Wednesday 5 December 2012

Claudia, mia sorella

Sto facendo un corso di scrittura. Lo sanno anche i soprammobili di casa mia. D'altronde, ho trovato casa al Pigneto e non posso non avere velleità artistiche, pena lo sfratto.
Pubblico qui tutti i miei compiti a casa, perché sono una che non butta via niente, e così mento a me stessa sul fatto che sto trascurando il blog.

L'esercizio di questa settimane era immaginare il discorso che qualcuno avrebbe fatto al nostro funerale, e io che sono autoreferenziale a priori mi ci sono trovata a mio agio. Ho messo queste parole in bocca a mia sorella, conscia del fatto che in realtà lei sarebbe molto più spietata. Enjoy it!


Claudia ci ha messo una vita a imparare a stare da sola con se stessa senza annoiarsi. Nessuno l’ha potuta accompagnare in quest’ultimo viaggio, e sono sicura che sentirà molto più lei la nostra mancanza che non noi la sua.

Non so quale Claudia vi resterà attaccata alla memoria… Essere sorelle ha significato condurre due esistenze parallele, almeno fino agli anni del liceo: l’anno e mezzo che separa le nostre nascite era troppo breve per separare anche le nostre esperienze. E così, crescendo, di Claudie ne ho conosciute tante, e resterò in compagnia di ognuna di loro.

Mia sorella era un organismo mutevole, ma in ogni sua mutazione rimaneva ancorata ad alcuni punti fissi.

Aveva un profondo senso di giustizia, e da quando si era tatuata un simbolo buddhista su un piede affermava di credere nel karma, che chiamava così per svecchiare l’immaginario cattolico sbandierato da nostra madre. Ma se la ricompensa non arrivava immediatamente, non ci credeva più: se dopo un’ingiustizia subita gli eventi non rientravano in carreggiata, soffriva di un istantaneo calo d’entusiasmo. Era totalmente sprovvista di pazienza, per lei era tutto e subito.
Claudia non aveva mai pensato alla morte, perché la morte non l’aveva mai sfiorata, eppure si sentiva morire ogni volta che le cose non andavano secondo i suoi piani. Fortunatamente, non ne faceva un dramma. Lo sconforto offuscava la sua costante euforia con la stessa rapidità di una nuvola che per un attimo oscura il sole.

Tra i quattro stereotipi alla Sex and the City in cui tutti abbiamo provato a riconoscerci, Claudia, anche se giocava a fare Carrie, era 100% Charlotte, l’inguaribile ottimista. La sua amica Laura, che apprezzava il cinismo di Miranda, dopo un paio di settimane di frequentazione in università l’aveva ribattezzata Pollyanna-di-merda. Mai soprannome fu più azzeccato.

Claudia era empatia pura, e il suo umore la cartina al tornasole dello stato d’animo delle persone a cui era più legata. Era l’unica donna che conoscevo totalmente priva di mistero: era come un fascio di nervi esposto, che rispondeva a qualsiasi stimolo senza potersi controllare.
Azione e reazione, conditi dall’occasionale pentimento.
Ricordo che alle medie, la professoressa di lettere aveva fatto un test a tutta la classe: ogni studente doveva immaginare un deserto e posizionarvi un cubo, una scala, un albero e un cavallo. Questi oggetti simbolici rappresentavano concetti più ampi: il cubo ad esempio era la proiezione della propria personalità e le caratteristiche attribuite a questo solido raccontavano qualcosa della persona che l’aveva immaginato. Il cubo che Claudia aveva immaginato era di vetro. E una Claudia fatta di vetro non poteva nascondere nulla.

Forse per questo ha sempre avuto la lacrima facile, anzi facilissima; piangere era la sua risposta prediletta. Col tempo, aveva affinato la tecnica, e piangeva in modo composto, senza che il naso gocciolasse e senza fare smorfie, ma le lacrime non è mai riuscita a trattenerle. Piangeva di commozione davanti alla bellezza , di frustrazione davanti alla stanchezza, di rabbia davanti a un sopruso, di dolore davanti a una delusione. Piangeva quando non le venivano le parole.
E questo è strano, perché sappiamo tutti che Claudia parlava tantissimo: la comunicazione era un'altra delle sue fisse.

C’è questa foto che è rimasta negli archivi della nostra famiglia: ci sono io in fasce nella culla con gli occhi fissi su mia sorella che in groppa al suo cavallo a dondolo sfoglia un gigantesco libro: l’espressione concentrata e la bocca aperta suggeriscono che mi sta raccontando una favola, metà inventata, metà rimaneggiata con l’aiuto delle figure.

A Claudia le storie sono sempre piaciute. Le piaceva raccontarsi, come faceva nel suo blog, ma le piaceva ancora di più sentirsi raccontare le vite degli altri. Non a caso, i suoi film e i suoi romanzi di riferimento erano quelli che avevano come protagonisti la gente comune, quelli che mostravano lo straordinario racchiuso nel quotidiano. Aveva fatto suo il motto del pianista sull’oceano “non sei fottuto veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”, e per non rimanere mai a corto di storie, faceva un sacco di ricerca sul campo. Era un’appassionata osservatrice del genere umano: giocava a fare sociologia da quattro soldi, e riusciva a essere curiosa senza essere maliziosa.

Sento che mia sorella mi è vicina, che in questo momento ci sta osservando e che avrebbe mille domande da farci. Per questo vi chiedo di farle un regalo: la prossima volta che vi ricorderete di lei, perché non le raccontate qualcosa che vi è successo, così da tenerla occupata con le vostre storie? Sono certa che apprezzerebbe. 

No comments:

Post a Comment