Non appena mi richiudo la porta
alle spalle, vengo abbracciata da un enorme mazzo di fiori. Tenendolo stretto,
mi faccio spazio a colpi di naso per riuscire a intravedere chi mi sta aspettando
in cortile dopo essere stato seduto dietro di me in aula magna mentre discutevo
la tesi. Sto spuntando mentalmente la lista delle presenze quando vengo sommersa
da un’ondata di facce amiche e ancora impacciata dal cespuglio multicolore che
stringo tra le braccia, comincio a distribuire baci.
Paola sembra vittima di una paresi
facciale, da quanto sorride; so che i fiori me li ha comprati lei, e so anche
perché: dal basso dei miei biechi calcoli costi-benefici, le avevo confessato
che trovavo stupido pagare così tanto una cosa che sta già morendo. Le avevo
anche confessato che nessuno mi aveva mai regalato fiori, ma che era meglio
così, perché tanto non avrebbe avuto senso pagare così tanto una cosa che sta
già morendo.
“Ti piacciono?” mi chiede Paola.
“Tantissimo” rispondo io, e come sempre con lei non c’è bisogno di mentire. Questo
mazzo di fiori, giallo di girasoli e rosso di peperoncini, è irriverente, chiassoso,
genuino, e mette di buonumore. Proprio come Paola, con gli indomabili riccioli
rossi le improbabili calze a righe.
Sono venuti tutti per la mia
laurea: i miei compagni di università, anche quelli che saranno al mio posto
nei prossimi giorni, la mia famiglia, gli amici di lunga data e le colleghe del
negozio. Durante le foto di rito, quando
l’intera squadra di calcetto dell’aula studio si cala letteralmente le braghe
davanti all'obiettivo di mia sorella, un usciere ci chiede di contenere
l’entusiasmo, per rispetto a quegli studenti che devono ancora discutere la
tesi.
La Lu mi gira intorno con la
macchina fotografica, scattando a ripetizione. Le sequestro la macchina, con la
scusa di testimoniare la sua presenza dall'altro lato dell’obiettivo, ma anche con
l’intenzione di cancellare tutte le foto in cui sembro un mostro, e mi ritrovo
così a ripercorrere l’ultima mezz'ora com'è stata fermata per immagini.
Nella prima foto ci sono io di
spalle, a spezzare un semicerchio di cinque professori visibilmente annoiati.
Il tavolo che ci separa è massiccio, di legno scuro, solenne come i pesanti
tendaggi di velluto che incorniciano le finestre, e le lunghe toghe nere che
impacciano i docenti quando si passano la mia tesi. Una fotografia che funzionerebbe
benissimo anche in bianco e nero, nel suo essere fuori dal tempo.
La seconda foto invece è presa più da vicino: nell'inquadratura rientriamo di profilo solo io e il mio
relatore, che ha assunto lo stessa espressione della gioconda, nonostante si
noti che io sto gesticolando risolutamente a caccia di approvazione. Lui è Antonio
Scurati, docente di sociologia della comunicazione. Mi era bastato vederlo una
volta sedersi sulla cattedra con
nonchalance per sceglierlo come relatore. A tutti noi del terzo anno era noto
come il killer: si era presentato la
prima lezione del semestre vestito completamente di nero, con tanto di
dolcevita e guanti di pelle, e il nomignolo gli era rimasto appiccicato addosso
tutto l’anno. Un uomo alto, con gli occhi di ghiaccio, poco incline al sorriso,
vintage di classe come un cattivo di James Bond.
Nella terza foto è lui a parlare,
rivolgendosi al presidente della commissione, mentre io sfoglio la mia tesi
come se la vedessi per la prima volta.
Avevo scelto di scrivere dei
Radiohead, cercando di fare un parallelo fra i musicisti che avevano
accompagnato le rivolte studentesche del ’68 con le loro canzoni di protesta e
questa band di Oxford che invece raccontava benissimo lo spaesamento che aveva
seguito i tragici fatti dell’undici settembre. La tesi l’avevo intitolata Il rock nella società del rischio, e
sentivo che poteva funzionare. Il Professor Scurati non conosceva i Radiohead,
ma aveva accettato la mia proposta senza riserve. La sfida consisteva semmai
nel presentare il mio punto di vista anche agli altri membri della commissione.
Nella quarta foto, la mia tesi è
passata fra le mani del presidente della facoltà, il quale mi lancia uno sguardo
da sopra gli occhiali a cui io rispondo mordendomi il labbro: era una domanda
retorica la sua, e la risposta campeggiava sulla prima pagina, scritta di mio
pugno, eppure era bastato quello per farmi andare nel pallone. Sono ancora
frastornata, ma dalla nebbia della frenesia riemergono alcuni dettagli: la
discussione… perché ho fatto un discorso così generale e non mi sono invece
concentrata sull’analisi dell’album che ben rappresentava le teorie analizzate?
Avrei potuto far ascoltare un pezzo di canzone, mostrare l’artwork dei dischi…
Sapevo di avere solo una decina di minuti, e quando sono scaduti è dovuto
intervenire il relatore a tirare le fila del mio discorso. Me la sono giocata
malissimo. Scrivere e riscrivere una cosa per settimane può darti l’impressione
di averla imparata, ma comunicarla in modo efficace è un'altra cosa.
Ed ecco la quinta foto, scattata prima
del frontale con il mazzo di fiori: io che infilo l’uscita dall’aula magna con
lo sguardo basso e le labbra serrate. Espressione che ho assunto anche in questo momento, concentrata
sul display della fotocamera e assente dai festeggiamenti di cui dovrei essere
protagonista.
“Tutto bene, Clod?” mi chiede
Paola “Beh, potevo prepararla meglio la presentazione”, rispondo, per dare
sfogo alla sensazione di malessere che mi ha invaso . “Ma va, scema, sei andata
benissimo! E poi fanno così con tutti i professori: fanno finta di ascoltarti,
ma in realtà pensano solo a cosa ordineranno per pranzo al ristorante”. Sorrido
a Paola, anche se non sorrido dentro: lì dove ci dovrei sentire un’esplosione
di sollievo c’è un grumo di rabbia, e non so perché. O forse lo so, anche se
non mi va di raccontarmelo… Dopo tre anni di totale anonimato avevo finalmente
la possibilità di esprimermi, di raccontarmi, di spiegare perché avevo scelto
di trattare un argomento come la musica, e invece mi sono sentita ripetere la
lezioncina imparata a memoria.
Sono una secchiona, lo sono sempre stata, e non
ho nemmeno il coraggio di difendere le mie opinioni.
Mentre rimugino sull'occasione sprecata, attraverso il cortile e raggiungo i miei genitori, che in piedi in un
angolo osservano le manifestazioni di affetto più svariate, intontiti dal caos
che ha preso piede.
Non riesco a collocarli, tra le
mura dell’università e forse per questo che non avevo insistito perché
venissero oggi: si tratta di una laurea di primo livello in scienze della
comunicazione, non certo di un traguardo accademico. Ma alla fine sono contenta
che mi abbiano accompagnato: hanno appoggiato –e finanziato- ogni mia
decisione, senza mai chiedere un riscontro, e sarebbe stato egoista escluderli
da questa grossa parte della mia quotidianità. Mamma, che non mi farebbe mai un
complimento in pubblico, si preoccupa dell’aspetto pratico, chiedendomi se ho
deciso dove andremo a mangiare, mentre papà mi sorride, sintetizzando così quelle
mille parole che non riuscirebbe comunque a pronunciare.
Sono tutti fieri di me, tranne la
sottoscritta. Non voglio rovinare la giornata a nessuno, specialmente a me
stessa, ma non riesco a rassegnarmi al fatto che avevo una sola possibilità, e
non l’ho sfruttata al meglio.
Spiego a mamma che prima di
andare a pranzo dobbiamo aspettare il momento della proclamazione, e mi ributto
nella mischia. “E adesso cosa farai?” mi chiede mio cugino, e io rispondo
“vacanza”, che in fondo è quello che ho fatto finora… A scuola me la sono
sempre cavata senza grossi sforzi, e l’università non è stata un’eccezione: ho
riempito il mio libretto di esami e non ho perso tempo, ma non mi sono mai
messa in gioco davvero. Non ho mai fatto la fatica di mia sorella che sputa
sangue su quei modellini di architettura che la tengono in piedi tutta la
notte. E se non mi fa piacere quando mi dice che la mia facoltà è facile, è
perché so che ha ragione.
Io e altri cinque studenti
veniamo convocati nuovamente in aula magna per la proclamazione: i professori ci
attendono in piedi davanti al tavolo, e noi ci allineiamo di fronte a loro. Mi
laureo con 107 su 110. Un voto senza infamia e senza lode.
“E adesso cosa farò?” penso, mentre stringo la
mano al professor Scurati, tenendolo stretta più a lungo del dovuto mentre cerco
nei suoi occhi di ghiaccio l’ombra di una risposta. Ma i suoi occhi mi
restituiscono solo la mia immagine riflessa.
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