dovrei esserci abituata eppure… C’è sempre il brivido della scoperta. Potrebbe andare benissimo, o diametralmente male. Ma sono un’ottimista cronica e poi, come dice mia mamma “non ho sposato nessuno” quindi tanto vale provarci.

Sono a Roma da un paio di mesi, ho riallacciato i contatti con un gruppetto di amici fidati di base qui, ma gente nuova  non l'ho ancora conosciuta. Mi sono trasferita per lavoro, incuriosita da come le coincidenze si fossero allineate per facilitarmi la transizione da Milano nel giro di tre settimane, e da Roma, che finora non ha deluso le aspettative. Però il sabato sera a volte lo passo da sola. E non mi piace. Per questo ho puntato sul Pigneto: perché sarà scontato, ma è il quartiere dove sembra che tutto sia sul punto di accadere. E per questo ho scelto una casa grande, con un giardino pensato apposta per la grigliate estive, e tanti coinquilini. Per moltiplicare le occasioni di contatto umano.

Arriva la sera dell’inaugurazione della mostra: esco dall’ufficio dove ho passato 9 ore in compagnia di un mal di testa martellante e mi dirigo verso via Giulia guidata da un pezzo di carta su cui ho ricopiato minuziosamente la porzione di città suggerita da Google Maps. 
Devo smettere di convincere me stessa dell’inutilità di uno smartphone.

Valentina è in ritardo, ma mi sono accertata, tempestandolo di sms, di trovare Marco il quale, appena mi avvicino all’ingresso, mi viene incontro, mi saluta con trasporto e fa gli onori di casa mettendomi in mano un bicchiere e riempiendolo di prosecco, mentre mi presenta a alcuni suoi amici tutti incamiciati. La parola vernissage mi scoppia in testa, seguita dall’aggettivo inadeguata riferito a me, con i capelli non proprio freschi e un brufolo sul mento che il correttore non riesce a mascherare. “Devo fare bella impressione”, è il mio mantra. “questa gente non mi conosce. Non ancora, almeno”.  

Guadagno del tempo infilandomi in galleria per vedere le opere in mostra. Mi piacciono. Non saprei dire da che corrente prendano ispirazione, o come venga espresso il fil rouge de “La città meccanica” che da’ il titolo, ma sono tutti quadri che appenderei volentieri a casa. Mi piacciono i colori.
Quando mi affaccio di nuovo in strada, trovo Matteo, il coinquilino numero quattro. Ci eravamo incrociati dodici ore prima in pigiama a aspettare che la caffettiera si mettesse a gorgogliare e quasi non lo riconoscevo nel trench avvitato che fa eco ai suoi tre anni passati a Londra. Mentre ci lanciamo in un’accalorata discussione su quale sia la capitale europea più vivibile e perché Roma non può rientrare nella lista (argomento su cui sono ferratissima), ci raggiunge anche Valentina che esordisce con “madò, mentre cercavo parcheggio vi sono passata davanti con il lato della macchina tutto ammaccato!”. 
A quanto pare, non sono l’unica che ha paura di sentirsi fuori posto.

Dopo il terzo giro di prosecco e sigaretta, Marco saluta l’artista, chiude la galleria e ci chiede se vogliamo andare a cena con lui e alcuni suoi colleghi. Non che avessimo altri programmi. Non io, almeno.

E così senza quasi rendermene conto sono seduta a un tavolo con otto persone e tra queste quella con cui ho passato più tempo la conosco da due giorni. Di nuovo si riaffaccia il brivido della scoperta.
Il mattatore della serata è senza dubbio Antonello, un collega di Matteo che ha fatto della simpatia forzata il suo marchio di fabbrica. È un atteggiamento abbastanza fastidioso il suo, ma che in questa particolare situazione si rivela provvidenziale: la sua loquacità infatti non lascia spazio all’imbarazzo proprio dei momenti di silenzio che si creano tra persone che non si conoscono bene.

L’argomento che ci accomuna è la casa, chiamata Fortebreaccio dal nome della via in cui si trova, e da tutti i presenti frequentata in tempi non sospetti. “Se quelle mura potessero parlare…” ci lancia l’assist Antonello e noi lo interroghiamo sulle feste epiche da lui organizzate e subite, e il racconto si invischia nella nostalgia di aver visto cose che noi umani possiamo soltanto immaginare…

E poi, proprio mentre la serata sta scemando e io comincio a pensare che non è andata poi così male, vengo assalita dalla nausea. Il segnale che mi lancia il mio corpo non potrebbe essere più chiaro: devo vomitare, e il solo pensiero mi paralizza.
Mi chiudo in bagno, mi infilo due dita in gola, ma senza successo. Esco ripetutamente a prendere boccate d’aria che però danno un sollievo solo momentaneo. È una cosa su cui non posso esercitare nessun controllo. È il corpo, con i suoi bisogni primordiali, che non rispondono nemmeno alla volontà più ferrea.

Se fossi stata con i miei amici, avrei espresso il mio disagio, dichiarato che la mia serata finiva lì e sarei andata mestamente a casa a finire il lavoro. Ma lì, con loro, come potevo fare? Cosa avrebbero pensato di me? Che mi ero sbronzata come un’adolescente? Che non fumo mai, quindi un paio di sigarette mi avevano fatto stare male? Forse era stata proprio l’ansia da prestazione a portarmi alla nausea.

A questo pensavo, mentre cercavo di non ascoltare i crampi allo stomaco e mi dirigevo con Marco, Vale e Matteo verso la macchina. Facevo la conta dei minuti che mi sparavano dall’intimità del mio bagno, e pensavo che potevo farcela a trattenermi, quando ho sentito lo stomaco strizzarsi nuovamente.  

E così la nostra prima uscita insieme sarà ricordata come la serata in cui ho preso Valentina per un braccio e con tono gioviale le ha detto: “andate pure, io vi raggiungo, dopo aver trovato un angolo dove vomitare.” Così, testuali parole. Lei ci ha messo un attimo a registrare l’informazione, poi mi ha seguito premurosa sfoderando un pacchetto di fazzoletti.

Un modo abbastanza anticonvenzionale di rompere il ghiaccio, lo riconosco, ma sicuramente efficace.
Dopo questo, come farò a sentirmi nuovamente in imbarazzo in loro presenza?  

Fortebraccio si prepara a rinverdire i fasti passati. 

Sunday, 30 September 2012

AmoRomA


Settimana scorsa passeggiavo per Trastevere a cartina spiegata.

Sapevo di aver percorso quelle stesse strade mezza vita prima, e i vaghi ricordi fra cui pescavo si concentravano intorno alla piazza con la fontana e la chiesa con i mosaici sulla facciata.
 
Sapevo anche che, grazie all'iconografia cinematografica che spesso cambia la nostra percezione dei luoghi, Trastevere è la Roma che chi vola fin qui dall'altro lato del globo vuole trovarsi davanti agli obiettivi. 
La zona di Trastevere è talmente bella che non c’è bisogno nemmeno di usare Instagram per fotografarla.

Ci sono i panni stesi ad asciugare fuori dalle finestre (panni che sospetto strategicamente posizionati) e ieri (come forse tutti i giorni) c’erano quattro signore sedute in un vicolo a prendere il fresco sotto a un pergolato e da navigate comparse facevano finta di ignorare le dozzine di fotografie che cercavano di rubar loro l’anima verace. 

Trovata la piazza di Santa Maria in Trastevere, ho messo via la cartina e ho deciso che potevo permettermi di perdermi un po’. Gironzolavo macchina fotografica alla mano, alla ricerca di scorci suggestivi (e non c’è da impegnarsi molto) quando vengo fermata da una coppia di vitaminici americani; mi prendono per una local 
– moto d’orgoglio mio automatico, subito ridimensionato dell’accorgermi che la scelta loro era dettata dal fatto che fossi l’unica lì intorno senza la Lonely Planet sottobraccio – 
e mi chiedono se conosco un bar che si trova nelle vicinanze e che è famoso per servire più di 20 birre. Fingo di pensarci, poi confesso che sono a Roma solo da tre settimane ed è la prima volta che mi avventuro a Trastevere. La ragazza spalanca gli occhioni appesantiti da quello che è decisamente troppo mascara per un aperitivo a base di birra e ripete le mie stesse parole, ma con intonazione interrogativa:  “Tre settimane ed è la prima volta qui?” “Sì” rispondo, e ci attacco lo spiegone di come “Roma è una città grande, la gente fa tanta vita di quartiere…”, una mini lezione di sociologia interrotta del mio interlocutore che, recidivo, riprova a estorcermi l’informazione del bar con le 20 birre. Spero che il bar abbia trovato loro.  

E’ colpa dei film. A Roma si gira in Vespa accompagnati da un uomo affascinante che offre sempre da bere, come la Hepburn in “Vacanze Romane”, si fa il bagno di notte nella fontana di Trevi per sedurre un altro italiano affascinante, come la Ekberg in “La dolce vita” e si affitta una stanza senza acqua calda da un’anziana signora cattolica ostile al divorzio, come la Roberts di “Eat, pray, love”.

Questi film hanno fatto sognare anche me, che sono una grande sostenitrice del mangiar bene e del ritagliarsi periodi sabbatici per vivere in un contesto nuovo, ma purtroppo alcuni dettagli sfiorano la fantascienza: a Roma in Vespa si rischia la vita, gli uomini hanno il portafogli blindato, se tocchi l’acqua della fontana di Trevi ti arrestano e l’insegnante di italiano di Julia Roberts è Luca Argentero, non dimenticatelo.   

Mi fanno un po’ tenerezza i turisti di oltreoceano che pensano alle parigine come ad  Amélie Poulain, ciliegina sulla torta dei deliziosi bistrot di Montmartre, e ai romani come ad Albertone Sordi provocato dai maccheroni che arrivano dritti dritti dalle cucine delle osterie. 
Mi sarò macchiata anch'io dello stesso crimine dello stereotipo impietoso, come pensare che i thailandesi siano una popolazione pacifica perché sorridono sempre, ma almeno fra europei ci teniamo d’occhio più da vicino e ci insultiamo in piena coscienza.

Io non conosco Roma. Non la conoscevo prima di trasferirmi qui e non la conosco ora, dopo un mese di approcci misurati. Ho imparato come arrivare in ufficio e come tornare a casa. So dove andare a fare la spesa e grazie a Chiara, premurosa coinquilina, mi muovo a Monte Sacro. Ma poco altro: per me Roma è ancora un magma indefinito di monumenti e persone che qui ho ritrovato; ci vorrà del tempo prima di compilare la mia personale lista di ristoranti, negozi, locali, parchi, posti per gite fuori porta, eventi… 

So con chi mi devo misurare questa volta, e soffro una forma acuta di timore reverenziale: Roma è una città intrigante, come quelle donne bellissime e irraggiungibili di cui ti innamori follemente e per cui pensi valga la pena struggersi. Spero solo che questa volta il mio amore incondizionato sarà ricambiato.