Wednesday 28 November 2012

Grand Central, novembre 2006


L’unica cosa che mi da’ la forza di uscire dal piumone in questa gelida mattina di novembre è il pensiero che da domani potrò dimenticarmi di puntare la sveglia. Se mi alzo e inizio questa giornata, ogni minuto che passa sarò più vicina a un’intera settimana di tregua da questo tour de force.

Sono stata ripresa da Melissa perché negli ultimi giorni il nostro rituale mattutino si è consumato in tempi un po’ stretti, costringendo le bambine a fare colazione di corsa e rischiando di arrivare tardi a scuola.

In realtà la sveglia suona sempre alla stessa ora, ma ultimamente gli incidenti di percorso si sono moltiplicati; ieri mattina ad esempio, quando minacciava neve, Harriet voleva uscire di casa in maniche corte e c’è voluto un quarto d’ora di trattative per convincerla che portarsi un maglione non era poi un’ idea tanto malvagia.

A me fino alla quinta elementare come mi vestivo lo decideva mia mamma, e infatti sfoggiavo dei colletti con il pizzo da fare invidia al piccolo lord Fauntleroy. A me fino a quando non ho raggiunto mia mamma in altezza, se facevo i capricci arrivavano anche un paio di sculaccioni ben assestati, a risolvere il contenzioso.

Ma questi bambini americani sono organismi più complessi, versioni in miniatura dei loro genitori, nevrosi e idiosincrasie comprese: e così, mentre l’istinto mi urlava di infilare la testa e le braccia di Harriet dentro un maglione, senza grosse giustificazioni, lo sguardo della sua mamma affacciata sulla soglia mi obbligava a fingere di ignorare il tono polemico e continuare l’opera di diplomazia. Infruttuosa. “Tu non puoi dirmi cosa devo fare!” mi ha urlato a un certo punto Harriet, con un’aria di sfida che io non ho sfoggiato  nemmeno negli anni della contestazione adolescenziale. E se dice queste cose adesso che ha cinque anni, non oso immaginare che slogan farà suoi quando l’adolescenza arriverà davvero.

L’aria è elettrica in questi giorni: sono tutte e tre nervose, mamma e figlie, perché stasera arriva Steve, il papà di Lyla e Harriet, a prendersi la sua fetta semestrale di affetto filiale.
Dell’ex marito so solo che se n’è tornato in Inghilterra a inventarsi una nuova famiglia proprio nell’autunno del 2001 in un momento drammatico sia per New York che per Melissa, che aveva recentemente perso la madre poche settimane dopo aver avuto la seconda figlia. Sono poche informazioni, ma sicuramente non rappresentano un buon biglietto da visita.
Un paio di settimane all'anno Steve, invece che essere una voce dal forte accento di Manchester che telefona il giovedì per salutare, si materializza e porta le figlie in vacanza con lui.  

Sono genitori part-time, questi WASP che hanno studiato e continuano a lavorare nella grande mela, ma che si sono spostati dal bilocale alla villetta a nord della città per permettere alla prole e a un cane di scorrazzare felici in giardino. Troppo impegnati a guadagnare soldi per pagare l’au pair da sfoggiare alla cena di Thanksgiving per dedicarsi a passatempi quali svegliare o mettere a letto i propri figli.
E sono genitori full time le au pair europee e le bambinaie sudamericane che si incontrano al parco giochi il pomeriggio, alla guida di passeggini superaccessoriati.

All'ora in cui Melissa scende in cucina per la dose quotidiana di caffè e New York Times io rientro a casa dopo aver svegliato, vestito, pettinato, sfamato e accompagnato a scuola le sue figlie. All'ora in cui lei rientra per cena, io ho già rifatto l’intero processo al contrario.

Vivo con una mamma single, e non la invidio: dal lunedì al venerdì è tappata in ufficio, mentre il fine settimana viene travolta da un turbine di attività pianificate in modo che le figlie non si annoino mai.
Chissà cosa farà questo fine settimana, quando loro saranno con il padre… l’uomo che prima l’abbandona e torna solo per portarsi via le sue figlie;  l’uomo cui lei ha impedito di presentarsi a casa, perché sa che non riuscirebbe a nascondere il dolore e la rabbia del distacco di fronte a Lyla e Harriet.
Ha deciso che è meglio fare tutto in sordina, e ha quindi chiesto a me di accompagnare le bambine in città, dove il padre ha preso una stanza in albergo.

Nel pomeriggio preparo la valigia: Melissa vorrebbe darmi delle indicazioni, ma non riesce a concentrarsi. Sono tre giorni ormai che è in stato catatonico: è gelosa che le bambine vogliano passare del tempo con Steve, e allo stesso tempo desidera che si trovino bene con lui anche questa volta, e che non sentano troppo la sua mancanza. Ci accompagna in stazione, e riesce pure a sorridere quando il treno lascia la banchina e noi la salutiamo dal finestrino. Che donna: da grande voglio essere come lei. Magari con un pizzico di fortuna in più.

Sul treno Lyla è euforica: mi racconta delle ultime vacanze con il padre -d’estate in una casa in Toscana con una mega piscina, circondata da uno stuolo di fratelli e sorelle acquisiti- e comincia a fare una lista di tutto quello che vorrebbe fare in questi giorni speciali in città. Harriet è invece silenziosa, combattuta tra la voglia di rivedere papà e la paura di stare lontano da mamma.

Arriviamo a Gran Central all’ora di punta, e mentre attraversiamo il grande atrio alla ricerca dell’uscita giusta per montare su un taxi, l’incoscienza mi abbandona: d’un tratto è come se mi vedessi dall'alto  mentre tiro un trolley e tengo per mano due bambine di 5 e 9 anni, noi tre a formare una piccola carovana colorata persa nella pancia di una città che non conosco. Un brivido mi attraversa la schiena, nonostante mi renda conto che è una cosa semplice quella che mi è stata chiesta, perfettamente calibrata sulle mie possibilità. E infatti non ho problemi a fermare un taxi, caricare bagagli e passeggeri e indicare l’indirizzo corretto al tassista.  

Dal taxi telefono a Steve, e quando raggiungiamo l’albergo lui è già sulla soglia ad aspettarci. La bambine gli saltano al collo mentre io scarico la valigia, poi mi ringrazia e ci diamo appuntamento per la domenica.  

Mentre cammino veloce verso la metropolitana mi sento leggera: sarà che sono ufficialmente in vacanza penso, e per cinque lunghi giorni non dovrò prendermi cura delle bambine… Ma è una leggerezza strana questa, che non mi fa rilassare, come quando hai la sensazione di aver dimenticato qualcosa da qualche parte: forse non sono leggera, forse ho solo un grande vuoto dentro. Ho lasciato Lyla e Harriet da cinque minuti, e già mi mancano.

Io che ogni lunedì avevo bisogno di essere rassicurata al telefono da mia madre, per sentirmi ripetere che sarei sopravvissuta a un’altra settimana, io che temevo quotidianamente di non farcela, io che facevo i capricci perché non tutti i giorni erano come il sabato che passavo a perdermi tra le street di Manhattan  io ero in grado di prendermi cura di un altro essere umano. Anzi, di due.

Le cose, dopo quel viaggio in treno, non sarebbero mai più state le stesse: partivo figlia, sorella maggiore di due bambine al seguito, e tornavo madre, o quasi.
Non sono mai cresciuta tanto in un pomeriggio solo.

No comments:

Post a Comment