Thursday 13 December 2012

Dottore del buco


Non appena mi richiudo la porta alle spalle, vengo abbracciata da un enorme mazzo di fiori. Tenendolo stretto, mi faccio spazio a colpi di naso per riuscire a intravedere chi mi sta aspettando in cortile dopo essere stato seduto dietro di me in aula magna mentre discutevo la tesi. Sto spuntando mentalmente la lista delle presenze quando vengo sommersa da un’ondata di facce amiche e ancora impacciata dal cespuglio multicolore che stringo tra le braccia, comincio a distribuire baci.

Paola sembra vittima di una paresi facciale, da quanto sorride; so che i fiori me li ha comprati lei, e so anche perché: dal basso dei miei biechi calcoli costi-benefici, le avevo confessato che trovavo stupido pagare così tanto una cosa che sta già morendo. Le avevo anche confessato che nessuno mi aveva mai regalato fiori, ma che era meglio così, perché tanto non avrebbe avuto senso pagare così tanto una cosa che sta già morendo.
“Ti piacciono?” mi chiede Paola. “Tantissimo” rispondo io, e come sempre con lei non c’è bisogno di mentire. Questo mazzo di fiori, giallo di girasoli e rosso di peperoncini, è irriverente, chiassoso, genuino, e mette di buonumore. Proprio come Paola, con gli indomabili riccioli rossi le improbabili calze a righe.   

Sono venuti tutti per la mia laurea: i miei compagni di università, anche quelli che saranno al mio posto nei prossimi giorni, la mia famiglia, gli amici di lunga data e le colleghe del negozio. Durante le foto di rito,  quando l’intera squadra di calcetto dell’aula studio si cala letteralmente le braghe davanti all'obiettivo di mia sorella, un usciere ci chiede di contenere l’entusiasmo, per rispetto a quegli studenti che devono ancora discutere la tesi.
La Lu mi gira intorno con la macchina fotografica, scattando a ripetizione. Le sequestro la macchina, con la scusa di testimoniare la sua presenza dall'altro lato dell’obiettivo, ma anche con l’intenzione di cancellare tutte le foto in cui sembro un mostro, e mi ritrovo così a ripercorrere l’ultima mezz'ora com'è stata fermata per immagini.

Nella prima foto ci sono io di spalle, a spezzare un semicerchio di cinque professori visibilmente annoiati. Il tavolo che ci separa è massiccio, di legno scuro, solenne come i pesanti tendaggi di velluto che incorniciano le finestre, e le lunghe toghe nere che impacciano i docenti quando si passano la mia tesi. Una fotografia che funzionerebbe benissimo anche in bianco e nero, nel suo essere fuori dal tempo.

La seconda foto invece è presa più da vicino: nell'inquadratura rientriamo di profilo solo io e il mio relatore, che ha assunto lo stessa espressione della gioconda, nonostante si noti che io sto gesticolando risolutamente a caccia di approvazione. Lui è Antonio Scurati, docente di sociologia della comunicazione. Mi era bastato vederlo una volta sedersi sulla cattedra con nonchalance per sceglierlo come relatore. A tutti noi del terzo anno era noto come il killer: si era presentato la prima lezione del semestre vestito completamente di nero, con tanto di dolcevita e guanti di pelle, e il nomignolo gli era rimasto appiccicato addosso tutto l’anno. Un uomo alto, con gli occhi di ghiaccio, poco incline al sorriso, vintage di classe come un cattivo di James Bond.

Nella terza foto è lui a parlare, rivolgendosi al presidente della commissione, mentre io sfoglio la mia tesi come se la vedessi per la prima volta.
Avevo scelto di scrivere dei Radiohead, cercando di fare un parallelo fra i musicisti che avevano accompagnato le rivolte studentesche del ’68 con le loro canzoni di protesta e questa band di Oxford che invece raccontava benissimo lo spaesamento che aveva seguito i tragici fatti dell’undici settembre. La tesi l’avevo intitolata Il rock nella società del rischio, e sentivo che poteva funzionare. Il Professor Scurati non conosceva i Radiohead, ma aveva accettato la mia proposta senza riserve. La sfida consisteva semmai nel presentare il mio punto di vista anche agli altri membri della commissione.

Nella quarta foto, la mia tesi è passata fra le mani del presidente della facoltà, il quale mi lancia uno sguardo da sopra gli occhiali a cui io rispondo mordendomi il labbro: era una domanda retorica la sua, e la risposta campeggiava sulla prima pagina, scritta di mio pugno, eppure era bastato quello per farmi andare nel pallone. Sono ancora frastornata, ma dalla nebbia della frenesia riemergono alcuni dettagli: la discussione… perché ho fatto un discorso così generale e non mi sono invece concentrata sull’analisi dell’album che ben rappresentava le teorie analizzate? Avrei potuto far ascoltare un pezzo di canzone, mostrare l’artwork dei dischi… Sapevo di avere solo una decina di minuti, e quando sono scaduti è dovuto intervenire il relatore a tirare le fila del mio discorso. Me la sono giocata malissimo. Scrivere e riscrivere una cosa per settimane può darti l’impressione di averla imparata, ma comunicarla in modo efficace è un'altra cosa.

Ed ecco la quinta foto, scattata prima del frontale con il mazzo di fiori: io che infilo l’uscita dall’aula magna con lo sguardo basso e le labbra serrate. Espressione che ho  assunto anche in questo momento, concentrata sul display della fotocamera e assente dai festeggiamenti di cui dovrei essere protagonista.

“Tutto bene, Clod?” mi chiede Paola “Beh, potevo prepararla meglio la presentazione”, rispondo, per dare sfogo alla sensazione di malessere che mi ha invaso . “Ma va, scema, sei andata benissimo! E poi fanno così con tutti i professori: fanno finta di ascoltarti, ma in realtà pensano solo a cosa ordineranno per pranzo al ristorante”. Sorrido a Paola, anche se non sorrido dentro: lì dove ci dovrei sentire un’esplosione di sollievo c’è un grumo di rabbia, e non so perché. O forse lo so, anche se non mi va di raccontarmelo… Dopo tre anni di totale anonimato avevo finalmente la possibilità di esprimermi, di raccontarmi, di spiegare perché avevo scelto di trattare un argomento come la musica, e invece mi sono sentita ripetere la lezioncina imparata a memoria. 
Sono una secchiona, lo sono sempre stata, e non ho nemmeno il coraggio di difendere le mie opinioni.

Mentre rimugino sull'occasione sprecata, attraverso il cortile e raggiungo i miei genitori, che in piedi in un angolo osservano le manifestazioni di affetto più svariate, intontiti dal caos che ha preso piede.
Non riesco a collocarli, tra le mura dell’università e forse per questo che non avevo insistito perché venissero oggi: si tratta di una laurea di primo livello in scienze della comunicazione, non certo di un traguardo accademico. Ma alla fine sono contenta che mi abbiano accompagnato: hanno appoggiato –e finanziato- ogni mia decisione, senza mai chiedere un riscontro, e sarebbe stato egoista escluderli da questa grossa parte della mia quotidianità. Mamma, che non mi farebbe mai un complimento in pubblico, si preoccupa dell’aspetto pratico, chiedendomi se ho deciso dove andremo a mangiare, mentre papà mi sorride, sintetizzando così quelle mille parole che non riuscirebbe comunque a pronunciare.
Sono tutti fieri di me, tranne la sottoscritta. Non voglio rovinare la giornata a nessuno, specialmente a me stessa, ma non riesco a rassegnarmi al fatto che avevo una sola possibilità, e non l’ho sfruttata al meglio.

Spiego a mamma che prima di andare a pranzo dobbiamo aspettare il momento della proclamazione, e mi ributto nella mischia. “E adesso cosa farai?” mi chiede mio cugino, e io rispondo “vacanza”, che in fondo è quello che ho fatto finora… A scuola me la sono sempre cavata senza grossi sforzi, e l’università non è stata un’eccezione: ho riempito il mio libretto di esami e non ho perso tempo, ma non mi sono mai messa in gioco davvero. Non ho mai fatto la fatica di mia sorella che sputa sangue su quei modellini di architettura che la tengono in piedi tutta la notte. E se non mi fa piacere quando mi dice che la mia facoltà è facile, è perché so che ha ragione.

Io e altri cinque studenti veniamo convocati nuovamente in aula magna per la proclamazione: i professori ci attendono in piedi davanti al tavolo, e noi ci allineiamo di fronte a loro. Mi laureo con 107 su 110. Un voto senza infamia e senza lode.
 “E adesso cosa farò?” penso, mentre stringo la mano al professor Scurati, tenendolo stretta più a lungo del dovuto mentre cerco nei suoi occhi di ghiaccio l’ombra di una risposta. Ma i suoi occhi mi restituiscono solo la mia immagine riflessa.

No comments:

Post a Comment