“Alla galleria d’arte dove
lavora Marco inaugurano una mostra domani sera, potremmo fare un salto…” mi
dice Valentina, mentre scola la pasta. “Volentieri” rispondo io con genuino
entusiasmo, mentre cerco un buco per infilare la mia spesa. Siamo nella cucina
che da due giorni è anche la mia cucina. Una cucina piena di pensili pieni di confezioni
piene di cibo. Provviste per eserciti per mesi d’assedio. O uno degli schemi infernali
degli ultimi livelli di Tetris.
Valentina e Marco sono due dei
miei nuovi coinquilini. In tutto siamo in cinque, in questo “villino cielo
terra” come diceva l’annuncio su Porta Portese, recentemente ristrutturato, trasformato
in studentato e sottratto agli studenti assegnatari dopo un paio d’anni di
feste alla Animal House, che hanno messo a repentaglio non solo la sicurezza
degli occupanti ma soprattutto la struttura della casa. Ora l’affitto lo
paghiamo noi, trentenni lavoratori dalle belle speranze.
Cinque vite che si annusano
in questa grande cucina, e si nascondono dietro alle porte delle camere da
letto.
Casa nuova quindi, e coinquilini
nuovissimi. Non è la mia prima volta: dopo sei spostamenti negli ultimi otto
anni dovrei esserci abituata eppure… C’è sempre il brivido della scoperta. Potrebbe
andare benissimo, o diametralmente male. Ma sono un’ottimista cronica e poi,
come dice mia mamma “non ho sposato nessuno” quindi tanto vale provarci.
Sono a Roma da un paio di mesi, ho riallacciato i contatti con un gruppetto di amici fidati di base qui, ma gente nuova non l'ho ancora conosciuta. Mi sono trasferita per lavoro, incuriosita da come le
coincidenze si fossero allineate per facilitarmi la transizione da Milano nel
giro di tre settimane, e da Roma, che finora non ha deluso le aspettative. Però
il sabato sera a volte lo passo da sola. E non mi piace. Per questo ho puntato sul Pigneto:
perché sarà scontato, ma è il quartiere dove sembra che tutto sia sul punto di accadere.
E per questo ho scelto una casa grande, con un giardino pensato apposta per la
grigliate estive, e tanti coinquilini. Per moltiplicare le occasioni di
contatto umano.
Arriva la sera dell’inaugurazione
della mostra: esco dall’ufficio dove ho passato 9 ore in compagnia di un mal di
testa martellante e mi dirigo verso via Giulia guidata da un pezzo di carta su
cui ho ricopiato minuziosamente la porzione di città suggerita da Google Maps.
Devo
smettere di convincere me stessa dell’inutilità di uno smartphone.
Valentina è in ritardo, ma mi
sono accertata, tempestandolo di sms, di trovare Marco il quale, appena mi
avvicino all’ingresso, mi viene incontro, mi saluta con trasporto e fa gli
onori di casa mettendomi in mano un bicchiere e riempiendolo di prosecco,
mentre mi presenta a alcuni suoi amici tutti incamiciati. La parola vernissage
mi scoppia in testa, seguita dall’aggettivo inadeguata riferito a me, con i
capelli non proprio freschi e un brufolo sul mento che il correttore non riesce
a mascherare. “Devo fare bella impressione”,
è il mio mantra. “questa gente non mi conosce. Non ancora, almeno”.
Guadagno del tempo infilandomi
in galleria per vedere le opere in mostra. Mi piacciono. Non saprei dire da che
corrente prendano ispirazione, o come venga espresso il fil rouge de “La città meccanica” che da’ il titolo, ma sono tutti
quadri che appenderei volentieri a casa. Mi piacciono i colori.
Quando mi affaccio di nuovo in
strada, trovo Matteo, il coinquilino numero quattro. Ci eravamo incrociati
dodici ore prima in pigiama a aspettare che la caffettiera si mettesse a gorgogliare
e quasi non lo riconoscevo nel trench avvitato che fa eco ai suoi tre anni
passati a Londra. Mentre ci lanciamo in un’accalorata discussione su quale sia
la capitale europea più vivibile e perché Roma non può rientrare nella lista
(argomento su cui sono ferratissima), ci raggiunge anche Valentina che
esordisce con “madò, mentre cercavo parcheggio vi sono passata davanti con il
lato della macchina tutto ammaccato!”.
A quanto pare, non sono l’unica che ha
paura di sentirsi fuori posto.
Dopo il terzo giro di prosecco
e sigaretta, Marco saluta l’artista, chiude la galleria e ci chiede se vogliamo
andare a cena con lui e alcuni suoi colleghi. Non che avessimo altri programmi.
Non io, almeno.
E così senza quasi rendermene
conto sono seduta a un tavolo con otto persone e tra queste quella con cui ho
passato più tempo la conosco da due giorni. Di nuovo si riaffaccia il brivido
della scoperta.
Il mattatore della serata è senza
dubbio Antonello, un collega di Matteo che ha fatto della simpatia forzata il
suo marchio di fabbrica. È un atteggiamento abbastanza fastidioso il suo, ma che
in questa particolare situazione si rivela provvidenziale: la sua loquacità infatti
non lascia spazio all’imbarazzo proprio dei momenti di silenzio che si creano
tra persone che non si conoscono bene.
L’argomento che ci accomuna è
la casa, chiamata Fortebreaccio dal nome della via in cui si trova, e da tutti
i presenti frequentata in tempi non sospetti. “Se quelle mura potessero parlare…”
ci lancia l’assist Antonello e noi lo interroghiamo sulle feste epiche da lui
organizzate e subite, e il racconto si invischia nella nostalgia di aver visto
cose che noi umani possiamo soltanto immaginare…
E poi, proprio mentre la
serata sta scemando e io comincio a pensare che non è andata poi così male,
vengo assalita dalla nausea. Il segnale che mi lancia il mio corpo non potrebbe
essere più chiaro: devo vomitare, e il solo pensiero mi paralizza.
Mi chiudo in bagno, mi infilo
due dita in gola, ma senza successo. Esco ripetutamente a prendere boccate d’aria
che però danno un sollievo solo momentaneo. È una cosa su cui non posso
esercitare nessun controllo. È il corpo, con i suoi bisogni primordiali, che
non rispondono nemmeno alla volontà più ferrea.
Se fossi stata con i miei
amici, avrei espresso il mio disagio, dichiarato che la mia serata finiva lì e
sarei andata mestamente a casa a finire il lavoro. Ma lì, con loro, come potevo
fare? Cosa avrebbero pensato di me? Che mi ero sbronzata come un’adolescente?
Che non fumo mai, quindi un paio di sigarette mi avevano fatto stare male? Forse
era stata proprio l’ansia da prestazione a portarmi alla nausea.
A questo pensavo, mentre
cercavo di non ascoltare i crampi allo stomaco e mi dirigevo con Marco, Vale e
Matteo verso la macchina. Facevo la conta dei minuti che mi sparavano dall’intimità
del mio bagno, e pensavo che potevo farcela a trattenermi, quando ho sentito lo
stomaco strizzarsi nuovamente.
E così la nostra prima uscita
insieme sarà ricordata come la serata in cui ho preso Valentina per un braccio
e con tono gioviale le ha detto: “andate pure, io vi raggiungo, dopo aver
trovato un angolo dove vomitare.” Così, testuali parole. Lei ci ha messo un
attimo a registrare l’informazione, poi mi ha seguito premurosa sfoderando un
pacchetto di fazzoletti.
Un modo abbastanza anticonvenzionale
di rompere il ghiaccio, lo riconosco, ma sicuramente efficace.
Dopo questo, come farò a
sentirmi nuovamente in imbarazzo in loro presenza?
Fortebraccio si prepara a rinverdire
i fasti passati.
No comments:
Post a Comment