Sunday 11 November 2012

Vernissage

“Alla galleria d’arte dove lavora Marco inaugurano una mostra domani sera, potremmo fare un salto…” mi dice Valentina, mentre scola la pasta. “Volentieri” rispondo io con genuino entusiasmo, mentre cerco un buco per infilare la mia spesa. Siamo nella cucina che da due giorni è anche la mia cucina. Una cucina piena di pensili pieni di confezioni piene di cibo. Provviste per eserciti per mesi d’assedio. O uno degli schemi infernali degli ultimi livelli di Tetris.

Valentina e Marco sono due dei miei nuovi coinquilini. In tutto siamo in cinque, in questo “villino cielo terra” come diceva l’annuncio su Porta Portese, recentemente ristrutturato, trasformato in studentato e sottratto agli studenti assegnatari dopo un paio d’anni di feste alla Animal House, che hanno messo a repentaglio non solo la sicurezza degli occupanti ma soprattutto la struttura della casa. Ora l’affitto lo paghiamo noi, trentenni lavoratori dalle belle speranze. 
Cinque vite che si annusano in questa grande cucina, e si nascondono dietro alle porte delle camere da letto.  

Casa nuova quindi, e coinquilini nuovissimi. Non è la mia prima volta: dopo sei spostamenti negli ultimi otto anni dovrei esserci abituata eppure… C’è sempre il brivido della scoperta. Potrebbe andare benissimo, o diametralmente male. Ma sono un’ottimista cronica e poi, come dice mia mamma “non ho sposato nessuno” quindi tanto vale provarci.

Sono a Roma da un paio di mesi, ho riallacciato i contatti con un gruppetto di amici fidati di base qui, ma gente nuova  non l'ho ancora conosciuta. Mi sono trasferita per lavoro, incuriosita da come le coincidenze si fossero allineate per facilitarmi la transizione da Milano nel giro di tre settimane, e da Roma, che finora non ha deluso le aspettative. Però il sabato sera a volte lo passo da sola. E non mi piace. Per questo ho puntato sul Pigneto: perché sarà scontato, ma è il quartiere dove sembra che tutto sia sul punto di accadere. E per questo ho scelto una casa grande, con un giardino pensato apposta per la grigliate estive, e tanti coinquilini. Per moltiplicare le occasioni di contatto umano.

Arriva la sera dell’inaugurazione della mostra: esco dall’ufficio dove ho passato 9 ore in compagnia di un mal di testa martellante e mi dirigo verso via Giulia guidata da un pezzo di carta su cui ho ricopiato minuziosamente la porzione di città suggerita da Google Maps. 
Devo smettere di convincere me stessa dell’inutilità di uno smartphone.

Valentina è in ritardo, ma mi sono accertata, tempestandolo di sms, di trovare Marco il quale, appena mi avvicino all’ingresso, mi viene incontro, mi saluta con trasporto e fa gli onori di casa mettendomi in mano un bicchiere e riempiendolo di prosecco, mentre mi presenta a alcuni suoi amici tutti incamiciati. La parola vernissage mi scoppia in testa, seguita dall’aggettivo inadeguata riferito a me, con i capelli non proprio freschi e un brufolo sul mento che il correttore non riesce a mascherare. “Devo fare bella impressione”, è il mio mantra. “questa gente non mi conosce. Non ancora, almeno”.  

Guadagno del tempo infilandomi in galleria per vedere le opere in mostra. Mi piacciono. Non saprei dire da che corrente prendano ispirazione, o come venga espresso il fil rouge de “La città meccanica” che da’ il titolo, ma sono tutti quadri che appenderei volentieri a casa. Mi piacciono i colori.
Quando mi affaccio di nuovo in strada, trovo Matteo, il coinquilino numero quattro. Ci eravamo incrociati dodici ore prima in pigiama a aspettare che la caffettiera si mettesse a gorgogliare e quasi non lo riconoscevo nel trench avvitato che fa eco ai suoi tre anni passati a Londra. Mentre ci lanciamo in un’accalorata discussione su quale sia la capitale europea più vivibile e perché Roma non può rientrare nella lista (argomento su cui sono ferratissima), ci raggiunge anche Valentina che esordisce con “madò, mentre cercavo parcheggio vi sono passata davanti con il lato della macchina tutto ammaccato!”. 
A quanto pare, non sono l’unica che ha paura di sentirsi fuori posto.

Dopo il terzo giro di prosecco e sigaretta, Marco saluta l’artista, chiude la galleria e ci chiede se vogliamo andare a cena con lui e alcuni suoi colleghi. Non che avessimo altri programmi. Non io, almeno.

E così senza quasi rendermene conto sono seduta a un tavolo con otto persone e tra queste quella con cui ho passato più tempo la conosco da due giorni. Di nuovo si riaffaccia il brivido della scoperta.
Il mattatore della serata è senza dubbio Antonello, un collega di Matteo che ha fatto della simpatia forzata il suo marchio di fabbrica. È un atteggiamento abbastanza fastidioso il suo, ma che in questa particolare situazione si rivela provvidenziale: la sua loquacità infatti non lascia spazio all’imbarazzo proprio dei momenti di silenzio che si creano tra persone che non si conoscono bene.

L’argomento che ci accomuna è la casa, chiamata Fortebreaccio dal nome della via in cui si trova, e da tutti i presenti frequentata in tempi non sospetti. “Se quelle mura potessero parlare…” ci lancia l’assist Antonello e noi lo interroghiamo sulle feste epiche da lui organizzate e subite, e il racconto si invischia nella nostalgia di aver visto cose che noi umani possiamo soltanto immaginare…

E poi, proprio mentre la serata sta scemando e io comincio a pensare che non è andata poi così male, vengo assalita dalla nausea. Il segnale che mi lancia il mio corpo non potrebbe essere più chiaro: devo vomitare, e il solo pensiero mi paralizza.
Mi chiudo in bagno, mi infilo due dita in gola, ma senza successo. Esco ripetutamente a prendere boccate d’aria che però danno un sollievo solo momentaneo. È una cosa su cui non posso esercitare nessun controllo. È il corpo, con i suoi bisogni primordiali, che non rispondono nemmeno alla volontà più ferrea.

Se fossi stata con i miei amici, avrei espresso il mio disagio, dichiarato che la mia serata finiva lì e sarei andata mestamente a casa a finire il lavoro. Ma lì, con loro, come potevo fare? Cosa avrebbero pensato di me? Che mi ero sbronzata come un’adolescente? Che non fumo mai, quindi un paio di sigarette mi avevano fatto stare male? Forse era stata proprio l’ansia da prestazione a portarmi alla nausea.

A questo pensavo, mentre cercavo di non ascoltare i crampi allo stomaco e mi dirigevo con Marco, Vale e Matteo verso la macchina. Facevo la conta dei minuti che mi sparavano dall’intimità del mio bagno, e pensavo che potevo farcela a trattenermi, quando ho sentito lo stomaco strizzarsi nuovamente.  

E così la nostra prima uscita insieme sarà ricordata come la serata in cui ho preso Valentina per un braccio e con tono gioviale le ha detto: “andate pure, io vi raggiungo, dopo aver trovato un angolo dove vomitare.” Così, testuali parole. Lei ci ha messo un attimo a registrare l’informazione, poi mi ha seguito premurosa sfoderando un pacchetto di fazzoletti.

Un modo abbastanza anticonvenzionale di rompere il ghiaccio, lo riconosco, ma sicuramente efficace.
Dopo questo, come farò a sentirmi nuovamente in imbarazzo in loro presenza?  

Fortebraccio si prepara a rinverdire i fasti passati. 

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