Saturday 29 December 2012

Mangia prega ama

















Un taxi poi… e tutto per me. Non lo prendo mai, il taxi, e non potrò di certo permettermelo spesso nei prossimi due mesi, però questa volta non c’era alternativa. Ho seguito alla lettera le indicazioni ricevute via mail: in aeroporto ho tenuto stretto il mio zaino rifiutando aiuto e risparmiando mancia e mi sono infilata all’ufficio turistico per farmi indicare un taxi regolare. L’indirizzo dell’ostello l’ho scribacchiato dietro al biglietto aereo: lo passo al tassista, che annuisce, mi carica e si fa strada strombazzando nella lunga coda che lascia il parcheggio per immettersi sulla strada principale.

E che taxi poi… chi se lo immaginava che le gloriose fiat Uno venissero in pensione in Indonesia? Questa è la stessa macchina con cui ho imparato a guidare, una vita fa, nei campi vicino a casa: stessi sedili scomodi, stesso cambio a quattro marce, stessi finestrini che si abbassano con la manovella. Anche il colore è lo stesso: bianco e basta. Alla mia macchina però mancava l’autoradio mentre in questa, dal sistema rudimentale di casse aggiunte al magro impianto di serie, escono le frequenze di una stazione radio locale: quando le prime note di “like a prayer” si diffondono nell'abitacolo il tassista, fino a quel momento silenzioso, alza decisamente il volume e la canta nel suo inglese fantasioso.
Sorrido, e ci scambiamo uno sguardo nello specchietto retrovisore. Non avremo una lingua comune, ma sappiamo entrambi che i primi dischi della signora Ciccone sono pietre miliari nella storia della musica pop.
La canterei anch’io, se non fossi così agitata… rimetto in borsa il cellulare che ho cercato invano di rianimare, e abbasso il finestrino.

Il nostro aereo è atterrato sotto a un acquazzone da manuale e l’asfalto è ancora bagnato. Non c’è quel caldo soffocante che mi immaginavo… Ma in fondo cosa potevo immaginarmi?
La mia idea di Bali fino all’anno scorso era sintetizzata dalla minacciosa maschera di legno intagliato che mia zia tiene appesa nel tinello, ingombrante ricordo di un viaggio di nozze col sapore di un’impresa coloniale. Poi è arrivato Hollywood, che in modo brutalmente illusorio mi ha presentato Bali come il posto in cui Julia Roberts, ingrassata a Roma e dimagrita in India trova infine la pace dei sensi con un Javier Bardem abbronzatissimo e proprietario di mezza isola. Mangia, prega, ama: è questo il mio programma di viaggio, anche se la preghiera che tutto vada per il meglio finora ha messo in ombra il resto.
Sono una donna emancipata e non posso permettermi di credere alle favole, ma sarebbe bello se anche la mia Bali, andando contro all’evidenza, non assomigliasse alla periferia intasata di traffico di qualsiasi città.

Sono mesi che mi sento chiedere “Allora, come va con I.?”; le relazioni a distanza non sono facili, nemmeno da spiegare, e negli ultimi tempi gli sguardi condiscendenti dei miei amici mi hanno messo spesso a disagio. Sono mesi che lui è partito e io l’ho seguito come potevo mentre viaggiava tra i fusi orari di Sudamerica e Oceania. Da pendolare dell’amore ora ne sono diventata la cronista: narro le sue gesta evitando di raccontare che ruolo gioco io in tutto ciò. È per rispondere a quest’unica domanda che senza aspettare che il mio ragazzo mi invitasse a raggiungerlo ho comprato un biglietto e dopo 36 ore di viaggio mi ritrovo qui, su questo taxi che comincia a starmi stretto;  l’odore di Arbre Magique appena scartato mi da’ alla testa: un deodorante all’aroma chimico di cocco in un paese esotico, ricoperto di palme… Ma perché?
Abbasso il finestrino: fuori dal taxi scorrono al rallentatore muretti e recinzioni che faticano a contenere una vegetazione che scoppia di salute: come cercare lussureggiante sul dizionario illustrato. Sono piante invadenti, con ampie foglie lucide che arrivano a coprire come a proteggerle delle piccole costruzioni che punteggiano la strada: sembrano delle case in miniatura appoggiate sopra una colonna, decorate con drappi gialli e con vassoi di foglie pieni di fiori. Credo che abbiano qualche significato religioso perché davanti ad ogni casetta brucia un bastoncino di incenso. Vorrei chiederlo al tassista, cosa sono questi altari, e vorrei anche chiedergli quanto ci vorrà ad arrivare a destinazione con questo traffico, ma lui non parla inglese e io non parlo più, che forse per il finto odore di cocco o per la paura di non trovare nessuno ad attendermi faccio fatica a respirare.

Con I. ci siamo sentiti una settimana fa, quand’era ancora in Nuova Zelanda. Sarà stato prematuro, ma gli ho chiesto se aveva capito cosa voleva fare una volta che il suo giro del mondo l’avesse riportato al punto di partenza. Lui si è rabbuiato, ed è riuscito solo a dirmi “non puoi chiedermi di tornare a Francoforte”. Francoforte... una città in cui sono finita per stare con lui, e che sarei pronta a lasciare dopodomani, per stare con lui. 
Sono più di tre anni che saltiamo da un posto all’altro, da un lavoro all’altro per paura di mettere radici, e a me comincia a mancare la terra sotto i piedi.

“Rita’s house?” domanda il tassista indicando un edificio rosa alla nostra destra. Fuori dal cancello c’è I.: ha una maglietta gialla e non l’ho mai visto così abbronzato. Non sarà Javier Bardem, ma nemmeno io sono Julia Roberts... “Stop!” ordino, e quando il taxi si ferma I. mi vede e mi viene incontro.
Pago e raccolgo lo zaino mentre I. si fa sempre più vicino alla portiera. Stringo la maniglia e inspiro forte come prima di un tuffo. Andrà. Tutto. Bene. 

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