Wednesday, 6 March 2013

My favourite addiction


Gilda si rotola nella neve, con l’entusiasmo contagioso del cucciolo alla prese con le prime volte, e io mi ritrovo a correre fra i filari per farmi inseguire. È un cane tutto orecchie, e sembra che sorrida sempre. Le sono grata per avermi fatto uscire di casa, nonostante il gelo. E non mi va di rientrare subito… finché questo pallido sole regge, mi godo la mia campagna monocromatica. Questa scenografia è così bella che si merita una colonna sonora: accendo l’iPod e seleziono i Black Keys; c’è una canzone del loro ultimo album che mi piacerebbe aver scritto, e che ho eletto a mantra. Quando arriva il ritornello, “She’s the worst thing, I’ve been addicted to”, lo canto di gustoSe non mi fossi liberata della mia peggiore dipendenza, probabilmente in questo momento gli starei scrivendo per raccontargli di Gilda, della neve e della mia campagna. E invece tengo tutto per me.

Mi chiamo Claudia, ho 30 anni e sono una codipendente emotiva. Non si dice mai ex codipendente, così come non si dice ex alcolista, perché con l’intossicazione non si sa mai. Ma sono sobria da 18 mesi e le fasi della dipendenza le ho vissute tutte:

·         La scoperta

Sull’interregionale che ci sta portando a Venezia, si viaggia con i finestrini abbassati: l’aria condizionata è fuori uso, le tende frustano l’aria e il frastuono dei binari riempie il vagone. Siamo seduti uno di fronte all’altra, con un libro aperto sulle ginocchia. Mancano pochi giorni agli esami del master, e Francesca ci ha invitati a casa sua per il fine settimana; ci siamo pure ripromessi di ritagliarci un paio d’ore per un ripasso generale… Sappiamo che non succederà, ma almeno abbiamo la coscienza a posto. Il mio sedile è immerso nel feroce sole di luglio, e quando mi infilo gli occhiali da sole lui mi fa: “Sai che così assomigli un po’ a Uma Thurman?”; lo urla in effetti, per abbattere il muro di suono che ci separa e in tutta risposta mi trovo gli occhi di tre sconosciuti addosso, a valutare l’effettiva somiglianza. La battuta che mi spetta: “ma che cazzo dici?” non si presenta in tempo e viene rimpiazzata da un trasognato “davvero?”

Quella stessa sera, Venezia è il nostro parco giochi: dopo che l’ultimo turista è salito sul vaporetto che lo riconsegnerà a Mestre e ai suoi alberghi, lasciamo l’appartamento di Francesca e scriviamo una traiettoria tra campi e calli che finiscono in un canale, raccogliendo facce nuove lungo la via. Consumiamo spritz sovradimensionati cercando di asciugarli con pizze mangiate direttamente dal cartone, seduti sui gradini di qualche chiesa, e ripetiamo la sequenza fino a perdere il conto e il controllo. Del resto ricordo poco, ma mi sembra di aver portato qualcuno in spalla, di aver rimpianto di non essere maschio per non poter pisciare dal ponte di Rialto e di essere finita schiena a terra in piazza san Marco dopo aver azzardato qualche mossa di capoeira. Ricordo anche che durante la notte ho aperto gli occhi e lui era disteso di fianco a me, e respirava leggero, il viso consegnato all’abbandono, arreso al sonno senza incubi delle persone che non hanno niente da rimproverarsi. E ho espresso il desiderio di svegliarmi altre volte al suo fianco. 

·         L’assuefazione

Quando l’ho baciato la prima volta, l’unica luce era quella della luna. Avevamo i piedi a mollo in una piscinetta gonfiabile, nel giardino della casa in cui sono cresciuta. La piscina era stata un’idea mia: l’avevo installata per giustificare il tema della festa, un pool party che faceva il verso a Hollywood, e per obbligare i miei amici a indossare il pareo e a liberalizzare i gavettoni. Un anno più tardi ci baciavamo in piedi nella vasca del mio appartamento, rigorosamente con i piedi in acqua. Avevamo dei rituali, e momenti che erano solo nostri: il mercoledì mattina raggiungevamo Milano da due città diverse, e mentre il treno rallentava per entrare in stazione centrale, ascoltavo la nostra canzone, sapendo che lui stava facendo lo stesso. Minuti più tardi, facevamo colazione insieme sotto alla radio con cui collaborava. Ci tendevamo imboscate e visite a sorpresa, ci lasciavamo biglietti nascosti nelle tasche.
E siamo stati felici, e tanto, sostenuti da quella spensieratezza che ti fa credere che tutto sia possibile.
La nostra prima estate insieme, lui aveva insistito per raggiungermi in Sardegna, dove facevo la stagione come cameriera: io dovevo essere riconsegnata ogni sera alle 7; lui ogni mattina passava a prendermi in motorino e insieme facevamo fuga, come due liceali  che scappano dalla versione di latino. In quelle due settimane senza sonno, ci siamo baciati su ogni spiaggia della Gallura.

·         La dipendenza

Avevo bisogno di quelle massicce scariche di endorfine generate dal nostro stare insieme.
Pensando alle circostanze in cui ci eravamo trovati, mi ero convinta che lui fosse l’unico possibile per me, l’unica persona che calcasse il mio universo spazio-temporale, la cui imperfezione si incastrasse perfettamente con la mia imperfezione.
Ma stare insieme era una scommessa, da quando aveva trovato lavoro a Francoforte e ci eravamo rassegnati alla recitare la parte dei pendolari dell’amore.

·         La crisi da astinenza

“Sono stufo di stare qui”, aveva annunciato una sera, rientrando dall’ufficio. Un mese più tardi stringeva fra le mani un biglietto per il giro del mondo in otto tappe e sette mesi. E io mi ero affrettata a regalargli uno zaino, con sommo orrore di mia sorella. Ero la sua più grande fan: capivo le sue ragioni, ma non le sposavo quando diceva “voglio fare questa esperienza da solo, voglio mettermi alla prova”.
E così, tralasciando una breve convivenza, da pendolare dell’amore mi sono ritrovata a farne da cronista: narravo le sue gesta a persone che in quei racconti cercavano il mio personaggio. Per accontentarle, ho comprato un biglietto e l’ho raggiunto in Indonesia. Una sorpresa che aveva il sapore di un’invasione.
Era solo il nuovo capitolo di una storia in cui l’ho seguito ovunque, a volte l’ho inseguito e il resto del tempo l’ho aspettato.

·         Il collasso

Chiara è bellissima nell’abito bianco, e Olly inaspettatamente spigliato in giacca e cravatta, anche se non ne ha voluto sapere di tagliarsi i capelli. La chiesetta di campagna è stipata di amici, arrivati in gran numero da Francoforte, dove gli sposi si sono conosciuti. È tutto semplice e autentico, fin nel dettaglio. Se mai io… Se mai noi… Noi… Non ci vediamo da un mese e quando arrivo, a cerimonia iniziata, lui è sull’altare, concentrato sulla chitarra. Cerco il suo sguardo durante lo scambio degli anelli: vorrei dargli un’altra occasione per prendermi in giro perché anche stavolta mi sono commossa, ma lui è nascosto dietro ad un leggio. Lo sa, che mi costa rinunciare a tutto questo, e che questo è solo l’ennesimo compromesso che ho accettato, pur di stare con lui.

La mattina seguente, quando lascio il suo letto, mi prende per un braccio:
“Te ne vai di già?”
“Te l’ho detto, domani vado in Liguria con la Lu e gli altri. Tu che fai? Ci raggiungi là?”
“Non so…”
“Dai, siamo ospiti, è per fare una settimana di mare…”
“mmm… Ci penso e ti faccio sapere…”
“Certo” dico, anche se di una cosa sola sono certa: che non mi sveglierò mai più al suo fianco.

·         Il distacco

Non posso piangere davanti agli amici che mi hanno conosciuta come la sua ragazza, ma ho davvero bisogno d’aiuto. Non mangio più e non dormo più, non mi riconosco più. La dottoressa che mi visita mi lascia sfogare, mi somministra un abbraccio e mi mette alla porta in pochi minuti: d’amore non si muore, pare, e l’unica cura efficace è il tempo.
Quando ricevo il suo messaggio, sono seduta in riva al Meno, in compagnia del libro di tedesco e di una birra: sono settimane che non ci sentiamo, e adesso vuole farsi 700 chilometri per venire a parlarmi. La sola idea mi manda nel panico. Lascio passare 24 ore e gli rispondo: “se vuoi solo parlarmi, possiamo sentirci per telefono”. “Perfetto! Puoi metterti su Skype stasera?” mi scrive mezzo minuto dopo.
Questa puntata della mia vita è sceneggiata malissimo e girata in economia. Mancano i colpi di scena e non c’è nemmeno il lieto fine. Mi molla con una videochiamata e la spiegazione della sua scomparsa è noiosa come il verbale dell’assemblea di condominio. “Non potevo restare con te sapendo che non ti amavo più”, mi dice, e io non verso nemmeno una lacrima.

·         La sobrietà

Dopo mesi di sporadici contatti ci rivediamo, quasi per caso. Quando mi abbraccia, indugia un po’ troppo prima di lasciarmi andare mentre io resto in ascolto: niente sangue alle guance, niente battito accelerato, niente farfalle nello stomaco. Sono solo un involucro. Cerco in lui qualche indizio della sua vita senza di me, e mi stupisco di come non sia cambiato nulla.
Passeggiamo nella nostra Milano, le mani nelle tasche, lo sguardo sulle scarpe. Proprio come era successo all’inizio. Ma questo tipo di imbarazzo ha un sapore diverso.
Ci intratteniamo in una civile conversazione, raccontando dell’io, chiedendo del tu e evitando accuratamente di fare riferimento a noi. Proprio come era successo all’inizio. Solo che all’inizio, qui a parco Sempione cercavo gli scoiattoli che si inseguivano sui rami mentre oggi scopro dei ratti ben pasciuti che si infilano sotto a un cespuglio.

Mi chiamo Claudia, ho 30 anni, e sono stata una codipendente emotiva. Adesso non lo sono più, non con lui almeno. Non riesco però a stare lontana da libri e film che parlano d’amore, e mi illudo di farne un uso terapeutico. Per precauzione, tenetemi lontana dai Baci Perugina.

Wednesday, 20 February 2013

Commercialista superstar


Gli occhiali da sole che indossa sono discutibili: a mascherina, con dei dettagli dorati, più adatti a un parrucchiere che a un commercialista. Ma la cosa che mi infastidisce è che non se li tolga nemmeno qui, sotto i neon di questo ufficio senza finestre dove ci stiamo perdendo l’estate lunghissima in onda sopra le nostre teste.
Il resto dell’abito fa il monaco: cartella di pelle appesantita da documenti, camicia cifrata e corredata da gemelli dorati, abito grigio chiaro e cravatta salmone, scarpe di buona fattura.
Anche il fisico è quello dell’animale da scrivania: una silhouette pingue e leggermente ricurva. La carnagione è rosea, grazie al sole e al cibo della Campania, e le guance rasate in modo impeccabile dispensano note speziate di pregiato dopobarba.

Eccolo, il dottor Cantisani da Santa Maria Capua Vetere, commercialista superstar e idolo di Franca, la collega con cui divido questo ufficio che mi sta ogni giorno più stretto.

È lui che si occupa del personale; purtroppo è talmente disinteressato alle persone da privarmi del saluto quando si installa nel nostro ufficio. Temendo che non si sia accorto che al posto di Patrizia ora ci sono io, Franca mi presenta: solo allora il Dottore, sollevando impercettibilmente gli angoli della bocca, mi dedica uno sguardo eloquente: “ho capito chi sei, ma il contratto non ce l’ho”. Il contratto che, insieme alla sua venuta, aspetto da tre settimane.

Attirati dalla scia di dopobarba, gli altri collaboratori dello studio sfilano in processione al cospetto del Dottore, fogli alla mano, chiedendo le risposte che non hanno ottenuto il mese precedente. 
C’è la segretaria che porta il caffè e mostra la pensione minima della madre, c’è il fonico con il figlio malato che chiede che fine hanno fatto i contributi, quello che ha maturato straordinari per due anni e non li ha mai riscossi, il segretario di edizione con le ricevute per il rimborso della trasferta.
Il Dottore riceve i questuanti senza mai alzarsi dalla sedia, con la mani incrociate sul ventre, dispensa battute in latino e in napoletano insieme ad aneddoti attribuiti alla nonna, donna semplice ma di straordinaria saggezza. E non da’ una singola risposta, lamentando la mancanza di tempo per approfondire la questione. il mese prossimo, assistendo allo stesso teatrino, sarò assalita da un déjà vu.    

Quando vengono finalmente lasciati soli, il Dottore chiede ad un’adorante Franca di fargli il resoconto fiscale, di stampargli un itinerario e di prendergli appuntamento con la direttrice; poi le detta un paio di mail insegandole la punteggiatura, le fa comporre il numero del suo studio per umiliare un’ impiegata in viva voce e si fa portare un altro caffè, per il gusto di vantarsi che dalle sue parti lo fanno più buono.

Solo quando arriva la tazzina scioglie le dita dall'abbraccio in cui riposavano, incrociate sopra l'ombelico.

Nel frattempo si sono fatte le cinque e il Dottore comincia a raccogliere le sue carte e infilarle nella cartella. Lancio una richiesta d’aiuto nello sguardo che viene intercettato da Franca: tanto vale provarci, mi sembrano rispondere i suoi occhi.

“Dottore, poi ci sarebbe il contratto di Claudia da discutere…”  

“Ma Franchina… non vedi come sono stanco?” 

Friday, 1 February 2013

Shar Pei

In camerino, cerco di allacciare un paio di pantaloni troppo stretti e per sgombrare il campo d’azione pinzo la maglia tra collo e mento. Quando riesco a chiudere anche l’ultimo bottone, sollevo gli occhi senza mollare la presa e lo noto subito, quel girocollo di pelle superflua. Pappagorgia: suona male e si mostra peggio, in tutta la sua assenza di grazia.

Ho il doppio mento perché paradossalmente sono quasi sprovvista di un mento atto a sostenere quei tessuti che a vent'anni sfidano le leggi della gravità e passati i trenta si arrendono ad esse.

Lascio perdere i pantaloni, e approfitto dello specchio per valutare la gravità della situazione: raddrizzo le spalle, e prendendomi il collo fra le mani tiro la pelle indietro, cercando di stirare la piega. Appena tolgo le mani però, ecco che ritorna, ben definita. Sembro uno Shar Pei. Diventerò uno Shar Pei: questa è solo la prima di una ragnatela di pieghe che si sovrapporrà col passare degli anni al mio contorno.

Al doppio mento non ci sono soluzioni: posso provare a camminare a testa alta, o a indossare sempre la sciarpa, ma devo rassegnarmi  a conviverci.
E pensare che fino al 2007 pensavo di avercelo, un mento… poi un pomeriggio di agosto, mentre ci perdevamo l’uno negli occhi dell’altro ignorando la spiaggia della Sardegna che faceva da contorno, I. mi fa: “certo che a te il mento non te l’hanno proprio dato, eh?” e io gli ho sorriso, perché mi sembrava un’osservazione arguta, ma da quel giorno non ho smesso di cercare il mio mento in ogni superficie riflettente.
Nemmeno in questo camerino, anche se i commenti di I. non li sento da tempo, riesco a vederlo.

Cerco di guardarmi di profilo, e vedo mio padre: quello che ci manca di mento lo recuperiamo di naso; ricordo ancora la sorpresa di scoprirne la metamorfosi, quando nel passaggio tra le elementari e le medie ha preso la sua forma definitiva. La gobba sul naso era il mio unico cruccio, prima della perdita del mento.

Ho letto che gli specchi dei camerini sono montati in modo da toglierti una taglia. Peccato che la luce così abbagliante non faccia un grosso favore al colorito tendente al verde, gli occhi scavati e i numerosi brufoli. Trent’anni e ho ancora i brufoli! Ormoni, dice qualcuno, stress, qualcun altro; adolescenza cristallizzata, è la mia diagnosi.

Non sono mai stata severa con la mia immagine: la mattina, dopo essermi lavata la faccia mi sorrido, per farmi coraggio; se devo risollevare l’autostima mi trucco, mentre quando mi assale lo sconforto vado dal parrucchiere. Possiamo essere più o meno belle in base a quanto la vita ci sta mettendo alla prova, ma possiamo anche vederci più o meno belle, e per lo stesso motivo. Non c’è specchio più impietoso del proprio sguardo.

Quando ero in Sardegna ero in forma: la pelle abbronzata e compatta, grazie all'alternanza di pomeriggi al mare e serate a correre fra i tavoli del ristorante. Le pieghe non avevano ancora fatto la loro comparsa. Vivevo spensierata anche senza mento. E adesso? Cos'è cambiato? Se mi vedessi più bella, sarei anche più contenta? Kate Moss si piace davvero?

Quando bussano alla porta, istintivamente lo sguardo si sposta sui pantaloni, che restano troppo stretti da giustificarne l’acquisto. Mi rivesto e prima di lasciare il camerino mi guardo sorridermi.

Oggi ho passato fin troppo tempo a guardarmi fuori: esercizio interessante, ma incompleto: per rispondere a tutti i dubbi che mi sono scoppiati in testa dovrei trovare uno specchio per guardarmi dentro.   

Tuesday, 15 January 2013

Cannoli a casa Canella


La prima cosa che io noto nella foto è il piatto di cannoli siciliani che troneggia a centrotavola: sarà che ho una passione smisurata per il cibo e che fotografo più i piatti che i paesaggi, ma questi spiccano come cannoli da competizione anche allo sguardo di occhi inesperti. C’è una manina paffuta che con fare esplorativo si avvicina a uno di quei mostri di cialda, ricotta e canditi, e quella manina si accompagna a un musetto furbo, quello di Viola, che con i suoi tre anni e mezzo ha ben chiaro quali sono le priorità della vita e non dedica la sua attenzione alla lucina lampeggiante dell’autoscatto bensì approfitta dei dieci secondi di immobilità dei genitori per sferrare l’attacco indisturbata.

Siamo a casa di Paola e Alessio e ci stiamo concedendo l’ultimo pranzo della lunga parentesi natalizia, come testimoniano le decorazioni appese dietro di noi. La tavola coperta dalla benaugurante tovaglia rossa è già stata sparecchiata, e le tazzine in un angolo aspettano pazienti che il caffè sul fuoco cominci a gorgogliare. Noi siamo seduti tutti schierati dietro al tavolo, e guardiamo fissi l’obiettivo. Sono stata io ad insistere per avere una foto ricordo e ad attirarmi le lamentele di quelli che non avevano nessuna intenzione di alzarsi, spostare sedie e rientrare nell’inquadratura.

Io sono quella con gli occhi chiusi, l’ultima a destra. Chiudo sempre gli occhi in contemporanea con l’obiettivo e compenso  sorridendo troppo, di quel sorriso innaturale che mi fa allungare il collo come uno struzzo. Per una volta però ho almeno i capelli a posto. Vicino a me c’è Petra, che sembra sempre un’adolescente scappata dalle superiori, con quel viso pulito e lo sguardo timido. Se non la conosci, non puoi lontanamente immaginare di cosa sia capace quella donna, cresciuta affrontando imprese quali dieci mesi di volontariato in un orfanotrofio nella zona più povera dell’India. Al centro della foto ci sono Sara e Andrea, una coppia armonica come yin e yang: lei dai tratti nobili e dai modi rarefatti di una principessa eritrea, lui un concentrato di spontaneità contenuto a fatica dall’aspetto scandinavo e l’eleganza preppy delle polo che lo sollevano dalla settimana in giacca e cravatta. La metà sinistra dell’allegro quadretto è occupata dai padroni di casa, la mia personale visione dalla sacra famiglia o, in versione più pop, della famiglia cuore con cui giocavo a immaginarmi un futuro alle elementari.

Abbiamo tutti un bel colorito, e un’espressione beata. Questa fotografia è recentissima, ma ogni volta che la rivedrò, emergeranno i dettagli di quella pigra domenica pomeriggio: le scarpe abbandonate all’ingresso e il bottone dei pantaloni slacciato, la perfezione dei cannoli riempiti sul momento, i cartoni della Pimpa alla TV a volume impercettibile che rimbalzano su un divano vuoto e la luce del tramonto che entra obliqua dalla porta finestra del terrazzo e si riflette sulle palline dell’albero di Natale.
E c’è un indizio che solo noi presenti possiamo cogliere: alle nostre spalle, in mezzo ai disegni di Viola attaccati alla porta c’è un foglietto su cui Paola ha scritto col pennarello verde SCUSATEMI. Era lì ad accoglierci quando io e Petra abbiamo suonato il campanello, e l’avevo immediatamente associato all’odore di bruciato che pervadeva il pianerottolo: “Cos’hai combinato, hai dimenticato la torta in forno?” ho detto a Paola, non appena ci ha aperto; lei ha negato sorridendo e io non ho indagato oltre, finché, dopo cinque minuti buoni di convenevoli mi sono accorta della rotondità che annunciava l’arrivo di un secondo bambino. In effetti qualcosa in forno c’era…
Un foglietto appeso alla porta: così Paola ha scelto di giustificare l’attesa nel comunicarci la dolce attesa. “Le notizie così, non si danno per telefono!”, ha aggiunto, e non potevo essere più d’accordo.

Io, Paola, Petra e Sara ci conosciamo da più di dieci anni: ci siamo trovate in università e non ci siamo più lasciate. Per un gioco del destino, per entrambe le coppie della fotografia galeotto è stato il treno a bordo del quale le loro esperienze da pendolari si sono incrociate. Io e Petra ci lamentiamo sempre della nostra scarsa fortuna, nonostante anni di militanza sui mezzi pubblici.

Sara e Andrea ai bambini ancora non ci pensano, anche se i futuri nonni ormai li hanno chiesti ufficialmente come regalo per il prossimo Natale. Sara è la nostra donna in carriera: è una miniera di consigli professionali, ed è lo sguardo lucido che mi manca quando vengo sopraffatta dall’emotività. L’ultima volta che l’ho messa al corrente delle mie disavventure lavorative ad esempio, sono stata io a dover frenare la sua indignazione, e non viceversa. Petra invece è imprevedibile, e coraggiosa: potrebbe decidere di trasferirsi dall’altra parte del mondo nel giro di una settimana senza fare una piega.    
E quando mi sono imbattuta in questa frase “perché è questo il segreto dei matrimoni riusciti: non smettere di essere stregati ognuno dall’esotismo dell’altro”, l’esempio  di Paola e Alessio ha finalmente trovato una definizione; Alessio è alto e riflessivo, e ispira protezione, mentre Paola è eterea come un folletto, corredata di lentiggini e riccioli rossi e saltella sul mondo avvolta da un’aura di energia positiva a cui è impossibile sottrarsi. Lui è cresciuto in una Taormina inondata di sole e lei sul tetto di una delle valli bergamasche, e quello che hanno fatto insieme è un capolavoro di diplomazia: una bambina che riassume in sé l’edonismo siculo e il pragmatismo lombardo.

E adesso la famiglia si allarga. La nostra famiglia si allarga.

Quando avevo otto anni, la Barbie reaganiana con i capelli corti di un marrone inoffensivo e la gonna al ginocchio, Ken con le bretelle e i mocassini bianchi e i due gemelli cloni dei genitori erano il mio ideale di famiglia perfetta; con il passare degli anni ho capito che nessuna famiglia è perfetta, ma che una famiglia della tua misura te la puoi sempre scegliere.
Io ho scelto le persone con cui prendevo interminabili caffè invece che andare a lezione, con cui preparavo gli esami promettendo che avremo seguito di più i corsi, con cui organizzavo serate e vacanze. Ho scelto loro e la vita che si portano appresso, e loro hanno fatto lo stesso con me. Senza selezione all’ingresso.
Queste persone mi hanno cresciuta: sono loro gli abbracci che cerco quando piango per il cuore spezzato, un sogno infranto o un progetto interrotto sul nascere. Sono loro che abbraccio per congratularmi quando mi annunciano traguardi o per rassicurarle di fronte alle difficoltà. 

L’epoca dell’università è ormai consegnata all’album dei ricordi, e le nostre vite hanno preso binari diversi, ma voglio stamparla, questa foto, e nasconderla in un libro noioso che non presterò… Voglio prepararmi una sorpresa per quando in un futuro imprecisato, facendo ordine sugli scaffali quest’immagine mi scivolerà ai piedi, e mi strapperà un sorriso.

Saturday, 29 December 2012

Mangia prega ama

















Un taxi poi… e tutto per me. Non lo prendo mai, il taxi, e non potrò di certo permettermelo spesso nei prossimi due mesi, però questa volta non c’era alternativa. Ho seguito alla lettera le indicazioni ricevute via mail: in aeroporto ho tenuto stretto il mio zaino rifiutando aiuto e risparmiando mancia e mi sono infilata all’ufficio turistico per farmi indicare un taxi regolare. L’indirizzo dell’ostello l’ho scribacchiato dietro al biglietto aereo: lo passo al tassista, che annuisce, mi carica e si fa strada strombazzando nella lunga coda che lascia il parcheggio per immettersi sulla strada principale.

E che taxi poi… chi se lo immaginava che le gloriose fiat Uno venissero in pensione in Indonesia? Questa è la stessa macchina con cui ho imparato a guidare, una vita fa, nei campi vicino a casa: stessi sedili scomodi, stesso cambio a quattro marce, stessi finestrini che si abbassano con la manovella. Anche il colore è lo stesso: bianco e basta. Alla mia macchina però mancava l’autoradio mentre in questa, dal sistema rudimentale di casse aggiunte al magro impianto di serie, escono le frequenze di una stazione radio locale: quando le prime note di “like a prayer” si diffondono nell'abitacolo il tassista, fino a quel momento silenzioso, alza decisamente il volume e la canta nel suo inglese fantasioso.
Sorrido, e ci scambiamo uno sguardo nello specchietto retrovisore. Non avremo una lingua comune, ma sappiamo entrambi che i primi dischi della signora Ciccone sono pietre miliari nella storia della musica pop.
La canterei anch’io, se non fossi così agitata… rimetto in borsa il cellulare che ho cercato invano di rianimare, e abbasso il finestrino.

Il nostro aereo è atterrato sotto a un acquazzone da manuale e l’asfalto è ancora bagnato. Non c’è quel caldo soffocante che mi immaginavo… Ma in fondo cosa potevo immaginarmi?
La mia idea di Bali fino all’anno scorso era sintetizzata dalla minacciosa maschera di legno intagliato che mia zia tiene appesa nel tinello, ingombrante ricordo di un viaggio di nozze col sapore di un’impresa coloniale. Poi è arrivato Hollywood, che in modo brutalmente illusorio mi ha presentato Bali come il posto in cui Julia Roberts, ingrassata a Roma e dimagrita in India trova infine la pace dei sensi con un Javier Bardem abbronzatissimo e proprietario di mezza isola. Mangia, prega, ama: è questo il mio programma di viaggio, anche se la preghiera che tutto vada per il meglio finora ha messo in ombra il resto.
Sono una donna emancipata e non posso permettermi di credere alle favole, ma sarebbe bello se anche la mia Bali, andando contro all’evidenza, non assomigliasse alla periferia intasata di traffico di qualsiasi città.

Sono mesi che mi sento chiedere “Allora, come va con I.?”; le relazioni a distanza non sono facili, nemmeno da spiegare, e negli ultimi tempi gli sguardi condiscendenti dei miei amici mi hanno messo spesso a disagio. Sono mesi che lui è partito e io l’ho seguito come potevo mentre viaggiava tra i fusi orari di Sudamerica e Oceania. Da pendolare dell’amore ora ne sono diventata la cronista: narro le sue gesta evitando di raccontare che ruolo gioco io in tutto ciò. È per rispondere a quest’unica domanda che senza aspettare che il mio ragazzo mi invitasse a raggiungerlo ho comprato un biglietto e dopo 36 ore di viaggio mi ritrovo qui, su questo taxi che comincia a starmi stretto;  l’odore di Arbre Magique appena scartato mi da’ alla testa: un deodorante all’aroma chimico di cocco in un paese esotico, ricoperto di palme… Ma perché?
Abbasso il finestrino: fuori dal taxi scorrono al rallentatore muretti e recinzioni che faticano a contenere una vegetazione che scoppia di salute: come cercare lussureggiante sul dizionario illustrato. Sono piante invadenti, con ampie foglie lucide che arrivano a coprire come a proteggerle delle piccole costruzioni che punteggiano la strada: sembrano delle case in miniatura appoggiate sopra una colonna, decorate con drappi gialli e con vassoi di foglie pieni di fiori. Credo che abbiano qualche significato religioso perché davanti ad ogni casetta brucia un bastoncino di incenso. Vorrei chiederlo al tassista, cosa sono questi altari, e vorrei anche chiedergli quanto ci vorrà ad arrivare a destinazione con questo traffico, ma lui non parla inglese e io non parlo più, che forse per il finto odore di cocco o per la paura di non trovare nessuno ad attendermi faccio fatica a respirare.

Con I. ci siamo sentiti una settimana fa, quand’era ancora in Nuova Zelanda. Sarà stato prematuro, ma gli ho chiesto se aveva capito cosa voleva fare una volta che il suo giro del mondo l’avesse riportato al punto di partenza. Lui si è rabbuiato, ed è riuscito solo a dirmi “non puoi chiedermi di tornare a Francoforte”. Francoforte... una città in cui sono finita per stare con lui, e che sarei pronta a lasciare dopodomani, per stare con lui. 
Sono più di tre anni che saltiamo da un posto all’altro, da un lavoro all’altro per paura di mettere radici, e a me comincia a mancare la terra sotto i piedi.

“Rita’s house?” domanda il tassista indicando un edificio rosa alla nostra destra. Fuori dal cancello c’è I.: ha una maglietta gialla e non l’ho mai visto così abbronzato. Non sarà Javier Bardem, ma nemmeno io sono Julia Roberts... “Stop!” ordino, e quando il taxi si ferma I. mi vede e mi viene incontro.
Pago e raccolgo lo zaino mentre I. si fa sempre più vicino alla portiera. Stringo la maniglia e inspiro forte come prima di un tuffo. Andrà. Tutto. Bene. 

Thursday, 13 December 2012

Dottore del buco


Non appena mi richiudo la porta alle spalle, vengo abbracciata da un enorme mazzo di fiori. Tenendolo stretto, mi faccio spazio a colpi di naso per riuscire a intravedere chi mi sta aspettando in cortile dopo essere stato seduto dietro di me in aula magna mentre discutevo la tesi. Sto spuntando mentalmente la lista delle presenze quando vengo sommersa da un’ondata di facce amiche e ancora impacciata dal cespuglio multicolore che stringo tra le braccia, comincio a distribuire baci.

Paola sembra vittima di una paresi facciale, da quanto sorride; so che i fiori me li ha comprati lei, e so anche perché: dal basso dei miei biechi calcoli costi-benefici, le avevo confessato che trovavo stupido pagare così tanto una cosa che sta già morendo. Le avevo anche confessato che nessuno mi aveva mai regalato fiori, ma che era meglio così, perché tanto non avrebbe avuto senso pagare così tanto una cosa che sta già morendo.
“Ti piacciono?” mi chiede Paola. “Tantissimo” rispondo io, e come sempre con lei non c’è bisogno di mentire. Questo mazzo di fiori, giallo di girasoli e rosso di peperoncini, è irriverente, chiassoso, genuino, e mette di buonumore. Proprio come Paola, con gli indomabili riccioli rossi le improbabili calze a righe.   

Sono venuti tutti per la mia laurea: i miei compagni di università, anche quelli che saranno al mio posto nei prossimi giorni, la mia famiglia, gli amici di lunga data e le colleghe del negozio. Durante le foto di rito,  quando l’intera squadra di calcetto dell’aula studio si cala letteralmente le braghe davanti all'obiettivo di mia sorella, un usciere ci chiede di contenere l’entusiasmo, per rispetto a quegli studenti che devono ancora discutere la tesi.
La Lu mi gira intorno con la macchina fotografica, scattando a ripetizione. Le sequestro la macchina, con la scusa di testimoniare la sua presenza dall'altro lato dell’obiettivo, ma anche con l’intenzione di cancellare tutte le foto in cui sembro un mostro, e mi ritrovo così a ripercorrere l’ultima mezz'ora com'è stata fermata per immagini.

Nella prima foto ci sono io di spalle, a spezzare un semicerchio di cinque professori visibilmente annoiati. Il tavolo che ci separa è massiccio, di legno scuro, solenne come i pesanti tendaggi di velluto che incorniciano le finestre, e le lunghe toghe nere che impacciano i docenti quando si passano la mia tesi. Una fotografia che funzionerebbe benissimo anche in bianco e nero, nel suo essere fuori dal tempo.

La seconda foto invece è presa più da vicino: nell'inquadratura rientriamo di profilo solo io e il mio relatore, che ha assunto lo stessa espressione della gioconda, nonostante si noti che io sto gesticolando risolutamente a caccia di approvazione. Lui è Antonio Scurati, docente di sociologia della comunicazione. Mi era bastato vederlo una volta sedersi sulla cattedra con nonchalance per sceglierlo come relatore. A tutti noi del terzo anno era noto come il killer: si era presentato la prima lezione del semestre vestito completamente di nero, con tanto di dolcevita e guanti di pelle, e il nomignolo gli era rimasto appiccicato addosso tutto l’anno. Un uomo alto, con gli occhi di ghiaccio, poco incline al sorriso, vintage di classe come un cattivo di James Bond.

Nella terza foto è lui a parlare, rivolgendosi al presidente della commissione, mentre io sfoglio la mia tesi come se la vedessi per la prima volta.
Avevo scelto di scrivere dei Radiohead, cercando di fare un parallelo fra i musicisti che avevano accompagnato le rivolte studentesche del ’68 con le loro canzoni di protesta e questa band di Oxford che invece raccontava benissimo lo spaesamento che aveva seguito i tragici fatti dell’undici settembre. La tesi l’avevo intitolata Il rock nella società del rischio, e sentivo che poteva funzionare. Il Professor Scurati non conosceva i Radiohead, ma aveva accettato la mia proposta senza riserve. La sfida consisteva semmai nel presentare il mio punto di vista anche agli altri membri della commissione.

Nella quarta foto, la mia tesi è passata fra le mani del presidente della facoltà, il quale mi lancia uno sguardo da sopra gli occhiali a cui io rispondo mordendomi il labbro: era una domanda retorica la sua, e la risposta campeggiava sulla prima pagina, scritta di mio pugno, eppure era bastato quello per farmi andare nel pallone. Sono ancora frastornata, ma dalla nebbia della frenesia riemergono alcuni dettagli: la discussione… perché ho fatto un discorso così generale e non mi sono invece concentrata sull’analisi dell’album che ben rappresentava le teorie analizzate? Avrei potuto far ascoltare un pezzo di canzone, mostrare l’artwork dei dischi… Sapevo di avere solo una decina di minuti, e quando sono scaduti è dovuto intervenire il relatore a tirare le fila del mio discorso. Me la sono giocata malissimo. Scrivere e riscrivere una cosa per settimane può darti l’impressione di averla imparata, ma comunicarla in modo efficace è un'altra cosa.

Ed ecco la quinta foto, scattata prima del frontale con il mazzo di fiori: io che infilo l’uscita dall’aula magna con lo sguardo basso e le labbra serrate. Espressione che ho  assunto anche in questo momento, concentrata sul display della fotocamera e assente dai festeggiamenti di cui dovrei essere protagonista.

“Tutto bene, Clod?” mi chiede Paola “Beh, potevo prepararla meglio la presentazione”, rispondo, per dare sfogo alla sensazione di malessere che mi ha invaso . “Ma va, scema, sei andata benissimo! E poi fanno così con tutti i professori: fanno finta di ascoltarti, ma in realtà pensano solo a cosa ordineranno per pranzo al ristorante”. Sorrido a Paola, anche se non sorrido dentro: lì dove ci dovrei sentire un’esplosione di sollievo c’è un grumo di rabbia, e non so perché. O forse lo so, anche se non mi va di raccontarmelo… Dopo tre anni di totale anonimato avevo finalmente la possibilità di esprimermi, di raccontarmi, di spiegare perché avevo scelto di trattare un argomento come la musica, e invece mi sono sentita ripetere la lezioncina imparata a memoria. 
Sono una secchiona, lo sono sempre stata, e non ho nemmeno il coraggio di difendere le mie opinioni.

Mentre rimugino sull'occasione sprecata, attraverso il cortile e raggiungo i miei genitori, che in piedi in un angolo osservano le manifestazioni di affetto più svariate, intontiti dal caos che ha preso piede.
Non riesco a collocarli, tra le mura dell’università e forse per questo che non avevo insistito perché venissero oggi: si tratta di una laurea di primo livello in scienze della comunicazione, non certo di un traguardo accademico. Ma alla fine sono contenta che mi abbiano accompagnato: hanno appoggiato –e finanziato- ogni mia decisione, senza mai chiedere un riscontro, e sarebbe stato egoista escluderli da questa grossa parte della mia quotidianità. Mamma, che non mi farebbe mai un complimento in pubblico, si preoccupa dell’aspetto pratico, chiedendomi se ho deciso dove andremo a mangiare, mentre papà mi sorride, sintetizzando così quelle mille parole che non riuscirebbe comunque a pronunciare.
Sono tutti fieri di me, tranne la sottoscritta. Non voglio rovinare la giornata a nessuno, specialmente a me stessa, ma non riesco a rassegnarmi al fatto che avevo una sola possibilità, e non l’ho sfruttata al meglio.

Spiego a mamma che prima di andare a pranzo dobbiamo aspettare il momento della proclamazione, e mi ributto nella mischia. “E adesso cosa farai?” mi chiede mio cugino, e io rispondo “vacanza”, che in fondo è quello che ho fatto finora… A scuola me la sono sempre cavata senza grossi sforzi, e l’università non è stata un’eccezione: ho riempito il mio libretto di esami e non ho perso tempo, ma non mi sono mai messa in gioco davvero. Non ho mai fatto la fatica di mia sorella che sputa sangue su quei modellini di architettura che la tengono in piedi tutta la notte. E se non mi fa piacere quando mi dice che la mia facoltà è facile, è perché so che ha ragione.

Io e altri cinque studenti veniamo convocati nuovamente in aula magna per la proclamazione: i professori ci attendono in piedi davanti al tavolo, e noi ci allineiamo di fronte a loro. Mi laureo con 107 su 110. Un voto senza infamia e senza lode.
 “E adesso cosa farò?” penso, mentre stringo la mano al professor Scurati, tenendolo stretta più a lungo del dovuto mentre cerco nei suoi occhi di ghiaccio l’ombra di una risposta. Ma i suoi occhi mi restituiscono solo la mia immagine riflessa.

Wednesday, 5 December 2012

Claudia, mia sorella

Sto facendo un corso di scrittura. Lo sanno anche i soprammobili di casa mia. D'altronde, ho trovato casa al Pigneto e non posso non avere velleità artistiche, pena lo sfratto.
Pubblico qui tutti i miei compiti a casa, perché sono una che non butta via niente, e così mento a me stessa sul fatto che sto trascurando il blog.

L'esercizio di questa settimane era immaginare il discorso che qualcuno avrebbe fatto al nostro funerale, e io che sono autoreferenziale a priori mi ci sono trovata a mio agio. Ho messo queste parole in bocca a mia sorella, conscia del fatto che in realtà lei sarebbe molto più spietata. Enjoy it!


Claudia ci ha messo una vita a imparare a stare da sola con se stessa senza annoiarsi. Nessuno l’ha potuta accompagnare in quest’ultimo viaggio, e sono sicura che sentirà molto più lei la nostra mancanza che non noi la sua.

Non so quale Claudia vi resterà attaccata alla memoria… Essere sorelle ha significato condurre due esistenze parallele, almeno fino agli anni del liceo: l’anno e mezzo che separa le nostre nascite era troppo breve per separare anche le nostre esperienze. E così, crescendo, di Claudie ne ho conosciute tante, e resterò in compagnia di ognuna di loro.

Mia sorella era un organismo mutevole, ma in ogni sua mutazione rimaneva ancorata ad alcuni punti fissi.

Aveva un profondo senso di giustizia, e da quando si era tatuata un simbolo buddhista su un piede affermava di credere nel karma, che chiamava così per svecchiare l’immaginario cattolico sbandierato da nostra madre. Ma se la ricompensa non arrivava immediatamente, non ci credeva più: se dopo un’ingiustizia subita gli eventi non rientravano in carreggiata, soffriva di un istantaneo calo d’entusiasmo. Era totalmente sprovvista di pazienza, per lei era tutto e subito.
Claudia non aveva mai pensato alla morte, perché la morte non l’aveva mai sfiorata, eppure si sentiva morire ogni volta che le cose non andavano secondo i suoi piani. Fortunatamente, non ne faceva un dramma. Lo sconforto offuscava la sua costante euforia con la stessa rapidità di una nuvola che per un attimo oscura il sole.

Tra i quattro stereotipi alla Sex and the City in cui tutti abbiamo provato a riconoscerci, Claudia, anche se giocava a fare Carrie, era 100% Charlotte, l’inguaribile ottimista. La sua amica Laura, che apprezzava il cinismo di Miranda, dopo un paio di settimane di frequentazione in università l’aveva ribattezzata Pollyanna-di-merda. Mai soprannome fu più azzeccato.

Claudia era empatia pura, e il suo umore la cartina al tornasole dello stato d’animo delle persone a cui era più legata. Era l’unica donna che conoscevo totalmente priva di mistero: era come un fascio di nervi esposto, che rispondeva a qualsiasi stimolo senza potersi controllare.
Azione e reazione, conditi dall’occasionale pentimento.
Ricordo che alle medie, la professoressa di lettere aveva fatto un test a tutta la classe: ogni studente doveva immaginare un deserto e posizionarvi un cubo, una scala, un albero e un cavallo. Questi oggetti simbolici rappresentavano concetti più ampi: il cubo ad esempio era la proiezione della propria personalità e le caratteristiche attribuite a questo solido raccontavano qualcosa della persona che l’aveva immaginato. Il cubo che Claudia aveva immaginato era di vetro. E una Claudia fatta di vetro non poteva nascondere nulla.

Forse per questo ha sempre avuto la lacrima facile, anzi facilissima; piangere era la sua risposta prediletta. Col tempo, aveva affinato la tecnica, e piangeva in modo composto, senza che il naso gocciolasse e senza fare smorfie, ma le lacrime non è mai riuscita a trattenerle. Piangeva di commozione davanti alla bellezza , di frustrazione davanti alla stanchezza, di rabbia davanti a un sopruso, di dolore davanti a una delusione. Piangeva quando non le venivano le parole.
E questo è strano, perché sappiamo tutti che Claudia parlava tantissimo: la comunicazione era un'altra delle sue fisse.

C’è questa foto che è rimasta negli archivi della nostra famiglia: ci sono io in fasce nella culla con gli occhi fissi su mia sorella che in groppa al suo cavallo a dondolo sfoglia un gigantesco libro: l’espressione concentrata e la bocca aperta suggeriscono che mi sta raccontando una favola, metà inventata, metà rimaneggiata con l’aiuto delle figure.

A Claudia le storie sono sempre piaciute. Le piaceva raccontarsi, come faceva nel suo blog, ma le piaceva ancora di più sentirsi raccontare le vite degli altri. Non a caso, i suoi film e i suoi romanzi di riferimento erano quelli che avevano come protagonisti la gente comune, quelli che mostravano lo straordinario racchiuso nel quotidiano. Aveva fatto suo il motto del pianista sull’oceano “non sei fottuto veramente finché hai da parte una buona storia e qualcuno a cui raccontarla”, e per non rimanere mai a corto di storie, faceva un sacco di ricerca sul campo. Era un’appassionata osservatrice del genere umano: giocava a fare sociologia da quattro soldi, e riusciva a essere curiosa senza essere maliziosa.

Sento che mia sorella mi è vicina, che in questo momento ci sta osservando e che avrebbe mille domande da farci. Per questo vi chiedo di farle un regalo: la prossima volta che vi ricorderete di lei, perché non le raccontate qualcosa che vi è successo, così da tenerla occupata con le vostre storie? Sono certa che apprezzerebbe.