Wednesday, 16 November 2011

The world is your oyster

Negli ultimi anni ho avuto la fortuna di conoscere dei viaggiatori.

È facile riconoscerli, da quando la Routard ne ha messo uno in copertina: i viaggiatori hanno lo zaino, i turisti hanno il trolley tagliato su misura per la cappelliera dell’aereo; diversa la forma, la sostanza in entrambi i casi consiste in biancheria, spazzolino da denti e qualcosa per ammazzare i momenti morti.

Ma è ancora più facile approcciarli: i viaggiatori sono quelli che non vedono l’ora di parlarti dei posti che hanno visto, i turisti sono quelli che paragonano ogni posto a casa, e casa, si sa, vince sempre.

E io voglio visitare quei posti attraverso le loro parole, voglio sentirmelo dire ancora che l’India o la ami o la odi, che ascendere Machu Picchu all’alba è un’esperienza mistica e che in Thailandia non ci sono solo i Full Moon party, ma alla fine se non vai per quello allora le spiagge della Cambogia sono meglio.

Su una barca di legno tra Lombok e Flores ho condiviso i 50 metri quadri calpestabili per 3 giorni con 10 viaggiatori, tra cui Karine e Gerald, francesi di Nancy, impegnati in un viaggio di 12 mesi intorno al mondo.

Programmare un viaggio del genere, o semplicemente gestirlo giorno per giorno, è di per sé impresa titanica. Loro, oltre a sopravvivere, sono riusciti a tenere un blog sempre aggiornato. L’ultimo post scritto dall’India annunciava che il loro rientro era questione di giorni. E mentre lo leggevo mi ha preso un magone manco fossi io quella che aveva il biglietto di ritorno.

Un viaggio così è fatto della stessa materia di cui son fatti i sogni. E per metabolizzare un anno di viaggio ci vuole tanto tempo, ma soprattutto tanto sangue freddo.

Io l’ho provata nel mio piccolo, questa transizione: sei contento di essere a casa, di dormire nel tuo letto, di rientrare in possesso del tuo guardaroba dopo settimane di infradito e t-shirt maltrattate, di mangiare il tuo piatto preferito cucinato da mammà, che ti vede deperito, di rivedere i tuoi amici, tu abbronzato e loro con i capelli diversi da come te li ricordavi, di essere per cinque minuti al centro dell’attenzione quando rispondi alla domanda “qual è il posto più bello che hai visto?”, di riordinare le foto e le idee…

Ma poi, inevitabilmente, scopri che tutto il tuo viaggiare ti ha riportato solo al punto di partenza. Che non ti sei mosso di un millimetro. Che hai provato ad allontanarti dalla tua realtà, ma alla fine sei caduto di nuovo tra le sue braccia.

Come la laurea: ti sembra di aver raggiunto un obiettivo e invece, mentre eri impegnato a crescere in sapienza, età e grazia, c’era la vita che ti aspettava. Granitica. Immobile.

Perché viaggiare, allora? Perché investire tanto tempo, energie e soldi quando per vedere il mondo basta una connessione internet?

Me lo sono sentito chiedere lo scorso giugno, quando a una festa ho rivisto vecchie conoscenze che mi hanno presentato gente trasferitasi a Francoforte mentre io ero in viaggio. Uno dei nuovi arrivi, per nulla impressionato dai miei racconti ma senza ombra di retorica mi fa: “perché ci sei andata?”.

La domanda che non ti aspetteresti mai, a cui ho deciso di rispondere: “perché è un modo per scoprire la bellezza dove non ce lo aspettiamo”.
O questo almeno è come suonava alle mie orecchie. In realtà, ebbra di improvvisati cocktail, penso di aver sbrodolato un sognante “cause it’s awesome, man!”.

Perché la bellezza non viene assimilata solo attraverso gli occhi, ma arriva come un pugno nello stomaco, e ti lascia così, inerme ma avvolto in un profondo senso di gratitudine per esserne testimone.

E perché questo mondo, nonostante gli acciacchi, è ancora un posto meraviglioso in cui vivere. E viaggiare può aiutare a ricordarcelo.

Sunday, 6 November 2011

Indian Summer


È il 6 di novembre, e sono seduta sul lungofiume.
Mi sono ampiamente rimproverata di essere uscita di casa senza macchina fotografica. È una di quelle giornate con la luce orizzontale, che disegna ombre lunghissime e fa brillare l’acqua del fiume, i vetri delle finestre e i sorrisi.

È la domenica di una settimana di transizione che mi ha regalato piccoli momenti di umanità.

Come quando martedì sono andata a cancellare il canone della TV e l’impiegata, venuta a sapere che sto per lasciare Francoforte, mi ha confessato che rimpiange ancora di non essere andata negli Stati Uniti quando da studente ne aveva avuto la possibilità, e poi, stringendomi la mano e guardandomi negli occhi, mi ha augurato buona fortuna. Credendoci davvero.

Come quando mercoledì sera il padrone del ristorante per cui ho lavorato ha offerto una pizza a me e ai miei due amici, siglando il tutto con una stretta di mano e la dichiarazione “Claudia è la cameriera più brava che abbia mai lavorato qui”. Ero andata a trovarlo sperando avesse racimolato i soldi che tuttora mi deve. Ma questa è un’altra storia…

Come quando giovedì ho postato su facebook che la mia stanza sarà disponibile da fine mese, cercando un amico-di-amici senzatetto che mi risparmi il casting di perfetti sconosciuti, e il mio coinquilino mi ha chiesto (per iscritto, su facebook) di riconsiderare Francoforte, e che, nel caso avessi già deciso, gli sarei mancata.

Come quando venerdì sono andata a ritirare il certificato del corso che tanto mi ha fatto penare nelle ultime quattro settimane, e ho celebrato l’averlo passato con un caffè e un muffin al bar che mi ha rifornito di massicce dosi di caffeina per tutto il mese, sponsorizzando così le mie imprese accademiche. Il barista ha trasformato il più economico dei caffè in un cappuccino senza trasformarne il prezzo. E mi ha pure messo due timbri sulla tessera fedeltà. Alla faccia tua, Starbucks!

Come quando ieri sera (o era stamattina?) sulla strada di casa con tre amici alla spasmodica ricerca di un “felafel della buonanotte”, siamo incappati in un gruppo di spagnoli bloccati su un’isola spartitraffico come su una zattera in mezzo al mare tempesta. È bastato dargli il nome di un club ancora aperto, indicazioni su come raggiungerlo e un po’ d’erba da fumare nel tragitto, per capire come deve sentirsi Babbo Natale la mattina del 25.

Vivo nel favoloso mondo di Amélie, o almeno in un remake in salsa krautrock. Speriamo non sia un porno.

Ho deciso di lasciare Francoforte. E la città sembra intenzionata a farmene pentire.

Questo angolo di mondo, che per tanti è solo ‘banche, fiera e aeroporto’, è un posto dove sono stata felice.

La prima volta che ci ho messo piede ero venuta a trovare il mio ragazzo. Faceva un freddo che ti mangiava la faccia, ai mercatini di Natale. Da allora sono passati 3 anni, e molte cose sono cambiate: quello che era esotico e pittoresco ora è casa, una città che sembrava inospitale è diventato il posto dove vivono i miei amici e la persona che avrei continuato a seguire in capo al mondo ha deciso di proseguire il viaggio da solo.

Tornerò a casa. Il sole sta scomparendo dietro ai grattacieli e l’album dei Fleet Foxes che ho nelle orecchie è sull’ultima traccia.

Non c’è momento migliore che una dolce sera d’autunno per dirsi addio.

Wednesday, 5 October 2011

Cosmopolitans


Eccomi, a 29 anni suonati, di ritorno dall’ennesimo primo giorno di scuola. Ho lo zainetto, giuro. Faccio ricreazione. E ho dei compagni di classe. Che sono solo quattro, ma anche a selezionarli attraverso un casting non sarebbero saltati fuori così. Così disfunzionali. Come me, d’altronde.

E lo so che non è professionale, ma penso che qui ed ora, per fare un po’ di esercizio di scrittura, li prenderò per il culo. Solo un po’. Poi magari, quando col passare dei giorni li conoscerò meglio, potrò sputtanarli a dovere.
E sono sicura che, nonostante ciò, mi ci affezionerò pure…


Mi affezionerò a Jon, militante cristiano che condivide con la sua città natale, Orlando - ma per quelli che non ci sono nati, le quattro case costruite ai confini di Disney world - lo stesso inquietante aspetto di perdita di innocenza.

Come Neverland, dove quel mattacchione di Michael Jackson giocava a fare Peter Pan, con tanto di pigiama party organizzati per i bambini sperduti.

Sposato con una perfetta tedesca bionda, con cui ha messo al mondo una perfetta bambina bionda, battezzata col nome di Joy, Jon ha un aspetto talmente innocuo che mi viene naturale stargli alla larga.
È la quintessenza della solidarietà. E tutto questo amore ingiustificato verso il prossimo desta sempre sospetti.

Film preferito di Jon? Non Jesus Christ Superstar, pellicola fricchettona dalle sfumature homo, bensì il machissimo il Padrino. Non fa una piega.


Mi affezionerò a Sandra, una nerd assoluta, che da sempre non tocca un goccio d’alcool, non perde un capitolo di una saga e non manca una convention di Star Wars, dove si presenta nell’impeccabile tenuta da Jedi. Davvero. Fa fede la foto del profilo di facebook.


Mi affezionerò a Stefanie, tedesca e segretaria (lampanti entrambe le caratteristiche), che sta per trasferirsi nella nuova casetta con il suo ragazzo e ha scelto di fare questo corso per cercare lavoro nella stessa fabbrichetta del suo ragazzo. Ragazzo che a dopo cena deve sorbirsi le prove generali della lezione che verrà somministrata il giorno seguente alle cavie che ci sono state assegnate.

Ho già detto che Stefanie è fidanzata? Felicemente, a quanto pare…


E forse mi affezionerò anche a Elaine, la cheerleader. Una che alla domanda “da dove vieni?” risponde “da tanti posti…" (i puntini di sospensione si sentono, eccome).

Cosmopolitan, come il cocktail preferito dalle carampane di Sex and the City, di mamma tedesca e papà portoricano, cresciuta tra la Germania e Virginia e da un paio d’anni trasferitasi a Amsterdam.

Cittadina del mondo auto-dichiarata, ha confessato di non essere mai stata a Londra perché non le interessa visitare paesi in cui, una volta atterrata e messo piede sulle scaletta dell’aereo, non venga investita da una folata di “cultural clash”.

Americana di formazione, ha passato i 20 minuti di lezione a sua disposizione a dispensare "good job!!!" (i punti esclamativi si sentono, eccome) agli studenti, con la stessa intonazione che si usa con il cane di casa quando si arrende a fare pipì sul giornale appositamente dispiegato in un angolo.

Ah, e dice "that's so cute" almeno un paio di volte al minuto.
Se vogliamo fare i pignoli, dice “owwww, that’s SO cute”, accompagnato da un broncio sbarazzino.
E ovviamente lo dice senza cognizione di causa, probabilmente in preda a ipnosi indotta dalla sua stessa voce.

Curioso, carina non è assolutamente l’aggettivo che userei per descrivere lei.

Verrà mai il giorno in cui smetterà di sbatterci in faccia il suo splendente, perfetto sorriso? O la sua è davvero una paresi facciale?


Dalle aule della scuola dove si impara a insegnare, per ora è tutto, ma spero di potervi offrire presto dei succosi aggiornamenti. Anzi, prometto di farlo se, a forza di vocine e mossette, non trasformano anche me in un Teletubby.

Monday, 5 September 2011

Taxi driver


Che poi secondo me i tassisti, ammesso che non siano già folli quando scelgono di guadagnarsi da vivere stando seduti otto ore al giorno in mezzo al traffico, a fare 'sto lavoro matti lo diventano davvero.

Non tutti si trasformano in ex marine assetati di violenza come Robert De Niro in Taxi Driver - You talkin' to me? You talkin' to me? - ma sì, insomma, poco ci manca.

Non è che ce l’ho con la categoria sindacale: quello che scrivo è il risultato di una ricerca sul campo in cui la cavia ero io, e non un topone a pelo lungo al sicuro nel suo bel laboratorio.

Premessa: prendo il taxi controvoglia e solo quando sono obbligata (gli scatti del tassametro, per me che uscire a cena significa concedersi un kebab al chiosco qua sotto, mi fanno venire la tachicardia), per cui i soggetti sotto osservazione sono i tassisti che fanno il turno di notte, quelli pericolosi per davvero.

Ed è vero che il taxi non lo prendo spesso, ma ogni volta che faccio conoscenza con il tassista mi viene l’istinto di aprire la portiera e lanciarmi dall’auto in corsa, tanto il terrore di essere capitata tra le grinfie di un serial killer.

Ho incontrato l’esemplare che vuol fare lo splendido: appena sono salita e gli ho chiesto, in tedesco, di portarmi in stazione, e lui mi fa “francese?”.
Lusingata, ma anche no. Dovresti sentire come pronuncio “baguette”.

Dopo uno scambio di battute finalizzato a rompere l’imbarazzato silenzio dell’abitacolo – da dove vengo io, da dove vieni tu, perché a Francoforte… - al terzo semaforo l’intraprendente mi aveva già chiesto il numero di telefono.
Lusingata, ma anche no. Nonostante l’abbia intuito anch’io che siamo fatto l’uno per l’altra.

Ma l'esperienza irripetibile l'ho vissuta con il melomane alla guida: questo non aveva nessuna intenzione di fare conversazione; appena assimilato l’indirizzo, ha acceso la radio, a un volume decisamente superiore al sottofondo.

Musica classica. Mozart. Il Requiem di Mozart: quello che tuona “Dies irae, dies illa solvet saeclum in favilla, teste David cum Sybilla”. E devo dire che, alle 3 e mezza del mattino, ascoltarlo mentre si guarda scorrere una città addormentata fuori dai finestrini abbassati per fare entrare la brezza estiva, beh, mi ha fatto un certo effetto.
Ero talmente stordita dall’atmosfera surreale che non mi sono ritrovata a fare l’inevitabile accostamento con l’ossessione di Alex di Arancia Meccanica per Beethoven.

Finché, a un semaforo rosso, l’incantesimo si rompe: ci si affianca un altro taxi, anche questo con i finestrini abbassati e con la musica a esclusivo appannaggio dell’autista che, mentre va a caccia di clienti, si lascia pettinare dai bassi di un pezzo Reggaeton.

Il mio tassista non può nascondere il fastidio provocato dalla palese ignoranza musicale del collega: scuote la testa e aziona l’alzacristalli, come a voler preservare l’onore di Wolfgang Amadeus.

Un uomo che non si vuole arrendere al declino della civiltà occidentale non può che ispirarmi simpatia. E quando arriviamo a destinazione gli vorrei lasciare, oltre ai 10 euro (per 3 chilometri, ma siamo impazziti?) un trolley pieno di solidarietà.

A quanto pare anche i tassisti, oltre all’ulcera, hanno un cuore.

Sunday, 24 July 2011

My Sharona


Ci sono persone che hanno la capacità di farmi sentire inadeguata. Costantemente inadueguata.
Persone al cui cospetto l'istinto mi ordina di stendermi a terra, prona, a pelle di leopardo, e da quella scomoda posizione implorarle con occhio remissivo che mi calpestino.

Queste persone hanno un ascendente talmente forte su di me che arrivo a giustificarle in qualsiasi situazione, anche quando, piú o meno inconsapevolmente, mi fanno del male.

Una di queste persone si chiama Sharona, newyorkese di nascita ma trasferitasi a Francoforte dopo il matrimonio e madre di tre bambini a cui ho fatto da babysitter per tre mesi al mio arrivo in Germania.

Sharona é viziata a priori, ma non ha gli strumenti per rendersene conto: ai suoi occhi il suo atteggiamento capriccioso non é sintomo di egoismo perchè nel piccolo mondo dorato su cui regna incontrastata tutte le persone che incontra nel corso della giornata respirano essenzialmente per soddisfare ogni suo desiderio.

L'universo é sharonacentrico. É sempre stato così, quello spostato di Galileo aveva torto marcio.

Questa persona mi ha accompagnata per mano sull'orlo dell'esaurimento nervoso: in seguito a un mio celebre abbandono di campo, quando le ho consegnato la scarpa che non ero riuscita a infilare sul piede della figlia, nascostasi sotto il divano dopo un inseguimento durato una ventina di minuti, sono stata definita di psiche fragile, incline agli scatti d'ira e in ultima analisi pericolosamente violenta. Ovvio che non mi ha fatto piacere sentirmelo dire, ma dal momento che la diagnosi arrivava da lei, la mia nemesi, invece che pensare che avesse preso un abbaglio da manuale, in quel momento mi sono sentita davvero psicolabile, incline agli scatti d'ira e, in prospettiva, violenta.

Quante volte avrei voluto andarmene sbattendo la porta, lasciando lei alle prese con il Play-doh prima masticato poi calpestato sul tappeto bianco, ma non ci sono mai riuscita. Tutta colpa del mio spirito da crocerossina che mi ha fatto inghiottire un sacco di bile.
Volevo solo rendermi utile, anelavo a un "grazie" che veniva pronunciato solo in occasione di catastrofi evitate all'ultimo secondo.

Non so cosa mi aspettassi: in fondo, quanto spesso il capo ringrazia uno dei suoi impiegati? E Sharona era il mio capo: mi pagava 270 euro al mese per 6 ore di lavoro al giorno, 6 giorni la settimana. E pensava di farmi un favore, anzi, di regalarmi un sogno.

Perchè Sharona non sa quanto costa l'affitto di un appartamento nel mondo reale, non sa che non tutti sono nati in famiglie che commerciano in diamanti, dove i soldi sono solo un optional, dato che tutto ciò che rientra nella categoria necessario (casa, cibo, vestiti, riscaldamento) é di serie.

Quando sono stata messa per l'ennesima volta di fronte alla mia inettitudine, ho convocato lei e il marito e ho rassegnato le mie dimissioni. Loro hanno ascoltato composti e sono riusciti ancora una volta a spiazzarmi quando, trattenendo le risate, mi hanno detto "ma Claudia, noi non ci aspettiamo cosí tanto da te...", come se avessi peccato di presunzione a sentirmi all'altezza di badare ai loro figli.
Un coppino morale di queste proporzioni é riuscito a aprirmi gli occhi sull'intera faccenda e sulla sua insensatezza. Non ho ritirato le dimissioni, e due settimane più tardi ero di nuovo una persona libera.

Ogni tanto vado ancora a fare un po' di ore come babysitter, perchè sento la mancanza dei tre mostriciattoli. Naturalmente, quando posso presentarmi al suo cospetto lo decide lei. Settimana scorsa la richiamo, dopo aver ascoltato un messaggio che mi aveva lasciato in segreteria, a metà fra lo scocciato e il disperato: le spiego che il week-end non sarò a Francoforte ma a Amsterdam per un addio al nubilato, e che di conseguenza non potrò darle una mano; aggiungo che sono parecchio impegnata al momento e mentre la aggiorno sui miei progetti lei mi interrompe:

"Allora sabato non puoi?"
"No, mi spiace, sono via ma..."
"Non devi giustificarti con me, e ora scusa che ho un ospite e lo sto facendo apettare
"..."

"I am sorry" sussurro nella cornetta dopo che lei mi ha appeso in faccia e mi accorgo di essere stesa a terra, prona, a pelle di leopardo.

A quanto pare non sono poi così libera.

Sunday, 3 July 2011

Little Italy


All’ora di punta, lo chef esce dalla cucina per due ragioni: quando deve farsi bello con clienti di riguardo, o quando s’incazza. Io l’ho visto precipitarsi in sala e rivolgendosi alla moglie sbottare: “Ti ho detto di non prendere più ordinazioni per il menu tre, Il pesce l’abbiamo finito! Che ci devo mettere nei piatti, il cazzo mio?” e, senza attendere risposta, tornare ai fornelli.

Sto facendo un po’ di ore in un ristorante italiano, con 10 anni di ritardo sui miei coetanei che passavano le estati come camerieri a Londra, ma spinta dalla stessa motivazione: imparare la lingua.

Ho puntato su un ristorante italiano e mi sono trovata a districarmi fra pugliese -mi esci un paio di sedie dal retro?-, e tedesco, per comunicare con il piastrellista rumeno riconvertito a barista e soprattutto con i clienti.

Quando non capisco, invece di un semplice “wie, bitte?”, che corrisponde al nostro “come, scusi?” io dico testualmente “non ho capito” come ad ammettere candidamente che, oltre a pronuncia e vocabolario, deficito anche di comprendonio.

Ma prima ancora della lingua, sono altri aspetti che abbassano drasticamente le mie probabilità di diventare una brava cameriera… È un miracolo se ogni volta che sparecchio non infilzo un cliente con posate che scivolano dai piatti, o se con il guazzetto dei frutti di mare non gli faccio la doccia.

Sono maldestra o, come mi chiama affettuosamente il mio ragazzo, sono Edward Scheissehand.

Per i clienti più affezionati probabilmente sono “quella analfabeta che prende a gomitate le bottiglie”.

Ciononostante, dopo il periodo di prova non sono stata invitata a sparire dalla circolazione -“se sei andata bene tu, che problemi hanno tutti gli altri?” chiosa il poeta che mi ha definito manidimerda- e in segno di fiducia mi è stato chiesto di lavorare di sabato sera.

Il sabato sera il ristorante viene trasformato in un karaoke: al microfono membri della comunità italiana di Francoforte, impegnati in struggenti interpretazioni di brani di artisti che tengono alta la bandiera del nazionalpopolare; appollaiati sugli sgabelli del bar, i figli adolescenti che brillano per cattivo gusto: tra Nike luccicanti, colletti alzati e cappellini con visiere orientate come parabole, riescono a essere fuori moda anche a confronto di tamarri stagionati.

L’organizzatrice dell’evento, impossibilitata a servire ai tavoli in tutto lo splendore di permanente fresca, french manicure e tacco dodici, senza attendere la benedizione del proprietario mi carica di vassoi con l’ordine di dispensare prosecco gratis a tutti i presenti.

Il sabato sera qui è volgare come il ferragosto al Billionaire.

Mi sono tornati alla mente quei matrimoni di cugini lontani a cui sono stata da bambina, quando dopo caffè e ammazzacaffè il tastierista si mette a cantare i soliti dieci pezzi –i Nomadi sempre a dominare la playlist- finché zie ubriache scendono in pista e ballano scalze “Maracaibo”.

Ma mi sono ricordata anche della messa di Pasqua dell’anno scorso, cui ho partecipato per maturare punti paradiso: varcata la soglia della chiesa italiana di Francoforte sono stata assalita da un déjà vu causato probabilmente dal fatto che i fedeli ricordavano incredibilmente gli invitati al matrimonio della figlia di don Vito Corleone.

Tutto questo è "troppo italiano", per dirla alla Stanis LaRochelle.

Come quando a New York finisci per caso a Mulberry street, cuore di Little Italy, e ti viene un po’ di magone perché è anche grazie a certi stereotipi che siamo diventati una barzelletta…

O come quando al corso di tedesco una mia collega greca ha fatto una dichiarazione d’amore verso l’Italia e la nostra insegnante le ha chiesto se amasse pure Berlusconi…

Non sono una grande fan dell’italianità esibita come il Rolex, ma amo il mio paese, e vorrei solo trovarmi nella situazione di non doverlo continuamente giustificare.

Friday, 10 June 2011

Ich liebe meine Mutti


Oggi è il compleanno di mia mamma. Mia mamma si chiama Maria, detta LaMery, con tanto di articolo perché, come dicono a Roma “è un taijo!”, e si merita un nomignolo.

È l’ennesimo compleanno che ci vede separate, e non è un dramma, dato che in realtà non l’abbiamo mai festeggiato come vuole la tradizione, con la torta, i fiori, il regalo… Non è che sono una stronza insensibile: semplicemente è così che vanno le cose quando cresci in una famiglia che non ha mai dato grossa importanza alle ricorrenze.

Per esempio, quando io e mia sorella, verso la fine delle elementari, siamo state messe davanti alla dura realtà e alla conseguente inverosimiglianza di una santa che passasse a portare i doni a noi e a tutti i bambini di Brescia, Bergamo e Verona nella notte tra il 12 e il 13 dicembre, abbiamo automaticamente smesso di ricevere regali, almeno in forma tradizionale.

Abbiamo provato a protestare, adducendo come prova schiacciante l’esempio dei nostri compagni di classe che venivano ricompensati ogni volta che a scuola prendevano un bel voto o quando a cena mangiavano le verdure senza farsi implorare.

Ma nulla da fare, LaMery non ha mai fatto una piega:

“Per il compleanno vi ho pagato il corso di nuoto”
“Il compleanno di chi?”
“Il vostro”
“Ma tra il mio compleanno e quello di Luisa ci passano 6 mesi!”

“Hai preso ottimo nella verifica di scienze sociali? Brava. Ti sei proprio meritata il pacco di mutande nuove che ti ho messo nel cassetto”

“Quest’anno non chiedetemi niente che vi abbiamo messo l’apparecchio. A tutte e due”
(sai che gioia, quasi più che uscire di casa nelle gelide sere d’inverno per andare in piscina)

In realtà, anche quando ho iniziato ad avere liquidità, per quanto piccola, non ho provato a invertire la tendenza: il problema è sempre stato trovare un regalo che potesse essere apprezzato da una persona che ha lo stesso attaccamento alla sfera materiale di una suora di clausura.

Mia mamma è più da biglietto che da pacchetto, e apprezza un oggetto regalato solo sulla scala dell’utilità: nel suo microcosmo ci sono le cose che le servono e un sacco di tàter (bergamasco per cianfrusaglie) che occupano solo spazio.

Le poche volte che le ho chiesto se desiderasse qualcosa di regalo (a mia mamma è estraneo pure il concetto di sorpresa, quindi tanto vale andare sul sicuro) mi ha risposto: “il regalo più grande che puoi farmi è essere felice. E fare la brava”.
Non so se le due cose vanno a braccetto, ma ogni giorno cerco di tener fede a questo proposito. E spesso ce la faccio senza impegnarmi nemmeno tanto.
Bastava dirlo, mamma!

Comunque oggi le ho telefonato per farle gli auguri e lei non ha perso occasione per ricordarmi che alla mia età lei era già sposata da un paio di mesi e stava per mettermi in cantiere. Poi, con nonchalance mi ha chiesto se avessi deciso cosa fare nella vita. Così, come se mi stesse chiedendo cosa avessi mangiato la sera prima.
Me lo chiede sempre, e penso che quando avrò un qualsiasi tipo di risposta pronta la terrò per me per evitare di sentire un tonfo dall’altra parte del filo.

Rispondo “macché”, per risparmiarle un principio d’infarto, e penso alla pazienza infinita e all’amore incondizionato che mi dimostra ogni giorno che passa.
Perché dire: “non so dove sarei, se non fosse per mia mamma” non è retorica, è la consapevolezza che se non fosse per lei, io non sarei nemmeno qui a tesserne le lodi; è lei che mi ha messa al mondo, mi ha cresciuta e da quando ho dimostrato un livello sufficiente di indipendenza mi ha sempre lasciata libera di fare tutto quello che mi passava per la testa, senza darmi consigli non richiesti, senza cercare di farmi rinsavire e senza giudicarmi. Mai.
E con mai intendo fin dall’inizio, non solo da quando ha capito che ormai farmi ragionare era partita persa.

Mia mamma è come il suggeritore a teatro: se ne sta nella buca, quasi impaurita a salire sul palco della mia vita, ma è solo grazie alle sue imbeccate che io ho il coraggio di recitarla, questa commedia.

Mia mamma è Mickey quando io voglio fare Rocky: mi tampona le ferite quando torno all’angolo ridotta a una zampogna, e ogni volta che serve mi fa un’iniezione di autostima. Se me lo dice lei, mi convinco di potercela fare. In ogni situazione. Con lei intorno al ring posso stendere tutti gli Ivan Drago che vogliono spiezzarmi in due.

Chissà cosa pensava LaMery mentre mi vedeva crescere… Non so se avesse piani su di me, ma si sarà sicuramente chiesta se i tratti del mio carattere che si andavano definendo rivelavano quello che avrei potuto fare o diventare da grande.
E poi come me, si è lasciata sedurre dall’effetto sorpresa provocato dai repentini cambi di rotta che brucianti passioni quasi quotidiane hanno sempre imposto sulla mia vita.
Magari lo sa, quello che avrei potuto, o dovuto fare. Ma non me l’ha mai suggerito. E io continuo a fare quello che avrei voluto fare.

Non so se avrò mai successo nella vita, e non il successo come si è finiti a definirlo, tutto fama e soldi, ma se mai riuscirò a realizzare uno dei miei sogni, dedicherò tutta l’euforia alla persona che me l’ha permesso.

Non sarà scenografico come ricevere un Oscar, scoppiare in lacrime sugli scrosci degli applausi, raggiungere il microfono tirandosi dietro metri di seta trasformati in un Valentino vintage, e iniziare il discorso con “I would like to thank my mum…”, ma penso che LaMery lo apprezzerà comunque.