Sunday 3 July 2011

Little Italy


All’ora di punta, lo chef esce dalla cucina per due ragioni: quando deve farsi bello con clienti di riguardo, o quando s’incazza. Io l’ho visto precipitarsi in sala e rivolgendosi alla moglie sbottare: “Ti ho detto di non prendere più ordinazioni per il menu tre, Il pesce l’abbiamo finito! Che ci devo mettere nei piatti, il cazzo mio?” e, senza attendere risposta, tornare ai fornelli.

Sto facendo un po’ di ore in un ristorante italiano, con 10 anni di ritardo sui miei coetanei che passavano le estati come camerieri a Londra, ma spinta dalla stessa motivazione: imparare la lingua.

Ho puntato su un ristorante italiano e mi sono trovata a districarmi fra pugliese -mi esci un paio di sedie dal retro?-, e tedesco, per comunicare con il piastrellista rumeno riconvertito a barista e soprattutto con i clienti.

Quando non capisco, invece di un semplice “wie, bitte?”, che corrisponde al nostro “come, scusi?” io dico testualmente “non ho capito” come ad ammettere candidamente che, oltre a pronuncia e vocabolario, deficito anche di comprendonio.

Ma prima ancora della lingua, sono altri aspetti che abbassano drasticamente le mie probabilità di diventare una brava cameriera… È un miracolo se ogni volta che sparecchio non infilzo un cliente con posate che scivolano dai piatti, o se con il guazzetto dei frutti di mare non gli faccio la doccia.

Sono maldestra o, come mi chiama affettuosamente il mio ragazzo, sono Edward Scheissehand.

Per i clienti più affezionati probabilmente sono “quella analfabeta che prende a gomitate le bottiglie”.

Ciononostante, dopo il periodo di prova non sono stata invitata a sparire dalla circolazione -“se sei andata bene tu, che problemi hanno tutti gli altri?” chiosa il poeta che mi ha definito manidimerda- e in segno di fiducia mi è stato chiesto di lavorare di sabato sera.

Il sabato sera il ristorante viene trasformato in un karaoke: al microfono membri della comunità italiana di Francoforte, impegnati in struggenti interpretazioni di brani di artisti che tengono alta la bandiera del nazionalpopolare; appollaiati sugli sgabelli del bar, i figli adolescenti che brillano per cattivo gusto: tra Nike luccicanti, colletti alzati e cappellini con visiere orientate come parabole, riescono a essere fuori moda anche a confronto di tamarri stagionati.

L’organizzatrice dell’evento, impossibilitata a servire ai tavoli in tutto lo splendore di permanente fresca, french manicure e tacco dodici, senza attendere la benedizione del proprietario mi carica di vassoi con l’ordine di dispensare prosecco gratis a tutti i presenti.

Il sabato sera qui è volgare come il ferragosto al Billionaire.

Mi sono tornati alla mente quei matrimoni di cugini lontani a cui sono stata da bambina, quando dopo caffè e ammazzacaffè il tastierista si mette a cantare i soliti dieci pezzi –i Nomadi sempre a dominare la playlist- finché zie ubriache scendono in pista e ballano scalze “Maracaibo”.

Ma mi sono ricordata anche della messa di Pasqua dell’anno scorso, cui ho partecipato per maturare punti paradiso: varcata la soglia della chiesa italiana di Francoforte sono stata assalita da un déjà vu causato probabilmente dal fatto che i fedeli ricordavano incredibilmente gli invitati al matrimonio della figlia di don Vito Corleone.

Tutto questo è "troppo italiano", per dirla alla Stanis LaRochelle.

Come quando a New York finisci per caso a Mulberry street, cuore di Little Italy, e ti viene un po’ di magone perché è anche grazie a certi stereotipi che siamo diventati una barzelletta…

O come quando al corso di tedesco una mia collega greca ha fatto una dichiarazione d’amore verso l’Italia e la nostra insegnante le ha chiesto se amasse pure Berlusconi…

Non sono una grande fan dell’italianità esibita come il Rolex, ma amo il mio paese, e vorrei solo trovarmi nella situazione di non doverlo continuamente giustificare.

No comments:

Post a Comment