Monday, 28 May 2012

Un ragazzo per l’estate

Anche se il meteo non sembra essersi ancora allineato, a Milano è scoppiata la primavera: l’ormone è in circolo come i pollini, per la gioia di romantici e allergici.  
Coppie di adolescenti e di ex adolescenti si tirano limoni hollywoodiani alla fermata del tram. Stamattina a Lambrate ce n’erano due che letteralmente si mangiavano la faccia. E io non riuscivo a smettere di guardarli, inebriata dal mix di imbarazzo e curiosità. Se continuo così mi arresteranno per stalking, lo so.

È che mi sento un po’ sola… Non ho l’energia né l’entusiasmo per innamorarmi, ma fare la Bridget Jones di turno per l’intera estate è un bell’impegno… La soluzione sarebbe trovare un uscente: qualcuno che mi aiuti a finire la vaschetta di gelato mentre ci guardiamo la nostra serie TV preferita (ovviamente uno che condivide i miei gusti, pistacchio&drama), qualcuno che “mi offra coni e limonate” come recita una canzonetta che sembra scritta di mio pugno, e che invece risale all’epoca dei musicarelli, quando Morandi andava militare. Vorrei qualcuno che mi quando mi accompagna a casa aspetti che sparisca dietro al portone prima di sgommare via. Qualcuno a cui chiedere “ti va di salire?”, quando va anche a me.

Potrei organizzare un casting… Chissà chi si presenterebbe? Potrei dare delle indicazioni di massima, tipo… prego astenersi:

·         Uomini troppo (o troppo poco) depilati.

·         Uomini con lo chignon (come sopra, questo non è il casting di Uomini e Donne).

·         Uomini che indossano spavaldi i pantaloni della tuta. I pantaloni di maglia non sono trendy. Non lo sono mai stati, per quale motivo dovrebbero diventarli? No, accostarli alla camicia non li sdogana. Ma dove l’imparate lo stile voi? Dai video di Zumba fitness? Scusate, mi sono lasciata prendere.

·         Il supertifoso, che in un estate di europei di calcio e olimpiadi è già parecchio impegnato.

·         Gente col nome d’arte. Se diventiamo intimi come ti chiamo? Il nome di battesimo lo usa solo tua mamma, il nomignolo è destinato ai fan… Gattino? Ma come stai messo?

·         Il radical-chic, che storce il naso davanti alle mie scelte cinematografiche. O musicali. O culinarie.
A volte ho bisogno di comprare un kebab completo pieno di tutto e mangiarlo spalmata sul divano davanti a “Abiti da sposa a Beverly Hills”.

Oppure potrei tenermi gelato e divano tutto per me, e continuare a fantasticare sul principe azzurro. Facendo  finta di non accorgermi che è gay. 

Friday, 30 March 2012

Ladri di biciclette


Riemergo dalla fermata della metro facendo ciondolare le chiavi; è uno splendido pomeriggio di inizio primavera, e dopo 20 minuti trascorsi sottoterra non vedo l’ora di pedalare fino a casa.

Ci metto un istante più del necessario a individuare la mia bicicletta, e questo perché risulta quasi interamente nascosta da una persona che vi si è accovacciata davanti.

Senza accelerare il passo, accorcio la distanza tra me e quella schiena che mi sembra indaffarata a armeggiare con il mio lucchetto.  
“Posso aiutarla?” mi sento chiedere, con la dolcezza di qualcuno che muore dalla voglia di compiere la buona azione quotidiana.
Vedo la schiena irrigidirsi, come in una preda che annusa la minaccia; negli interminabili secondi in cui il corpo si gira verso di me, il viso cerca di simulare un’espressione sorpresa:
“È sua questa bicicletta? Perché l’ho vista cadere e stavo cercando di assicurarla alla ringhiera...”
Nel frattempo la mia nuova conoscenza si è alzata, e con aria di scuse, cerca di scartarmi di lato; io mi faccio più vicina, incastrandolo fra me e il muretto. Presa in contropiede dalla mia lucidità, decido di stare al gioco: “Grazie, ma non era necessario...” e poi, afferrandogli il gomito e avvicinando la faccia alla sua sibilo: “...e se lei si avvicina di nuovo alla mia bicicletta, mi toccherà denunciarla”.
Annuisce, smascherato nelle sue cattive intenzioni, e mi sembra pure di indovinare del rimorso nello sguardo che abbassa immediatamente mentre si allontana con le mani in tasca.

Non ho redento nessuno, sia chiaro, ma sono sollevata al’idea che oggi non sia toccato a me tornare a casa a piedi.
 
Ecco cosa può succedere in un affollato angolo di Milano, tracciato dalle persone che lo attraversano veloci come le palline in un flipper.  

Ecco cosa mi è passato davanti agli occhi qualche giorno fa, quando arrivata alla fermata ho realizzato che la mia bici non era più lì ad aspettarmi.

Ecco cosa avrei voluto raccontare, invece che sospirare un laconico “mi hanno fatto la bici in Porta Genova”. 
Perché una storia così ti lascia sperare che non ci sia sempre un unico finale.

Ecco cosa è invece successo: che una giovane donna emancipata, davanti a una scorrettezza così immeritata, scoppi in lacrime e senta il bisogno di abbracciare la mamma, come quando alle elementari si sbucciava le ginocchia giocando in cortile.
Un'immagine sicuramente meno valorosa, però anche più vicina alla realtà.

E forse la parte più difficile da digerire è la beffa che segue il danno: perché ti ritrovi sconfitto, ingiustamente privato di qualcosa che non solo ti apparteneva, ma che consideravi di vitale importanza, e tutte le persone con cui ti sfoghi ti mettono davanti alla tua parte di responsabilità; perché se hai parcheggiato per 2 giorni di seguito nello stesso posto, se non ti sei procurato una catena che vale più della bici, se hai scelto una bici che, magari non è il top della gamma, ma che comunque si piazza bene sui mercatini delle pulci, perché è sottile, leggera, veloce, viola/grigia e coi cambi sulla canna (una bici che il wannabe hipster si sogna di notte nella versione a scatto fisso) beh, allora dai, te la sei andata a cercare...

Il mio karma deve darmi una tregua, nel frattempo sopporterò l'umiliazione di girare con una bici che non è mai stata di moda, sperando che almeno questa non faccia gola a nessuno. 

Thursday, 15 March 2012

Ignorance is bliss

Questa è la storia di come, senza quasi rendermene conto, ero di nuovo una pendolare.
In che modo fossi ritornata a rimbalzare come la pallina di un flipper tra le stazioni di Rovato e Lambrate a me poteva essere sfuggito, ma tutti quelli intorno a me avevano notato un mio repentino imbruttimento.

Ma questa è una storia a lieto fine: sono bastate quattro settimane di fegato spappolato dal prendere freddo e rabbia su banchine deserte a farmi decidere di investire uno stipendio ancora tutto da guadagnare nell’affitto di una stanza in quel di Milano.

Passare tre ore al giorno col culo su un sedile non è impresa da poco ma ci si fa il callo, come a qualsiasi cosa: l’essere umano ha un istinto di sopravvivenza e una capacità di adattamento che sconfinano nel soprannaturale.

Ma uno non può passare tutto il viaggio a guardare fuori dal finestrino: sulla tratta Milano-Venezia non ci sono né i panorami né i compagni di bridge dell’Orient Express.
Rispetto agli automobilisti almeno, chi viaggia in treno può ammazzare il tempo intrattenendosi in diversificate attività.
Se viaggio la mattina io di solito riprendo da dove sono stata interrotta dalla sveglia, anzi da un attimo prima: dopo un sonnellino ristoratore, mi servo la seconda colazione e solo allora comincio a portarmi avanti con il lavoro; se invece voglio svagarmi mi dedico a un romanzo o a un podcast.

Tutte attività ostacolate dalla logorrea sdoganata dalle tariffe flat dei cellulari.
Come riuscire a concentrarti su un libro se la persona seduta a 30 centimetri da te, preoccupata per la salute intestinale del suo bimbo, telefona a tutte le mamme dei compagni di classe del figlio per raccogliere dettagliate informazioni sulle deiezioni dei bambini (l’ha fatta? Quante volte? Di che colore era?).

Forse l’unica cosa a cui non ci si abitua facilmente sono proprio i compagni di viaggio…

Una mattina di quelle polari del mese scorso, in cui i treni risentivano ancora degli strascichi dei ritardi causati dal maltempo, ho viaggiato per 70 minuti (e 70 chilometri) nello spazio tra le porte e il bagno. Eravamo almeno una decina a dividerci quattro scricchiolanti metri quadri. Come in un ascensore. In caduta libera, a giudicare dalle sbandate.

Io, in equilibrio precario con una maniglia fra le costole e la borsa fra le ginocchia, cercavo di leggere, consapevole che alle 9.18 di un lunedì mattina avevo già esaurito le scorte di pazienza per la settimana.

Ma poi, due stazioni dopo la mia, è salita lei. E la mia giornata ha acquistato un senso.

Un paio di leggings bianchi, portati con disinvoltura sotto a un piumino corto, una stuccata di fondotinta e i capelli torturati dalla piastra erano già un bel biglietto da visita. Ma poi questa dea ha aperto bocca, dando il via a un escalation di puttanate interrotta solo dal termine corsa del treno.

A quanto pare, princess quella mattina non aveva nessuna intenzione di andare a scuola: trascinata per l’orecchio dalla madre fino al portone, l’aveva trovato chiuso causa maltempo; aveva allora deciso di fare un giro di shopping a Milano, scortata da due ancelle. Immaginatevi questo resoconto condito da bestemmie così colorite da far impallidire un muratore bergamasco.

Le dame di compagnia si interessano allora al suo fine settimana: princess è stata in discoteca, come tutti i fine settimana, d’altronde.

Guardavo questa ragazzina e provavo una certa inquietudine: quando io avevo 16 anni il massimo della trasgressione era leggere libri come Trainspotting, mentre per lei vivere come uno dei protagonisti è la normalità.

Ognuno è libero di essere adolescente, per carità. Non so quanti di noi, se potessimo tornare indietro ci riproverebbero, ma è in quegli anni che si impara tutto. Forse per questo stonava la sicurezza con cui questa ex bambina si improvvisava tuttologa.
Perle ai porci, era un peccato non raccoglierle!

Di seguito, per accuratezza filologica, riporterò alcune delle citazioni che mi appuntavo integralmente sul cellulare fingendo di comporre un lunghissimo sms. Lo so, non sarà eticamente inappuntabile prendermela con un soggetto problematico, ma pur di non morire di noia questo e altro!

MUSICA: “A me piace la techno. Ti entra nel cervello”
(O fa eco nella scatola cranica, come succede a te)

MODA: (dando consigli sull’outfit adatto a una festa) “Io mi metterei le Hogan. O i tacchi”
(Ottimo. Perché non direttamente le Hogan con i tacchi? Quintessenza dell’eleganza)

PROSPETTIVE PER IL FUTURO: “… Poi sabato sono salita sul palco con la vocalist a fare bordello. Lei fa cagare, è brutta ma è famosa: fa un cifro di serate a Alessandria e altri posti strani.
Ci sta fare la vocalist: bevi una cifra, ti fanno le foto, sei sempre al centro dell’attenzione, di giorno non fai un cazzo … L’unica menata è se ti viene il mal di gola…”
(Ineccepibile)

DRINK: “Il fragolino ci sta una cifra”
(Eccepibile. Però alla tua età pensavo che la Keglevich alla menta fosse il non plus ultra.)

Io non sono Esopo, e questa non era proprio una favola, ma una morale si può comunque trarre:
L’ignoranza altrui è affascinante, e può costituire materia di intrattenimento.
L’ignoranza propria invece, a giudicare dalla frequenza con cui princess pronunciava “strabello” è un buon vaccino contro l’asprezza della realtà.

Peccato che, se stiamo a ascoltare Socrate, il riconoscere la propria ignoranza sia di per sé sintomo di saggezza…
Siamo proprio destinati alla delusione.


Saturday, 18 February 2012

Cacio e pepe

Ho ricominciato a andare a Milano tutti i giorni. Lo so, le cattive abitudini sono dure a morire.
E ogni giorno si ripresenta l’annoso problema della pausa pranzo.
Un giorno sono andata da Mac Donald’s, a assaggiare un hamburger con la mozzarella: non è stato il pranzo più indimenticabile della mia vita, ma le aspettative erano abbastanza basse.
Ieri invece, per interrompere una dieta di preziosissime pizze e focacce (a giudicare dai prezzi), ho deciso di regalarmi una mezz’ora seduta e di gustarmi un pasto caldo.

Solo che non è stato facile come sembrava…

Scelgo un baretto molto frequentato e, per non rubare il posto agli aficionados, chiedo al barista dove posso sedermi: questo scrolla le spalle e mi dice “siediti”. Eseguo l’ordine e vengo subito assalita da un cameriere che ha fatto della simpatia forzata il marchio di fabbrica.
Ordino un piatto di pasta, e appena il gioviale personaggio si allontana, dopo aver pronunciato “ottima scelta!”, mi rendo conto di aver commesso un errore: ho ordinato della pasta in un locale senza cucina.

Tempo due minuti mi viene scaraventato sul tavolo, senza tante cerimonie, un piatto con dentro una bestemmia: una dozzina di penne (non rigate!) scotte, riscaldate al microonde e di nuovo raffreddate, secche e appiccicaticce, tenute insieme dal formaggio e naviganti in un dito d’olio.

Premessa necessaria: io mangio di tutto e di gusto, ma non mi piace essere presa per il culo. E io con questa pasta ce l'ho messa tutta, ma non sono riuscita a finirla.

Mi è montata dentro una rabbia che sono riuscita a sopprimere solo raccontando il mio disagio alla prima persona che mi è capitata a tiro: se non avessi avuto l’ardire di lamentarmi con il proprietario del bar, quella pasta mi sarebbe rimasta sullo stomaco.

Trovandomi nei panni della cagacazzo, ci sono andata cauta, esordendo con un mea culpa “forse ho sbagliato io a ordinare, dato che non avete la cucina…” prima dell’affondo “... ma voi non potete presentare una pasta così!”. Sono passata quindi alla descrizione di tutto quello che c’era di sbagliato in quel piatto, concludendo con un consiglio non richiesto “insomma, se la pasta non potete cucinarla, non mettetela sul menù”.
In tutta risposta, mi sono sciroppata un’accurata analisi costi/benefici: a quanto pare, gli affari danno ragione all’oste e i numeri parlano chiaro se, a fronte di una persona insoddisfatta del servizio (la sottoscritta), lui sfama le restanti 120/150 persone che ogni giorno si accalcano nel suo locale. Sarà. E soprattutto, devo tenere ben presente che “la pasta la faccio pagare solo 5 euro, non 15”. Egraziealcazzo, mi sono trattenuta dal ribattere.

Io non voglio insegnare il mestiere a nessuno, ma come si fa a sbagliare così clamorosamente una pasta che non ha nemmeno il sugo? Non ti ho chiesto un aspic di aragosta accompagnato da spumiglie di foie gras. Un piatto di pasta, perdio!  Per lo stesso motivo, non vedo perché devi farmi credere che stai facendo volontariato, della serie “sfamare gli affamati”, quando invece con i 5 euro miei fai la spesa per 3 chili di pasta cacio e pepe.

E lì ho capito due cose: che un arredamento di gusto non è garanzia di buona cucina. E che i milanesi probabilmente si nutrono di design.

Quando ho lavorato come cameriera, parte del mio lavoro era assicurarmi che i clienti fossero soddisfatti; anche se chiedere a un tedesco se si era trovato bene in un ristorante italiano era retorico, lo facevo comunque, e quando mi rispondeva “buonissimo!” mi inorgoglivo tutta, manco fossi stata io a spadellare ai fornelli.
Invece in questo caso una critica è servita solo a insospettire il mio interlocutore, che mi ha fatto comunque pagare la pasta che non ho mangiato, offrendomi un caffè per seppellire l’ascia di guerra.

Potevo pagare, uscire di lì incattivita e sputtanarlo, e invece ho voluto essere trasparente, segnalare la mia insoddisfazione, uscire a cuor leggero e sputtanarlo.

La vita è troppo breve per mangiare cibo scadente. 

Sunday, 12 February 2012

Ciao amore ciao

Ho appena finito di leggere un libro –Caos calmo di Veronesi– in cui il protagonista crede che la moglie scomparsa comunichi con lui attraverso i testi delle canzoni dei Radiohead.

Ho avuto anch’io un’epifania di questo genere: ascoltando in loop l’ultimo disco dei Black Keys, una collezione di canzoni tanto ruvide quanto ruffiane, una frase, tra le tante orecchiabilissime che si incollano alla lingua, continua a rimbombarmi nella testa: She’s the worst thing, I’ve been addicted to, che in italiano, snaturata la ritmica incalzante, suona come lei è stata la mia peggiore dipendenza.

Queste parole, ribaltate sulla prospettiva femminile, descrivono cosa per me è ora la persona che per quattro anni ho definito il mio ragazzo: la dipendenza più forte e pericolosa mai provata.

Posso affermarlo adesso, che ne sono uscita, ora che sono pulita, dopo essere passata attraverso tutte le fasi dell’intossicazione:
  • La scoperta
Mi incuriosiva. Mi piaceva, tanto, d’altronde mi era piaciuto da subito. E mi piaceva sempre di più man mano lo conoscevo. C’erano tutte le premesse: il mistero che lascia spazio alla complicità, la continua riscoperta.

Come con qualsiasi sostanza psicotropa, ero sotto prima ancora di rendermene conto.
  • L’assuefazione
Volevo solo stare con lui. Sempre. L’ho amato di un’adorazione che solo una liceale può professare senza perdere la faccia, cercavo di compiacerlo in tutto e non accettavo di vederlo contrariato.

Ero terrorizzata di non essere alla sua altezza.

Ho amato incondizionatamente, preoccupata esclusivamente della sua felicità. E siamo stati felici, e tanto, sostenuti da quella spensieratezza che ti fa credere che tutto sia possibile.

Giocavamo, ma nessuno aveva stabilito le regole. Con il risultato che nessuno dei due ha vinto.

Il nostro unico comandamento era rimanere liberi all’interno della coppia. Solo che la libertà si trasforma velocemente in egoismo, se si perde di vista l’obiettivo comune.
  • La dipendenza
Avevo bisogno di quelle massicce scariche di endorfine generate dal nostro stare insieme.

Pensando alle circostanze in cui ci eravamo trovati, mi ero convinta che lui fosse l’unico possibile per me, l’unica persona che calcasse il mio universo spazio-temporale, la cui imperfezione si incastrasse perfettamente con la mia imperfezione. Non tanto la mia metà –da donna emancipata non accettavo il fatto di aver bisogno di un uomo che mi completasse- ma sicuramente qualcuno che arricchiva la mia esistenza.

Il problema della dipendenza però è il suo essere a senso unico, e il danneggiare sempre solo una delle due parti: l’alcool se ne sta tutto tranquillo in una bottiglia; può cercare di sedurmi promettendomi di rendermi infinitamente più attraente di quanto sono in realtà, ma la sua influenza si ferma lì. Sono io quello che stappo la bottiglia e vado incontro alle conseguenze.
  • La crisi da astinenza
L’ho seguito ovunque, a volte l’ho inseguito e il resto del tempo l’ho aspettato.

Ho imparato a sopportare la solitudine, docile e fiduciosa che una ricompensa sarebbe arrivata.
Mi mancava terribilmente, quando mi tagliava fuori dalle sue malinconie, ma non volevo farglielo pesare; volevo dimostrarmi più forte, più indipendente di quanto fossi in realtà.
  • Il collasso
E poi sono stata male: non ho avuto bisogno di una puntura di adrenalina nel cuore, come Uma Thurman/Mia in Pulp Fiction, ma per riprendermi ho dovuto passare attraverso la presa di coscienza che qualcosa non andava, nonostante continuassi a negare l’evidenza.
  • Il distacco
Doloroso ma necessario. Fisico, come la subitanea (e per me allarmante) perdita di appetito che ha seguito la separazione e che mi ha portato fino allo studio di un medico il quale, premuroso ma schietto, mi ha messo alla porta dopo soli due minuti: d’amore non si muore, a quanto pare.
  • Il desiderio di rivalsa
Ce l’ho fatta. Ce l’ho fatta. Ce l’ho fatta.
E tu devi accorgertene. Voglio che tu sappia che non ho più bisogno di te per sorridere; ma prima devo convincere me stessa.
Sto bene. Sto bene. Sto bene.
Starei ancora meglio se ti rendessi finalmente conto di avermi persa. Perché la cosa peggiore che puoi fare a uno dei tuoi affetti è darlo per scontato. Bisogna meritarselo, l’amore, e custodirlo.
  • La sobrietà
Ci siamo rivisti, dopo 6 mesi di sporadici contatti: all’inizio telefonate tecniche, quasi investigative, con cui provavamo a ricostruire l’accaduto perdendoci invece in un magma di recriminazioni. Poi siamo passati alla civile conversazione, raccontando dell’io, chiedendo del tu e evitando accuratamente di fare riferimento al noi.

Ho fatto uso di surrogati, come la chat: un contesto protetto in sono riuscita a lasciarmi andare. Proprio come era successo all’inizio, quando avevamo capito che non eravamo solo buoni compagni di master.

E poi, settimana scorsa, abbiamo passeggiato in centro, proprio come era successo all’inizio, quando cercavamo scuse per ritagliarci dei momenti solo per noi.

Solo che le farfalle nello stomaco non c’erano più.

Sono come un'ex alcolista che catapultato in una festa con l’open bar ordina solo coca cola. E non perché ha paura di ricascarci, ma perché ha scoperto che la coca cola le piace tantissimo.

Ho voltato pagina, e se qualcuno mai mi metterà alle strette chiedendomi di giustificare alcune scelte compiute in passato, risponderò orgogliosa “perché ero innamorata”.

Non sarà una risposta dalla logica inappuntabile, ma mi sembra una spiegazione più che nobile.

Tuesday, 31 January 2012

Disoccupati anonimi

Sono Claudia, ho quasi 30 anni e sono disoccupata. E questo non mi definisce, anche se devo ammettere che a parte il nome, gli altri due aspetti danno un quadro abbastanza chiaro della situazione.
È un dato di fatto, e finora sono riuscita a non farne un dramma: essere disoccupata e non sentirlo, forse perché, in risposta a un istinto di conservazione diventato prepotente in un momento così incerto della mia esistenza, sono riuscita a stabilire una routine.

Mi sveglio quando la Gilda, il cocker di casa, appoggia il suo naso umido contro il mio, come a controllare che respiri ancora, confusa dall’assenza di logica: “com’è che al piano di sotto si fa colazione, c’è cibo sul tavolo e questa non si muove dal letto?”; allora mi alzo, e ogni mattina mi concedo il lusso di bere il caffè in pigiama, leggendo un libro e senza controllare continuamente l’orologio. Poi mi lavo la faccia, accendo il computer e vado online a fare il punto della situazione. Fino all’ora di pranzo leggo e rispondo a mail, annunci o compilo form. Cazzeggio anche parecchio su Facebook, confesso, ma quello si fa anche in ufficio. Il pomeriggio lo inizio con i Simpson (l’unico programma guardabile) e quando spengo la TV cerco di trovare qualcosa da fare che non mi obblighi a stare di nuovo seduta davanti a uno schermo. Tra i progetti più riusciti ho incollato foto a un album, creato spille e riordinato la soffitta. Un paio di volte a settimana aiuto un liceale a preparasi a verifiche e interrogazioni.      
A singhiozzo ma comunque da quasi tre mesi, questa è la mia vita. 

Non sono una persona metodica, ma stavolta un po’ d’ordine me lo sono dovuta imporre: ho un file Excel  su cui riporto con rigore da ragioniere nome dell’azienda, indirizzo del sito, e-mail del contatto e data in cui ho inviato il CV. Recentemente ho aggiunto la colonna “risposta” e lì è tutto un copia e incolla di “no grazie”.

Ieri, con il rigore scientifico che questo schema mi impone, mi sono messa a contare le richieste che ho inviato da ottobre a oggi. Sono 179, una cifra che, sommata ai curriculum consegnati a mano in scuole e studi di Brescia e Milano, sfonda il ragguardevole tetto dei 200.
200 CV che corrispondono a 200 potenziali posti di lavoro, e in tutta risposta due contratti consegnati per presa visione e non controfirmati, un paio di trattative in atto, una ventina di repliche negative ma incoraggianti e il resto inghiottito dall’oblio.  
E anche se solo il 10% di questo numero che continua a sembrarmi importante riguardava posizioni aperte, anche con l’autocandidatura non mi sembra di aver fatto improvvisate.

La legge dei grandi numeri qui non si applica: non esiste una percentuale di successo a cui aggrapparsi aumentando esponenzialmente il numero dei contatti. Forse alcune delle mie richieste sono state un po’ azzardate, per posizioni che non rispecchiavano quelle da me occupate in passato, ma mi piaceva aumentare il fattore casualità nell’equazione.  
In generale però, la mia ricerca è stata guidata dal fatto che io mi ci vedevo alla scrivania di ognuno di questi uffici; ogni lavoro per cui ho fatto richiesta me lo sono provato addosso, come un paio di jeans.
Tutti siamo disposti a pagare caro quel paio di jeans che ti calzano come un guanto a cui saremo eternamente grati per  averci salvato in innumerevoli occasioni in cui nessuna mise sembrava funzionare; ma se li troviamo nei saldi, possiamo farci andar bene anche un paio di jeans che vanno un po’ stretti, o magari quelli che non fanno un grande favore alla figura, ma che si abbinano all’intero guardaroba.

Non trovo lavoro e non capisco dove sia il problema: peccherò di presunzione, ma non è solo colpa mia. Non posso essere l’unica responsabile. 
Ho letto e riletto il mio CV, e la mail che lo accompagna, drammatizzando il distacco da quelle parole di cui so di essere l’autrice: sono entrambi studiati, rielaborati e ripuliti fino alla nausea per raggiungere il giusto equilibrio di sintesi e leggerezza, ottenuto con ingredienti quale foto segnaletica, font sbarazzino, dettagli personali e personalizzati.
No, il problema non sono io. Pur con i miei evidenti limiti, il mio navigare a vista in campo professionale, il mio totale disinteresse (o forse disillusione) riguardo a prospettive di carriera, non sono l’ultima degli stronzi.
Sono un essere pensante, bisognoso di contatto umano e con un disperato bisogno di sentirsi utile.   

Puntando proprio sul fattore umano, mi sono prefissa di presentarmi in carne ed ossa in tutti gli uffici che è possibile raggiungere con una gita fuori porta. Settimana scorsa ero a Milano con una lista di indirizzi e una cartina e per una dozzina di volte mi si è ripetuta davanti agli occhi la stessa scena: suono, mi viene aperto e avanzo nel silenzio di un immacolata hall; gli uffici non si vedono, né tantomeno le persone che negli uffici ci lavorano: ogni intrusione viene bloccata dal candido sorriso di un’angelica segretaria che sbucando da dietro il colossale MAC che troneggia sull’unica scrivania visibile prende in consegna i due fogli pinzati insieme che le allungo -mi sembra una bestemmia passarle della carta, per di più strapazzata da ore passate nella mia borsa- e, senza smettere di sorridermi, mi dice "lo consegno al/alla responsabile al termine del meeting in cui è al momento impegnato/a". Prima di salutarmi, un paio di loro mi hanno pure chiesto per cosa mi candidassi, ma per pura curiosità, che andava oltre a quello per cui sono state addestrate.

Ma i più belli sono stati quelli della Fox: bypassata la scrivania della segretaria –scrivania vuota, segretaria malata o in pausa pranzo- mi è toccato scomodare un creativo dal suo scranno. Qui addirittura, facilitata dalla prossimità fisica ho azzardato una stretta di mano e intonato quattro parole di presentazione. La reazione: dopo avermi fatto notare che ero nella città sbagliata -del recruiting se ne occupa Roma- arriva il consiglio, brillante: “non ha consultato la sezione lavora con noi del sito?”.
Ti rispondo via mail.

Thursday, 26 January 2012

Ameni inganni

“Culicchia, non ci siamo: hai scritto un libro inutile”. Così avrebbe dovuto dirti il tuo editor. Non ti avrebbe fatto piacere, certo, ma non avrebbe deluso così tante persone che hanno amato le tue storie.
Perché nella tua carriera hai scritto pagine di struggente bellezza, ma nelle duecento e passa pagine del tuo ultimo romanzo non ne ho trovato nemmeno l’ombra.
Hai scritto un libro facile, superficiale, come una sveltina nei bagni di una discoteca.
Noi lettori vogliamo lasciarci sedurre dai personaggi, vogliamo passare con loro languide notti di passione e tenerezza, vogliamo il contorno di champagne, fragole, cioccolato, candele profumate e bubble bath, per non uscire di metafora. Possiamo sembrare anche lettori facili, in realtà siamo pronti per qualcosa di meglio, di inaspettatamente grandioso, come Julia Roberts in Pretty Woman.
Sì, questo è il mio ideale romantico.

Un libro che si esprime al meglio nel risvolto di copertina è come un film il cui il trailer riporta solo e tutto quello che vale la pena vedere. Il resto in entrambi i casi è tempo perso.
Per sicurezza il tuo libro oggi lo riporto in biblioteca, prima che mieta altre vittime tra i miei curiosi e famelici familiari, che ancora leggono quello che gli capita sotto mano senza prima contare le stelline delle recensioni. E meno male che uso ancora la tessera della biblioteca: in libreria non hanno mai sperimentato la formula “soddisfatti o rimborsati”, e se avessi comprato la bella edizione rilegata con l’ammiccante illustrazione psichedelica sarei rimasta con diciotto euro in meno nel portafogli, e mezzo chilo di carta in più a prendere polvere su uno scaffale. Perché questo, signor autore, è il tipo di libro che non finisci nemmeno per perdere a casa di qualche amico a cui l’hai prestato: questo libro ti rimane sul groppone, a ricordarti dei tuoi acquisti sbagliati come quel paio di scarpe in velluto viola cardinalizio che non sono mai riuscita a indossare (tanto belle nella scatola, tanto improponibili con qualsiasi accostamento). O come i libri di Fabio Volo.
Solo che lui non ha la tua credibilità letteraria da difendere.

Ma esponiamo il capo d’accusa: la premessa del romanzo è che Alberto, un quarantenne con tendenze autistiche, ossessionato da riviste porno e modellini di astronavi, perde la madre con cui ancora viveva e deve cavarsela da solo, affrontando problemi pratici come la gestione della casa e cercando di venire a patti con le sue immaginarie relazioni. Ma poi nel libro manca tutto il resto: la premessa è la storia, che non si smuove, non si sviluppa, non devia fino ad arenarsi in un finale che sa di già letto.

Cos'è successo, Culicchia? Lo so, non è un momento facile per nessuno, ma sono sollevata all'idea di non aver contribuito direttamente a pagarti il mutuo.

Non mi sei sembrato particolarmente ispirato, tutto qui… Forse voi artisti potete concedervi il lusso di innestare il pilota automatico: se sei davvero bravo a fare una cosa, e quella cosa ti esce sempre bene, a una certa non c’è più bisogno di sperimentare, e si riesce a rispettare le scadenze venendo allo stesso tempo incontro ai gusti del pubblico.
Io invece, che non ho un talento particolare, riesco a ritenermi soddisfatta di quello che faccio mai per un caso fortunato, ma solo quando vedo il frutto di tante ore passate in febbrile attività e con una paura immensa di fare un grosso errore.

Ecco, forse a te è mancato il coraggio: hai scelto di andare sul sicuro, e hai raggiunto un risultato mediocre.

Ti lascio con un consiglio: la prossima volta, invece che portare il lettore a riconoscersi nel protagonista con le sue nevrosi e disgrazie, cerca di ispirarlo, con personaggi che compiono gesti piccoli e belli, facili da imitare. Ce n'è di bisogno.