Sunday, 13 February 2011

Burn your bra!


Un amico appassionato d’arte cerava di descrivermi in che modo si fosse sentito offeso dalla violenza con cui era stato accolto dalle opere messe in mostra da un collettivo di artiste femministe.

“Mi hanno fatto vergognare di essere uomo. Mi hanno farcito di sensi di colpa. E a me non sembra di aver mai trattato una donna a pesci in faccia, casomai il contrario”.

Voleva sapere se anch’io, che vengo da Venere come le autrici di queste opere fortemente provocatorie , mi fossi mai sentita in qualche modo discriminata in quanto donna che lotta per la sopravvivenza in una società tipicamente maschilista.

Ci ho pensato, mentre passavo il gessetto sulla punta della stecca. Ho temporeggiato per far salire la suspense mentre rompevo le biglie e solo dopo essermi scusata per aver mandato la nera in buca per prima, ho smesso di atteggiarmi e ho risposto: “No, perché?”.

Forse non sono la persona giusta a cui chiederlo: la divisione maschi e femmine è qualcosa che per me risale alle elementari, quando mi sono accorta di avere un debole per il rosa e nessuna inclinazione a prendere a calci un pallone. Preistoria. Negli ultimi 20 anni non ho cambiato idea sul calcio, ma il rosa è sparito dal mio guardaroba, così come la lotta aperta ai maschi dalla mia agenda.

Ho frequentato le stesse scuole e fatto gli stessi lavori dei miei colleghi, meritandomi gli stessi voti e lo stesso stipendio. Mi è capitato spesso –e l’ho sempre considerato un privilegio- di passare serate senza rappresentanti del gentil sesso a farmi da spalla. E nessuno mi ha mai offerto da bere solo perché ero l’unica donna al tavolo.

Se non è emancipazione questa, su cosa berciano ancora le femministe? Se la galanteria puzza di vecchio e l’uomo non ti apre più la portiera della macchina, è in parte colpa loro. Il percorso partito dal diritto al voto e approdato all’aborto, passando dalla pillola al divorzio, ha raggiunto il traguardo.

Che si preoccupino di quelle donne costrette a camminare tre passi dietro al proprio uomo, mute e silenziose, nascoste da un telo nero come qualcosa da tener nascosto perché motivo di vergogna e non, come dovrebbe essere, per garantire protezione. Loro non possono bruciare reggiseni e reclamare a gran voce l’emancipazione, se non vogliono finire lapidate.

Non ho mai intimidito gli uomini facendo leva sulla mia femminilità, non la ritengo una strategia vincente. Penso sia il lavoro di squadra quello che porta i risultati migliori, e non mi piace scendere a compromessi.

È solo quando smetti di comportarti come se ce l’avessi solo tu,che l’uomo smette di considerarti semplicemente scopabile su una scala da “manco se ne dipendesse il futuro dell’umanità” a “anche se succedesse fra 50 anni”. “Oltre alle gambe c’è di più”, insegna Sabrina Salerno. Pari opportunità garantite.

Quando mi sono cresciute le tette, i miei compagni di classe non hanno fatto una piega; non hanno cominciato a guardarmi in modo diverso, probabilmente perché ho scelto di non sbattergli le suddette in faccia per fargliele notare.
Già allora ne sottovalutavo il potenziale.

Prendete l’”Effetto Lolita”: tutti abbiamo avuto una compagna che appoggiava i gomiti sulla cattedra e le tette sul registro per discutere con il professore di un voto a suo avviso ingiustificatamente basso. Bastava farla annusare, valeva la pena provarci, e funzionava 7 volte su 10. Quella ragazzetta aveva già capito tutto. Chapeu. E questa tecnica, affinata e perfezionata può portare alla promozione anche in campo professionale.

Se sei donna, hai un corpo con tutti gli attributi al posto giusto, una soglia di imbarazzo elevata e un concetto vago di dignità, puoi tenere il cervello in formalina sul comodino e aprirti un sacco di porte con quello che ha in mezzo alle gambe.
Se non è emancipazione questa, fare leva sulla debolezza degli uomini per ottenere tutto e subito… il bunga bunga è un buon esempio: gli unici ingredienti sono donne arriviste, spietate e uomini incredibilmente stupidi, annebbiati dal testosterone. Una ricetta semplice.

Personalmente non mi sento chiamata in causa quando si parla dello sfruttamento del corpo femminile. Lo sfruttamento, in questo caso e in tv, è su base volontaria: nessuno ha obbligato queste giovani donne a fare qualsiasi cosa abbiano o non abbiano fatto ai nostri politici in camera da letto. E se non fosse stato per queste strappone capricciose che non hanno ottenuto quello che gli era stato promesso, non saremmo mai venuti a conoscenza delle preferenze sessuali di anziani dipendenti da Viagra. Peccato, eh?

L’unica cosa che mi accomuna a questo manipolo di arriviste sono i cromosomi.

Leggere che il nostro presidente del consiglio paga delle donne per fare sesso è stato sconvolgente come leggere che sempre il nostro presidente è un narciso con manie di grandezza. Non l’avrei mai detto. Suggerisco meno spionaggio stile Wikileaks e più buonsenso, se vogliamo davvero fare chiarezza in questo troiaio.

Sunday, 6 February 2011

Astronauti e ballerine


Non so più cosa rispondere al qualcuno che mi chiede come sto.

Se quel qualcuno affittasse la mia vita e vi ci trasferisse per un paio di giorni si chiederebbe come faccio a mantenere un aplomb squisitamente british e a essere piú preoccupata di organizzarmi il weekend che il futuro.

Se quel qualcuno si lasciasse facilmente prendere dallo sconforto si butterebbe da un ponte ancora prima di chiederselo.

Eh, cosa sarà mai... Volete un prospetto più accurato della situazione? Accontentati.
Sul piano professionale sto per perdere il mio terzo lavoro in tre anni - e non per demeriti miei, ci tengo a precisare -, la mia vita sentimentale è spensierata come pezzo dei Joy Division, vivo in un paese in cui il cielo é grigio 50 settimane su 52 e la gente parla una lingua oscura, arcaica e inaccessibile, nonostante gli sforzi.
Beh, almeno c'e la salute.

Le congiunzioni astrali sfavorevoli stanno trasformando un’ottimista patologica in una cinica cronica. Peccato.

Quando ero a casa per Natale, la mutti, dopo aver ripetutamente sottolineato che “a stare troppo al computer si diventa scemi” mi si è seduta di fianco, ha aspettato che spostassi lo sguardo dallo schermo a lei e guardandomi dritto negli occhi come a perlustrarmi l’anima mi ha chiesto “ma tu, in fondo, cos'é che vuoi fare?” Sapevo che quella del videogame tester non se l’era bevuta, non sono riuscita a convincere nemmeno la sottoscritta...

Non so che lavoro voglio: mi appassiono a tante, troppe cose, ma non riesco a appassionarmi al lavoro in sé. Forse perché non mi è mai stata offerta la possibilità di mettermi in gioco, di scoprire se c'é qualcosa che so fare bene, meglio di qualcun altro. Sono stufa di eseguire istruzioni.

Voglio continuare a buttarmi in esperienze sempre nuove e a prima vista slegate tra loro, ma più il tempo passa, più la lista si accorcia. Il treno degli astronauti e delle ballerine l’ho perso da un pezzo.

E ne sono passati di anni da quando, fresca di laurea, immaginavo il lavoro dei miei sogni. Volevo un lavoro creativo, perché suonava bene, profumava di brunch, casual Fridays, brainstorming e libertà. Peccato i vent’anni di ritardo sull’epoca d’oro dei copywriter, il tracollo economico su scala mondiale, il global warming e i tonni sterminati per rifornire di tekkamaki i nastri trasportatori del running sushi.

E se il battito d’ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo, non vedo perché io non possa incolpare il buco dell’ozono delle mie alterne fortune in campo lavorativo.

Riconosco di non avere un particolare talento, e meno male, altrimenti mi starei mangiando le mani per non averlo sviluppato finora. Ma ho delle qualità: sono curiosa, sono sveglia e sono socialmente compatibile alla maggioranza dato che mi faccio i fatti miei, saluto con il sorriso, cerco di limitare le critiche e quando finisce il caffè ne faccio di fresco.

Non so che lavoro mi inventerò questa volta, ma sto cercando un’esperienza che mi permetta di raccontare storie. Storie diverse, con mezzi diversi. Mezzi come la televisione, internet, i videogame, la musica, ambienti che mi sono più familiari, ma anche la moda, i viaggi, la fotografia, passioni che vorrei diventassero quotidianità.

L’unica cosa certa è che continuerò a non programmare più in là del dopodomani, perché ho capito fare piani rende le cose più facili solo al destino, indicandogli dove soffiare per buttar giù i nostri castelli di carte.

Confiderò nel mio impegno per trasformare i castelli che progetto in aria in castelli di carte. Speriamo che stavolta faccia una comparsata pure una buona dose di culo.

Sunday, 30 January 2011

Balliamo un altro mese


Non ricordo a cosa stessi pensando in quel preciso momento: ipnotizzata dal rumore dell’aspirapolvere, cercavo di creare dei pattern tra le piastrelle, di costruire uno schema, eseguendo movimenti misurati e regolari.
Ero lì tutta intenta che aspiravo, assorta nella ricerca del percorso perfetto per la caccia all’ultimo capello, quando vengo bruscamente risvegliata da una mano che mi si posa sulla spalla. É la ragazza del mio coinquilino, e mi sta parlando, ma non la capisco: provo a spegnere l’aspirapolvere e lei prova a ripetere la frase, che é in tedesco, sicché non capisco comunque. Mi viene incontro il linguaggio del corpo: lei vuole restare in bagno, ma senza di me. E allora chiedo scusa, stacco l’aspirapolvere e lascio la stanza.

Solo quando lei mi chiude la porta in faccia capisco che una semplice necessità fisiologica sua ha rovinato il mio momento settimanale di meditazione.
Deve essere stata una necessità impellente, se non poteva essere supervisionata per un paio di minuti extra che mi sarebbero bastati a finire di pulire il bagno. Bagno che tu, mia cara principessa sul pisello, usi 4 giorni su 7, senza preoccuparti minimamente di pulirlo né almeno di rifornire la carta igienica che usi a metri quando ti togli la seconda faccia che ti disegni la mattina con fondotinta e mascara.
Scusa per essermi permessa di farti un favore. No, la giustifica vale solo in caso emergenza e comunque la nota te la becchi lo stesso perché in tutto questo le paroline magiche “per favore” e “grazie” io non le ho sentite.

Forse il tuo ragazzo non te l’ha spiegato, o forse non l’ha capito nemmeno lui, ma io non sono la donna delle pulizie. Se lo fossi, avrei installato i tornelli davanti alla porta del bagno, così, a 50 centesimi a pisciata, almeno mi ci pagavo il caffè.

Fammi capire... sono l’unica stronza che per paura di prendere qualche brutta malattia quando serve si infila dei guanti di gomma e da’ una pulita e voi, che vivete nello stesso appartamento, lo date per scontato, come se fosse scritto sul contratto d’affitto.

Ieri ero in giro a farmi una sportina di fatti miei quando ricevo un sms che mi ha fatto cambiare colore. Il mio coinquilino scrive:
“Hey! I just arrived and I noticed there is not toilet paper left. Will u cross a supermarket on your way?”

Fase 1: il fastidio

“Ho fatto 10 rotoli, lascio? E di fettine di culo tagliate sottili sottili, quante ne vuole?”

Fase 2: il pentimento

Perché mi viene chiesto un favore e io prima cosa divento verde come Lou Ferrigno in Hulk?
Forse perché io chiedo un favore quando ho davvero bisogno d’aiuto. E anche in questo caso, la conclamata emergenza poteva rientrare senza il mio intervento.

Quando mi scrivi: “Ehi, mi sono accorto che non abbiamo più carta igienica”, a me suona da presa per il culo. Sono 3 giorni che siamo sull’ultimo rotolo, pensavo fosse un avvertimento abbastanza chiaro. Indovina chi ha comprato l’ultima confezione? No, tu l’hai comprata a novembre. Eh sì, il tempo vola davvero…

E quando mi scrivi “Già che sei in giro, se incroci un supermercato…” io capisco, ma non é che i rotoli di carta igienica mi vengono incontro per strada e io li accompagno a casa... devo raggiungere un supermercato, perdermi fra le corsie e fare la coda in cassa. 10 minuti del mio tempo libero a coprire la tua pigrizia. Perché quello è... quando sono rientrata con l’agognato bottino ti ho trovato seduto sul tuo pesante culo, tutto intento a aggiornare il profilo di facebook mentre ti rollavi una canna. Sono sicura che se avessi finito le cartine saresti sceso di corsa a prenderle…

E lo so che te ne sei accorto che ero verde. Non posso farci niente. Dirmi “you’re awesome” non risolve la situazione. Non cerco la tua approvazione. E poi, se basta tanto poco, puoi essere awesome anche tu. Superawesome.

Per evitare di risponderti male, mi sono rifugiata in cucina, dove mi sono accorta che nonostante accurate spiegazioni e un dispiegamento di contenitori, la raccolta differenziata non ha ancora preso piede: una baguette morta di vecchiaia NON riposa in pace insieme alla carta e il posacenere NON si svuota nella plastica.

E se ti affacci alla porta e mi chiedi “Is everything all right?” come se portare giù la spazzatura fosse sintomo di disturbo mentale… allora abbiamo un po’ di lavoro da fare, io, te e quell’altro, se vogliamo continuare a sopportarci nel nostro microcosmo da 80 metri quadri.

Concludo la sbrodolata incazzosa in leggerezza, con un balletto improvvisato in corridoio, sulle note di Bugo, il casalingo per antonomasia.

dimentica le offese
spegni le luci accese
se tu paghi le spese
balliamo un altro mese


titoli di coda su musica che sfuma

e arrivederci alla prossima puntata

Sunday, 16 January 2011

viva viva la movida!


Ogni tanto, durante la pausa pranzo, parte il gioco del “ce l’ho più lungo io”. Vince chi le spara più grosse, con creatività e senza ritegno. La rosa degli argomenti che bene si prestano è abbastanza limitata, ma un evergreen resta il consumo di alcool. Io solitamente non prendo parte a questi campionati della panzana (squalificato chi esordisce con “una volta, un mio amico blablabla”); alla motivazione pratica –in pausa pranzo io mangio– si accompagna quella tecnica –in quasi 30 anni di tranquilla esistenza non ho vissuto esperienze che qualcuno troverebbe interessanti sotto forma di racconto–.

L'ultima volta, proprio sullo scadere del tempo (un match di solito dura mezz’ora, in concomitanza con la pausa pranzo) uno dei partecipanti, preso da slancio agonistico, ha cominciato a rilanciare su qualsiasi storia: era in stato di grazia e nessuna situazione, nessuna gradazione, nessuna disavventura poteva paragonarsi a quello a cui lui è più volte sopravvissuto. Se qualcuno avesse tentato un colpo basso, ammettendo “una volta sono finito in coma etilico” sono sicura che non si sarebbe lasciato impressionare e avrebbe probabilmente risposto che ci era passato anche lui, solo che lui era morto.

Sabato sera vengo invitata a una festa casalinga organizzata dall’ambasciata spagnola in Francoforte. E prima ancora di arrivarci, so già come andrà a finire.
Il piano è quello di andare a ballare, perché come vuole lo stereotipo gli spagnoli devono “Irse de fiesta. Siempre” anche quando non ne hanno voglia. Il piano può essere attuato con calma, comunque. E con calma si fanno le 3 e mezza, dopo un paio di videogame zombie-oriented, cervecite come se piovessero, 5 giri di “uno shot e poi si va” e mezza dozzina di “rollo l’ultima che stiamo per uscire”.

Le 3 e mezza sono quell’orario in cui in Spagna la gente va a ballare, mentre a Francoforte, dove la movida non l’hanno ancora inventata e le attività ricreative sono su un fuso orario diverso rispetto al Mediterraneo, le 3 e mezza sono l’ora in cui i DJ sfoderano la mixtape dei pezzi svuotapista e aspettano pazienti che gli ultimi zombie –quelli veri– trovino l’uscita.

E proprio mentre sto per raccogliere le mie cose e incamminarmi in direzione letto, assisto a un’inaspettata amichevole di “ce l’ho più lungo io” tra il padrone di casa e quel mio collega di cui ho tessuto le lodi poc’anzi. Oggetto del contendere, gli stupefacenti, e se avete capito le regole del gioco, potete immaginare come i 2 sostenessero di aver fumato, sniffato, ingerito e iniettatosi qualsiasi eccitante, allucinogeno, o sostanza psicoattiva di origine naturale, chimica o extraterrestre.

Conclusasi in parità questa disputa di riscaldamento, la sfida diventa determinare chi fra i due sia il clubber più assiduo. L’iPad viene preso d’assalto e mentre YouTube regala perle di technopop anni ’90, complice anche l’applicazione strobo per iPhone (per la gioia di Steve Jobs) quei 4 metri quadri che separano il divano dalla la televisione diventano il dancefloor dove dimenarsi sulle note di una canzone dal testo memorabile

“Cuatro ruedas tiene mi coche
Cuatro pastillas me tomo esta noche”


Non so voi, ma io me ne sto andando a casa.

Friday, 10 December 2010

A mollo nel traffico


Chi mi conosce lo sa: lo sport non ha mai esercitato un grande fascino su di me.
Fanno eccezione le attività ludiche che non richiedono allenamento, come il biliardo, o il bowling. Ma è chiaro che non si può definire sport qualcosa che non fa sudare e si può fare –anche meglio- bevendo birra.

È che non mi piace fare fatica. Una volta ho provato a andare a correre al parco… dopo 12 minuti ero di nuovo sulla porta di casa, con l’iPod scarico e nessuna motivazione.

Ma poi, immancabilmente, arriva il momento in cui ti trovi nel camerino di un negozio e ti vedi riflessa in tutta la tua bianchiccia morbidezza (da questo si deduce che a casa gli specchi li rifuggo come un vampiro).
E nonostante in un camerino gli specchi siano sempre strategicamente posizionati in modo da togliere almeno una taglia, la cellulite, le smagliature, la pancetta e i budini che pendono dalle braccia si riflettono benissimo. 8 ore al giorno seduta a una scrivania e i tessuti si rilassano, e mi ritrovo in un corpo di una taglia più grande di me.
Peccato che coi tessuti adiposi non si possa fare il risvolto alla caviglia come con i jeans che ci comprava la mamma alle medie.

A questo punto, decido che devo ricominciare a andare in piscina.

Ho imparato a nuotare intorno ai 6 anni e tecnicamente non ho mai smesso. Ho solo lasciato passare sempre più tempo fra una comparsata in vasca e l’altra.

Faccio un sopralluogo nella piscina che sta a 10 minuti da casa. Compatta, minimal, quasi zen. È una vasca di inox, e l’impressione è di nuotare in una gigantesca pentola. Piena di acqua gelata.

Nonostante il nuoto non richieda un grosso equipaggiamento, riesco comunque a presentarmi in tenuta fantozziana. Il mio costume, rimasto troppo tempo appeso al chiodo, ha perso tutta la fibra elastica: per entrarci mi serve il calzascarpe e, una volta indosso, tutti i bordi svolazzano come ruches. Orrore! Gli occhialini anche se tenuti stretti non sono più a tenuta stagna e quando li tolgo, per una buona mezz’ora ho gli occhi cerchiati stile panda. Spavento!

Ora, se si pensa ai tedeschi, per associazione di idee si pensa a ordine e rigore, caratteristiche sconosciute al popolo italico. Ma ci sono delle eccezioni. E la piscina è un'isola felice, dominata dal caos.
Qui infatti la piscina -ogni piscina- sembra il centro di Napoli il sabato pomeriggio: una collezione di ingorghi, seconde file, tamponamenti, parcheggi abusivi e sorpassi coraggiosi. Complice il fatto che, nella zona destinata al nuoto libero non ci sono galleggianti a determinare le corsie, è l’anarchia a farla da padrone.

Nello stesso spazio cercano di evitarsi individui che galleggiano placidi come iceberg, drop out di aquagym che saltellano da una sponda all’altra, wannabe medaglie olimpiche con tanto di bottiglietta di integratori posizionata vicino alla scaletta, e io, che vorrei solo nuotare e invece mi ritrovo a lottare per la sopravvivenza.
Cerco di mantenere una linea retta, e mi ritrovo a fare da boa per quelli che, presi da slancio agonistico, mi doppiano a ogni vasca. E così come mi infastidiscono gli abbaglianti abusati in autostrada da quelli che spingono perché cambi corsia, sono insofferente anche a quelli che in acqua, ti toccano –inavvertitamente?- i piedi per farti capire che stai rallentando la loro andatura.
La tentazione di sbagliare –inavvertitamente?- il colpo di gamba a rana e assestargli una tallonata sul setto nasale è forte.

Un’ora a mollo in queste condizioni è divertente come percorrere la tangenziale est di Milano alle 8 di mattina. Non se ne esce rilassati.

La prossima volta che mi salta in mente di cimentarmi con lo sport faccio un salto alla bocciofila. Tanto so che quando capiterà, mi ritroverò coetanea dei più stoici avventori.

Friday, 15 October 2010

Tales from the lost property office


Questa settimana ho perso il cellulare. A 10 giorni dal trasloco, dopo aver dato il mio numero a mezza Francoforte per consegne e sopralluoghi. Tempismo perfetto.

Mi sono accorta di non avere più il telefono addosso troppo tardi, una volta arrivata a casa; assalita da uno strano presentimento mentre giravo la chiave nella toppa, mi sono rivoltata le tasche e ho rovesciato il contenuto della borsa sul pavimento: il presentimento si è trasformato in fulminea incazzatura seguita da immediato sconforto.

Ho provato subito a chiamare il mio telefono: ha suonato a lungo a vuoto e me lo sono immaginato nella sala del cinema dove sedevo solo 20 minuti prima, vibrante ma silenzioso nel tentativo disperato di far notare il suo piccolo display nascosto da file di poltrone immerse nell’oscurità.

Ho ristretto il campo delle ricerche a 2 zone: il cinema e la stazione della metropolitana dove ho saltato tra le porte dell’ultimo treno che poteva portarmi a casa.

Mi sono presentata al cinema il mattino successivo, e ho interrogato il personale dell’impresa di pulizie. Nessun ritrovamento segnalato. “Ok, ma posso portarvi esattamente dove ero seduta ieri sera”; appena ho pronunciato il numero della sala, i miei 2 interlocutori si sono guardati e hanno scosso la testa, come se gli avessi appena comunicato che il mio cellulare era stato inghiottito da un buco nero e trasformato in antimateria. “Va bene, torno più tardi, magari salta fuori”. E così ho fatto replicando la scena nel pomeriggio con una fila di cassiere che mi hanno risposto con un’alzata di spalle.

Nel frattempo, a 16 ore dall’ultimo avvistamento, il mio cellulare risultava ormai non raggiungibile. “Si sarà scaricato”, ho pensato, non rassegnandomi all’idea che qualcuno avesse veramente voluto tenersi un Nokia da 20 euro con 3 euro di traffico, pieno di contatti -miei- e di arguti sms -destinati a me- che non ho mai il cuore di cancellare, e che ora non potrò più rileggere quando ho voglia di strapparmi un sorriso.

Chiunque tu sia, nuovo illegittimo proprietario del mio telefono, mi auguro che ne avessi veramente bisogno perché non si può certo dire che tu abbia fatto un affare.

Ci ho creduto fino all’ultimo. Sono stata 2 volte anche all’ufficio oggetti smarriti dei trasporti pubblici, con la convinzione che qualche buonanima di passaggio l’avesse raccolto e consegnato. Niente da fare. C’erano però 3 iPhone, a testimonianza che di gente onesta ne esiste ancora, nonostante tutto.

Mi rivolgo ancora a te, ladruncolo da strapazzo, perché questo è quello che sei: non hai attenuanti; il mio telefono era acceso, e pieno di numeri che rispondono al nome dei miei amici. Se, preso dallo scrupolo che consegnare il mio cellulare alla cassa del cinema o al personale della metropolitana significasse regalarlo a loro, potevi facilmente risalire a me, e, giocando a fare il detective, risolvere il caso; in cambio saresti stato investito dal mio entusiasmo nell’apprendere la bella notizia, che non ogni lasciata è persa.

Ti avrei offerto almeno un caffè, se ti fossi presentato con quello che io distrattamente ho perso e tu ti sei egoisticamente tenuto, e saresti stato protagonista di un post su questo blog, l’eroe di una storia piccola, ma talmente bella da risultare inverosimile.

Tuesday, 7 September 2010

Cappadocia dreamin’


È arrivato il momento della resa dei conti: sposto il vassoio, pulisco sommariamente le dita che hanno cercato di rivitalizzare delle patatine fritte con degli impacchi di ketchup, e apro sul tavolo del Burger King il quaderno su cui ho annotato con la precisione di un ragioniere tutte le uscite –giustificate e meno- della vacanza.

C’è tensione nell’aria, la stessa tensione che si respira nelle fasi conclusive di una puntata di “OK, il prezzo è giusto”. Il tasso di cambio e gli svariati metodi di pagamento utilizzati – Questo lo pago con la carta / Questo me lo anticipi tu? / Faccio un bancomat e mi dai i contanti / Come stiamo messi a cassa comune? / E offrimelo, un gelato! - hanno reso vano qualsiasi tentativo di tracking delle finanze.

Una cosa sola è certa: una vacanza, e un viaggio, non andrebbero mai misurati in numeri. Si può fare, ma a costo di inquinarne il ricordo.

Per me e il mio compagno di viaggio, ad esempio, 17 giorni in giro per la Turchia possono essere riassunti in una sterile anche se interessante lista:

• 4 viaggi in pullman, per un totale di 28 ore e più di 2000 sobbalzanti chilometri.

• Almeno 200 chilometri in motorino, per toccare i 4 angoli della Cappadocia e raggiungere le spiagge più inaccessibili.

• 15 kebab, di ogni forma, con qualsiasi condimento ma di un’unica dimensione: killer.

• 8 stanze d’albergo, di cui 3 nello stesso, in cui ci siamo ritrovati a riempire i buchi di altre prenotazioni.

• 486 fotografie, numero imbarazzante ridotto drasticamente dopo attenta selezione e una pioggia di fotocomposizioni.

• 17 gradi di escursione termica tra Istanbul e Francoforte dove abbiamo trovato ad accoglierci una pioggerellina che sembrava dire “se non ve me siete accorti, sono finite le vacanze”.

• 2 ½ le ore di ritardo totalizzate dall’aereo che doveva portarci a Istanbul. Ritardo che ci ha fatto perdere il volo per Francoforte obbligandoci a una permanenza forzata in aeroporto che ha sfiorato le 18 ore.

E sono numeri anche quelli che campeggiano a fondo pagina sul mio quaderno, e sembrano numeri grossi. Ma le addizioni sono piuttosto semplici, e il risultato, anche grazie alla calcolatrice del cellulare, è corretto.

I numeri, al Burger King dell’aeroporto di Sabiha Gökçen, parlano chiaro.

Abbiamo speso oltre ogni aspettativa, forse perché abbiamo speso sempre senza pensarci 2 volte. Sarà stata anche colpa del cambio euro-lira turca a 1,90, che dava l’impressione che tutto costasse la metà per poi dare il colpo di grazia del 10% sul totale.

Grazie al cielo non saranno i numeri quello che ricorderò della Turchia.

Sarà la gente, che spesso, non sapendo spiegarci in inglese come raggiungere un ristorante, o una via, ci portava a destinazione quasi per mano, salutandoci con un sorriso.

Sarà la luce, e i colori che creava: cieli immensi, e l’ombra delle nuvole adagiata sulle colline.

Saranno gli spazi dove lo sguardo può vagare per chilometri, senza incrociare edifici o anima viva.

Saranno i profumi e soprattutto i sapori di una squisita cucina mediterranea sporcata da tocchi orientali

Sarà il suono del gas soffiato nelle mongolfiere, unico indizio del loro silenzioso fluttuare nell’alba rosa di Goreme sulle teste di tante persone addormentate nei camini delle fate. Come meduse giganti.

Sarà il senso di gratitudine che provo ogni volta che vengo investita dalla bellezza, in tutte le sue forme.

Andate in Turchia, prima che diventi trendy, prima che comincino a aprire discoteche con i divani bianchi e musica lounge sulla spiaggia. Prima che diventi semplice, scontata, la brutta copia di qualsiasi altro paese che si affaccia sul Mediterraneo. E armatevi di pazienza, perché anche se sconfinerete in Asia avrete l’impressione di non essere mai stati tanto a sud a livello di ritmi e di organizzazione.