Tuesday, 31 January 2012

Disoccupati anonimi

Sono Claudia, ho quasi 30 anni e sono disoccupata. E questo non mi definisce, anche se devo ammettere che a parte il nome, gli altri due aspetti danno un quadro abbastanza chiaro della situazione.
È un dato di fatto, e finora sono riuscita a non farne un dramma: essere disoccupata e non sentirlo, forse perché, in risposta a un istinto di conservazione diventato prepotente in un momento così incerto della mia esistenza, sono riuscita a stabilire una routine.

Mi sveglio quando la Gilda, il cocker di casa, appoggia il suo naso umido contro il mio, come a controllare che respiri ancora, confusa dall’assenza di logica: “com’è che al piano di sotto si fa colazione, c’è cibo sul tavolo e questa non si muove dal letto?”; allora mi alzo, e ogni mattina mi concedo il lusso di bere il caffè in pigiama, leggendo un libro e senza controllare continuamente l’orologio. Poi mi lavo la faccia, accendo il computer e vado online a fare il punto della situazione. Fino all’ora di pranzo leggo e rispondo a mail, annunci o compilo form. Cazzeggio anche parecchio su Facebook, confesso, ma quello si fa anche in ufficio. Il pomeriggio lo inizio con i Simpson (l’unico programma guardabile) e quando spengo la TV cerco di trovare qualcosa da fare che non mi obblighi a stare di nuovo seduta davanti a uno schermo. Tra i progetti più riusciti ho incollato foto a un album, creato spille e riordinato la soffitta. Un paio di volte a settimana aiuto un liceale a preparasi a verifiche e interrogazioni.      
A singhiozzo ma comunque da quasi tre mesi, questa è la mia vita. 

Non sono una persona metodica, ma stavolta un po’ d’ordine me lo sono dovuta imporre: ho un file Excel  su cui riporto con rigore da ragioniere nome dell’azienda, indirizzo del sito, e-mail del contatto e data in cui ho inviato il CV. Recentemente ho aggiunto la colonna “risposta” e lì è tutto un copia e incolla di “no grazie”.

Ieri, con il rigore scientifico che questo schema mi impone, mi sono messa a contare le richieste che ho inviato da ottobre a oggi. Sono 179, una cifra che, sommata ai curriculum consegnati a mano in scuole e studi di Brescia e Milano, sfonda il ragguardevole tetto dei 200.
200 CV che corrispondono a 200 potenziali posti di lavoro, e in tutta risposta due contratti consegnati per presa visione e non controfirmati, un paio di trattative in atto, una ventina di repliche negative ma incoraggianti e il resto inghiottito dall’oblio.  
E anche se solo il 10% di questo numero che continua a sembrarmi importante riguardava posizioni aperte, anche con l’autocandidatura non mi sembra di aver fatto improvvisate.

La legge dei grandi numeri qui non si applica: non esiste una percentuale di successo a cui aggrapparsi aumentando esponenzialmente il numero dei contatti. Forse alcune delle mie richieste sono state un po’ azzardate, per posizioni che non rispecchiavano quelle da me occupate in passato, ma mi piaceva aumentare il fattore casualità nell’equazione.  
In generale però, la mia ricerca è stata guidata dal fatto che io mi ci vedevo alla scrivania di ognuno di questi uffici; ogni lavoro per cui ho fatto richiesta me lo sono provato addosso, come un paio di jeans.
Tutti siamo disposti a pagare caro quel paio di jeans che ti calzano come un guanto a cui saremo eternamente grati per  averci salvato in innumerevoli occasioni in cui nessuna mise sembrava funzionare; ma se li troviamo nei saldi, possiamo farci andar bene anche un paio di jeans che vanno un po’ stretti, o magari quelli che non fanno un grande favore alla figura, ma che si abbinano all’intero guardaroba.

Non trovo lavoro e non capisco dove sia il problema: peccherò di presunzione, ma non è solo colpa mia. Non posso essere l’unica responsabile. 
Ho letto e riletto il mio CV, e la mail che lo accompagna, drammatizzando il distacco da quelle parole di cui so di essere l’autrice: sono entrambi studiati, rielaborati e ripuliti fino alla nausea per raggiungere il giusto equilibrio di sintesi e leggerezza, ottenuto con ingredienti quale foto segnaletica, font sbarazzino, dettagli personali e personalizzati.
No, il problema non sono io. Pur con i miei evidenti limiti, il mio navigare a vista in campo professionale, il mio totale disinteresse (o forse disillusione) riguardo a prospettive di carriera, non sono l’ultima degli stronzi.
Sono un essere pensante, bisognoso di contatto umano e con un disperato bisogno di sentirsi utile.   

Puntando proprio sul fattore umano, mi sono prefissa di presentarmi in carne ed ossa in tutti gli uffici che è possibile raggiungere con una gita fuori porta. Settimana scorsa ero a Milano con una lista di indirizzi e una cartina e per una dozzina di volte mi si è ripetuta davanti agli occhi la stessa scena: suono, mi viene aperto e avanzo nel silenzio di un immacolata hall; gli uffici non si vedono, né tantomeno le persone che negli uffici ci lavorano: ogni intrusione viene bloccata dal candido sorriso di un’angelica segretaria che sbucando da dietro il colossale MAC che troneggia sull’unica scrivania visibile prende in consegna i due fogli pinzati insieme che le allungo -mi sembra una bestemmia passarle della carta, per di più strapazzata da ore passate nella mia borsa- e, senza smettere di sorridermi, mi dice "lo consegno al/alla responsabile al termine del meeting in cui è al momento impegnato/a". Prima di salutarmi, un paio di loro mi hanno pure chiesto per cosa mi candidassi, ma per pura curiosità, che andava oltre a quello per cui sono state addestrate.

Ma i più belli sono stati quelli della Fox: bypassata la scrivania della segretaria –scrivania vuota, segretaria malata o in pausa pranzo- mi è toccato scomodare un creativo dal suo scranno. Qui addirittura, facilitata dalla prossimità fisica ho azzardato una stretta di mano e intonato quattro parole di presentazione. La reazione: dopo avermi fatto notare che ero nella città sbagliata -del recruiting se ne occupa Roma- arriva il consiglio, brillante: “non ha consultato la sezione lavora con noi del sito?”.
Ti rispondo via mail.

Thursday, 26 January 2012

Ameni inganni

“Culicchia, non ci siamo: hai scritto un libro inutile”. Così avrebbe dovuto dirti il tuo editor. Non ti avrebbe fatto piacere, certo, ma non avrebbe deluso così tante persone che hanno amato le tue storie.
Perché nella tua carriera hai scritto pagine di struggente bellezza, ma nelle duecento e passa pagine del tuo ultimo romanzo non ne ho trovato nemmeno l’ombra.
Hai scritto un libro facile, superficiale, come una sveltina nei bagni di una discoteca.
Noi lettori vogliamo lasciarci sedurre dai personaggi, vogliamo passare con loro languide notti di passione e tenerezza, vogliamo il contorno di champagne, fragole, cioccolato, candele profumate e bubble bath, per non uscire di metafora. Possiamo sembrare anche lettori facili, in realtà siamo pronti per qualcosa di meglio, di inaspettatamente grandioso, come Julia Roberts in Pretty Woman.
Sì, questo è il mio ideale romantico.

Un libro che si esprime al meglio nel risvolto di copertina è come un film il cui il trailer riporta solo e tutto quello che vale la pena vedere. Il resto in entrambi i casi è tempo perso.
Per sicurezza il tuo libro oggi lo riporto in biblioteca, prima che mieta altre vittime tra i miei curiosi e famelici familiari, che ancora leggono quello che gli capita sotto mano senza prima contare le stelline delle recensioni. E meno male che uso ancora la tessera della biblioteca: in libreria non hanno mai sperimentato la formula “soddisfatti o rimborsati”, e se avessi comprato la bella edizione rilegata con l’ammiccante illustrazione psichedelica sarei rimasta con diciotto euro in meno nel portafogli, e mezzo chilo di carta in più a prendere polvere su uno scaffale. Perché questo, signor autore, è il tipo di libro che non finisci nemmeno per perdere a casa di qualche amico a cui l’hai prestato: questo libro ti rimane sul groppone, a ricordarti dei tuoi acquisti sbagliati come quel paio di scarpe in velluto viola cardinalizio che non sono mai riuscita a indossare (tanto belle nella scatola, tanto improponibili con qualsiasi accostamento). O come i libri di Fabio Volo.
Solo che lui non ha la tua credibilità letteraria da difendere.

Ma esponiamo il capo d’accusa: la premessa del romanzo è che Alberto, un quarantenne con tendenze autistiche, ossessionato da riviste porno e modellini di astronavi, perde la madre con cui ancora viveva e deve cavarsela da solo, affrontando problemi pratici come la gestione della casa e cercando di venire a patti con le sue immaginarie relazioni. Ma poi nel libro manca tutto il resto: la premessa è la storia, che non si smuove, non si sviluppa, non devia fino ad arenarsi in un finale che sa di già letto.

Cos'è successo, Culicchia? Lo so, non è un momento facile per nessuno, ma sono sollevata all'idea di non aver contribuito direttamente a pagarti il mutuo.

Non mi sei sembrato particolarmente ispirato, tutto qui… Forse voi artisti potete concedervi il lusso di innestare il pilota automatico: se sei davvero bravo a fare una cosa, e quella cosa ti esce sempre bene, a una certa non c’è più bisogno di sperimentare, e si riesce a rispettare le scadenze venendo allo stesso tempo incontro ai gusti del pubblico.
Io invece, che non ho un talento particolare, riesco a ritenermi soddisfatta di quello che faccio mai per un caso fortunato, ma solo quando vedo il frutto di tante ore passate in febbrile attività e con una paura immensa di fare un grosso errore.

Ecco, forse a te è mancato il coraggio: hai scelto di andare sul sicuro, e hai raggiunto un risultato mediocre.

Ti lascio con un consiglio: la prossima volta, invece che portare il lettore a riconoscersi nel protagonista con le sue nevrosi e disgrazie, cerca di ispirarlo, con personaggi che compiono gesti piccoli e belli, facili da imitare. Ce n'è di bisogno.

Tuesday, 20 December 2011

Amarcord


Dieci anni fa varcavo per la prima volta il portone di via Salvecchio a Bergamo alta, entrando in punta di piedi nel boschetto della mia fantasia, altrimenti conosciuto come università.

Settimana scorsa, a più di sei anni dalla mia laurea, sono tornata in una delle sedi dove andavo a lezione con il pretesto di usare indisturbata i bagni. Mi sono di nuovo persa nei corridoi, registrando cambiamenti minimi, se escludiamo che gli sbarbati del primo anno appoggiati alle colonne in cortile non hanno facce conosciute.

Ho perso un po’ di gente per strada, nonostante grazie a Facebook si riesca a seguire le tracce di chiunque. L’estate scorsa, ripercorrendo catene di tag sono venuta a sapere che si è sposato un mio ex compagno: tra gli invitati c’era l’intera squadra del calcetto fondata in aula studio, che ha affrontato la foto di rito con la maglietta della divisa e i pantaloni calati.
Goliardia! E pensare che non c’è foto di gruppo che li ritragga con i pantaloni: fa ridere una volta, fa sorridere la seconda, ora avete 30 anni e non siete proprio la combriccola di “Amici miei”. Se non la smettete prima di diventare padri di famiglia, scatta l’effetto cinepanettone.

Lasciata la facoltà, ho fatto una passeggiata in via Colleoni, con l’idea di prendere un caffè in uno dei baretti in cui bivaccavo nelle numerose ore buche. A città alta i cellulari ancora non prendono, ma gli schermi al plasma ormai campeggiano ovunque e il mio pub preferito è stato rimpiazzato da un anonimo punto vendita di una catena di profumerie. È lo specchio dei tempi, mi sono detta: dal caffè letterario -anche se le nostre pause pranzo non erano propriamente ritrovi di intellettuali- al punto d’incontro delle shampiste preoccupate per la sorte degli inquilini della casa del Grande Fratello.

Sopraffatta dal magone, provo a telefonare a Laura, vecchia gloria dei tempi di scienze della comunicazione, dimenticandomi che mandando un piccione viaggiatore avrei più probabilità di recapitare il messaggio: il cellulare non trova la rete e io cerco di distillare i sentimenti che mi pervadono in un sms che invierò una volta rientrata sotto il rassicurante ombrello gsm. Perché bisogna dirlo alle persone che ci hanno cambiato la vita che ce ne siamo accorti del favore che ci hanno fatto.

Continuo la discesa verso città bassa: ho appuntamento con Paola, un pezzo della mia esperienza accademica che mi sono tenuta stretta: con Paola, che da un paio d’anni è la mamma più bella del mondo, e che il mese prossimo convolerà a nozze, ci sono cresciuta, o almeno lei cresceva mentre io le riversavo addosso la frustrazione causata della fatica che sto tuttora facendo a crescere.

Nonostante mi trovi bloccata a anni luce di distanza dai suoi traguardi, riconosco che ne ho fatta di strada, da quando i pomeriggi in piazza Vecchia scivolavano nell’indecisione se presenziare le lezioni o prendersi un gelato, che “con un sole così, chi ha voglia di chiudersi in aula?”.

Non posso dimostrarlo di essermi allontanata molto: a conti fatti ho quasi 30 anni, nessuna prospettiva di carriera, una collezione di esperienza lavorative che non intimidirebbero nemmeno uno stagista, sono disinnamorata, e non ho nulla su cui appoggiarmi per costruirmi un futuro. Invece dell’ambizione, spesso ho scelto la comodità. E non riesco a vedere più in là del dopodomani. Non mi sento adulta.

Eppure, ripensando al 2011, riconosco che qualcosa nella percezione di me stessa sia cambiato, e mi abbia portato verso scelte azzardate, e non facilmente condivisibili: come quando, in una congiuntura economica terrificante, ho deciso di non accettare un posto di lavoro perché sentivo il bisogno di ascoltarmi e capire che direzione prendere. O come quando, perdendo un amore alla cui ombra mi stavo annullando, ho imparato a amare me stessa.

Il desiderio di prevalsa, per dimostrare agli altri che non sono solo quanto riportato nel curriculum, è stato sostituito da una nuova consapevolezza: non sta agli altri dirmi cosa posso o devo fare perché la decisione spetta solo a me.

E ho viaggiato. 3 mesi su 12 (il minimo indispensabile). E questo è il regalo più grande che si possa fare a un’anima che non riesce a staccarsi dal pensiero di sé stessa. C’è dell’altro, oltre all’autocommiserazione: c’è la vita.

E voglio viverne ancora di anni così burrascosi, voglio cambiare idea, voglio stravolgere piani, voglio provare, sbagliare e riprovare fino a quando non troverò il mio posto nel mondo.

E quando lo troverò, preparate bottiglie e aspirine, perché siete già da ora invitati all’housewarming party meno adulto cui abbiate mai preso parte.

Tuesday, 22 November 2011

Alone, not lonely


Nelle ultime settimane mi sono inventata tutta una serie di appuntamenti solo per avere la scusa di portare a spasso me stessa: sono stata al cinema, al ristorante, in sauna e a bere un caffè accompagnata al massimo da un libro.

E non mi sono annoiata mai.

Mi sto viziando in modo ingiustificato, dato che è arrivato il momento di mettersi sotto, e non posso premiarmi così prematuramente, ma tant’è...

Niente quarti d’ora passati a prendere freddo e perdere pazienza a una fermata, chiedendoti se quello che accosta sia l’autobus che ha preso il mio amico; e quando quella in ritardo sono io, niente sms mandati all’ultimo con la giustifica.

L’unica cosa che mi manca è una mano da stringere durante le lunghe passeggiate: ho provato a camminare tenendomi le mani, ma non c’è modo di farlo funzionare come surrogato.

Al ristorante mi metto sempre nel tavolo all’angolo, quello defilato, destinato alle coppie che non vogliono distrazioni mentre si guardano negli occhi: una sedia la uso per la borsa e la giacca, su quella di fronte mi ci siedo io.
“È da sola?” mi chiede il cameriere che si è avvicinato con due menù.
“Secondo te?”, mi verrebbe da rispondere, ma mi limito a sorridere, annuire e strappargli il mio menù dalle mani.

Sono sola. Che non vuol dire necessariamente che mi senta sola. È che a volte non ho grandi alternative: se alle tre di pomeriggio di giovedì mi viene voglia di andare a mangiarmi una ciotola di ramen in cui nuota un filetto di salmone, basse sono le probabilità che riesca a trovare qualcuno che si dimostri non tanto interessato, ma perlomeno libero.

La novità è che, quando la voglia mi assale, la soddisfo così su due piedi, senza lasciare che nessuno mi metta davanti al fatto che potrei benissimo farne a meno, o almeno aspettare un momento più adatto, tipo quando posso invitare qualcuno.

Sin dall’adolescenza ho convissuto con un bisogno di socialità che sfiora la dipendenza, e fra tutte le persone che conoscevo quella che mi incuriosiva di meno ero io. La novità è non avere più paura di rimanere da sola. Bastava provarci.

Nel 2011 mi sono concessa il lusso di riprendermi il mio tempo: ho lavorato il poco che bastava per mantenermi, ho viaggiato come non ero mai riuscita a fare e ho imparato a non preoccuparmi di quello che gli altri possono pensare; se vado al cinema da sola “povera, è single, e ha quasi 30 anni!”, se passo un paio di mesi senza lavorare “povera, con tutto quello che ha studiato, e ha quasi 30 anni!”.

E non è che ora che ho scoperto di piacermi non provi più il desiderio di passare tempo con i miei amici: Il tempo che dedichiamo agli altri non può essere direttamente proporzionale all’amore che proviamo per loro: ci si mette la vita, con i suoi doveri e le sue distanze, a intralciarci i piani.

E nonostante questa dichiarazione di indipendenza, non sono stata lasciata da sola: venerdì scorso mi è successo qualcosa di straordinario.
Dovevo uscire a cena con delle amiche: il piano era quello di una tranquilla serata fra donne. Angela mi recupera alla fermata del tram: è da sola, e delle altre non si è più saputo nulla. Poco male.
Ci incamminiamo verso il ristorante, e sto ancora parlando con Angela quando impugno la maniglia e nel bel mezzo di una frase apro la porta.

C’è una tavolata con una dozzina facce amiche che mi sorridono.
Smetto di parlare. Cerco di fare mente locale.

Inizialmente penso di essermi dimenticata il compleanno di qualcuno:

“Cazzo, che figura di merda! Ma tutti allo stesso ristorante?”

Questo pensiero è seguito a ruota dalla presa di coscienza che se quella è una festa di compleanno, io non sono stata invitata:

“Non sono in lista? Eccheccazzo!”

Solo dopo essermi sentita in colpa e offesa, tutto questo pietrificata sulla soglia, capisco che quelle persone sono lì per me. E che non hanno smesso di sorridermi fino a quando il sorriso non gliel’ho restituito:

“Oh cazzo… Festa a sorpresa… Per me!”

C’è ancora qualcuno a cui fa piacere avermi intorno.
E trovarmeli tutti raggruppati nella stessa dimensione spazio-temporale ha reso lampante la portata di quello che due anni a Francoforte mi hanno regalato e che nessuno, nemmeno la Claudia che mi sta facendo una corte spietata, potrà portarmi via.

Wednesday, 16 November 2011

The world is your oyster

Negli ultimi anni ho avuto la fortuna di conoscere dei viaggiatori.

È facile riconoscerli, da quando la Routard ne ha messo uno in copertina: i viaggiatori hanno lo zaino, i turisti hanno il trolley tagliato su misura per la cappelliera dell’aereo; diversa la forma, la sostanza in entrambi i casi consiste in biancheria, spazzolino da denti e qualcosa per ammazzare i momenti morti.

Ma è ancora più facile approcciarli: i viaggiatori sono quelli che non vedono l’ora di parlarti dei posti che hanno visto, i turisti sono quelli che paragonano ogni posto a casa, e casa, si sa, vince sempre.

E io voglio visitare quei posti attraverso le loro parole, voglio sentirmelo dire ancora che l’India o la ami o la odi, che ascendere Machu Picchu all’alba è un’esperienza mistica e che in Thailandia non ci sono solo i Full Moon party, ma alla fine se non vai per quello allora le spiagge della Cambogia sono meglio.

Su una barca di legno tra Lombok e Flores ho condiviso i 50 metri quadri calpestabili per 3 giorni con 10 viaggiatori, tra cui Karine e Gerald, francesi di Nancy, impegnati in un viaggio di 12 mesi intorno al mondo.

Programmare un viaggio del genere, o semplicemente gestirlo giorno per giorno, è di per sé impresa titanica. Loro, oltre a sopravvivere, sono riusciti a tenere un blog sempre aggiornato. L’ultimo post scritto dall’India annunciava che il loro rientro era questione di giorni. E mentre lo leggevo mi ha preso un magone manco fossi io quella che aveva il biglietto di ritorno.

Un viaggio così è fatto della stessa materia di cui son fatti i sogni. E per metabolizzare un anno di viaggio ci vuole tanto tempo, ma soprattutto tanto sangue freddo.

Io l’ho provata nel mio piccolo, questa transizione: sei contento di essere a casa, di dormire nel tuo letto, di rientrare in possesso del tuo guardaroba dopo settimane di infradito e t-shirt maltrattate, di mangiare il tuo piatto preferito cucinato da mammà, che ti vede deperito, di rivedere i tuoi amici, tu abbronzato e loro con i capelli diversi da come te li ricordavi, di essere per cinque minuti al centro dell’attenzione quando rispondi alla domanda “qual è il posto più bello che hai visto?”, di riordinare le foto e le idee…

Ma poi, inevitabilmente, scopri che tutto il tuo viaggiare ti ha riportato solo al punto di partenza. Che non ti sei mosso di un millimetro. Che hai provato ad allontanarti dalla tua realtà, ma alla fine sei caduto di nuovo tra le sue braccia.

Come la laurea: ti sembra di aver raggiunto un obiettivo e invece, mentre eri impegnato a crescere in sapienza, età e grazia, c’era la vita che ti aspettava. Granitica. Immobile.

Perché viaggiare, allora? Perché investire tanto tempo, energie e soldi quando per vedere il mondo basta una connessione internet?

Me lo sono sentito chiedere lo scorso giugno, quando a una festa ho rivisto vecchie conoscenze che mi hanno presentato gente trasferitasi a Francoforte mentre io ero in viaggio. Uno dei nuovi arrivi, per nulla impressionato dai miei racconti ma senza ombra di retorica mi fa: “perché ci sei andata?”.

La domanda che non ti aspetteresti mai, a cui ho deciso di rispondere: “perché è un modo per scoprire la bellezza dove non ce lo aspettiamo”.
O questo almeno è come suonava alle mie orecchie. In realtà, ebbra di improvvisati cocktail, penso di aver sbrodolato un sognante “cause it’s awesome, man!”.

Perché la bellezza non viene assimilata solo attraverso gli occhi, ma arriva come un pugno nello stomaco, e ti lascia così, inerme ma avvolto in un profondo senso di gratitudine per esserne testimone.

E perché questo mondo, nonostante gli acciacchi, è ancora un posto meraviglioso in cui vivere. E viaggiare può aiutare a ricordarcelo.

Sunday, 6 November 2011

Indian Summer


È il 6 di novembre, e sono seduta sul lungofiume.
Mi sono ampiamente rimproverata di essere uscita di casa senza macchina fotografica. È una di quelle giornate con la luce orizzontale, che disegna ombre lunghissime e fa brillare l’acqua del fiume, i vetri delle finestre e i sorrisi.

È la domenica di una settimana di transizione che mi ha regalato piccoli momenti di umanità.

Come quando martedì sono andata a cancellare il canone della TV e l’impiegata, venuta a sapere che sto per lasciare Francoforte, mi ha confessato che rimpiange ancora di non essere andata negli Stati Uniti quando da studente ne aveva avuto la possibilità, e poi, stringendomi la mano e guardandomi negli occhi, mi ha augurato buona fortuna. Credendoci davvero.

Come quando mercoledì sera il padrone del ristorante per cui ho lavorato ha offerto una pizza a me e ai miei due amici, siglando il tutto con una stretta di mano e la dichiarazione “Claudia è la cameriera più brava che abbia mai lavorato qui”. Ero andata a trovarlo sperando avesse racimolato i soldi che tuttora mi deve. Ma questa è un’altra storia…

Come quando giovedì ho postato su facebook che la mia stanza sarà disponibile da fine mese, cercando un amico-di-amici senzatetto che mi risparmi il casting di perfetti sconosciuti, e il mio coinquilino mi ha chiesto (per iscritto, su facebook) di riconsiderare Francoforte, e che, nel caso avessi già deciso, gli sarei mancata.

Come quando venerdì sono andata a ritirare il certificato del corso che tanto mi ha fatto penare nelle ultime quattro settimane, e ho celebrato l’averlo passato con un caffè e un muffin al bar che mi ha rifornito di massicce dosi di caffeina per tutto il mese, sponsorizzando così le mie imprese accademiche. Il barista ha trasformato il più economico dei caffè in un cappuccino senza trasformarne il prezzo. E mi ha pure messo due timbri sulla tessera fedeltà. Alla faccia tua, Starbucks!

Come quando ieri sera (o era stamattina?) sulla strada di casa con tre amici alla spasmodica ricerca di un “felafel della buonanotte”, siamo incappati in un gruppo di spagnoli bloccati su un’isola spartitraffico come su una zattera in mezzo al mare tempesta. È bastato dargli il nome di un club ancora aperto, indicazioni su come raggiungerlo e un po’ d’erba da fumare nel tragitto, per capire come deve sentirsi Babbo Natale la mattina del 25.

Vivo nel favoloso mondo di Amélie, o almeno in un remake in salsa krautrock. Speriamo non sia un porno.

Ho deciso di lasciare Francoforte. E la città sembra intenzionata a farmene pentire.

Questo angolo di mondo, che per tanti è solo ‘banche, fiera e aeroporto’, è un posto dove sono stata felice.

La prima volta che ci ho messo piede ero venuta a trovare il mio ragazzo. Faceva un freddo che ti mangiava la faccia, ai mercatini di Natale. Da allora sono passati 3 anni, e molte cose sono cambiate: quello che era esotico e pittoresco ora è casa, una città che sembrava inospitale è diventato il posto dove vivono i miei amici e la persona che avrei continuato a seguire in capo al mondo ha deciso di proseguire il viaggio da solo.

Tornerò a casa. Il sole sta scomparendo dietro ai grattacieli e l’album dei Fleet Foxes che ho nelle orecchie è sull’ultima traccia.

Non c’è momento migliore che una dolce sera d’autunno per dirsi addio.

Wednesday, 5 October 2011

Cosmopolitans


Eccomi, a 29 anni suonati, di ritorno dall’ennesimo primo giorno di scuola. Ho lo zainetto, giuro. Faccio ricreazione. E ho dei compagni di classe. Che sono solo quattro, ma anche a selezionarli attraverso un casting non sarebbero saltati fuori così. Così disfunzionali. Come me, d’altronde.

E lo so che non è professionale, ma penso che qui ed ora, per fare un po’ di esercizio di scrittura, li prenderò per il culo. Solo un po’. Poi magari, quando col passare dei giorni li conoscerò meglio, potrò sputtanarli a dovere.
E sono sicura che, nonostante ciò, mi ci affezionerò pure…


Mi affezionerò a Jon, militante cristiano che condivide con la sua città natale, Orlando - ma per quelli che non ci sono nati, le quattro case costruite ai confini di Disney world - lo stesso inquietante aspetto di perdita di innocenza.

Come Neverland, dove quel mattacchione di Michael Jackson giocava a fare Peter Pan, con tanto di pigiama party organizzati per i bambini sperduti.

Sposato con una perfetta tedesca bionda, con cui ha messo al mondo una perfetta bambina bionda, battezzata col nome di Joy, Jon ha un aspetto talmente innocuo che mi viene naturale stargli alla larga.
È la quintessenza della solidarietà. E tutto questo amore ingiustificato verso il prossimo desta sempre sospetti.

Film preferito di Jon? Non Jesus Christ Superstar, pellicola fricchettona dalle sfumature homo, bensì il machissimo il Padrino. Non fa una piega.


Mi affezionerò a Sandra, una nerd assoluta, che da sempre non tocca un goccio d’alcool, non perde un capitolo di una saga e non manca una convention di Star Wars, dove si presenta nell’impeccabile tenuta da Jedi. Davvero. Fa fede la foto del profilo di facebook.


Mi affezionerò a Stefanie, tedesca e segretaria (lampanti entrambe le caratteristiche), che sta per trasferirsi nella nuova casetta con il suo ragazzo e ha scelto di fare questo corso per cercare lavoro nella stessa fabbrichetta del suo ragazzo. Ragazzo che a dopo cena deve sorbirsi le prove generali della lezione che verrà somministrata il giorno seguente alle cavie che ci sono state assegnate.

Ho già detto che Stefanie è fidanzata? Felicemente, a quanto pare…


E forse mi affezionerò anche a Elaine, la cheerleader. Una che alla domanda “da dove vieni?” risponde “da tanti posti…" (i puntini di sospensione si sentono, eccome).

Cosmopolitan, come il cocktail preferito dalle carampane di Sex and the City, di mamma tedesca e papà portoricano, cresciuta tra la Germania e Virginia e da un paio d’anni trasferitasi a Amsterdam.

Cittadina del mondo auto-dichiarata, ha confessato di non essere mai stata a Londra perché non le interessa visitare paesi in cui, una volta atterrata e messo piede sulle scaletta dell’aereo, non venga investita da una folata di “cultural clash”.

Americana di formazione, ha passato i 20 minuti di lezione a sua disposizione a dispensare "good job!!!" (i punti esclamativi si sentono, eccome) agli studenti, con la stessa intonazione che si usa con il cane di casa quando si arrende a fare pipì sul giornale appositamente dispiegato in un angolo.

Ah, e dice "that's so cute" almeno un paio di volte al minuto.
Se vogliamo fare i pignoli, dice “owwww, that’s SO cute”, accompagnato da un broncio sbarazzino.
E ovviamente lo dice senza cognizione di causa, probabilmente in preda a ipnosi indotta dalla sua stessa voce.

Curioso, carina non è assolutamente l’aggettivo che userei per descrivere lei.

Verrà mai il giorno in cui smetterà di sbatterci in faccia il suo splendente, perfetto sorriso? O la sua è davvero una paresi facciale?


Dalle aule della scuola dove si impara a insegnare, per ora è tutto, ma spero di potervi offrire presto dei succosi aggiornamenti. Anzi, prometto di farlo se, a forza di vocine e mossette, non trasformano anche me in un Teletubby.