Questa è la storia di come, senza quasi rendermene conto, ero di nuovo una pendolare.
In che modo fossi ritornata a rimbalzare come la pallina di un flipper tra le stazioni di Rovato e Lambrate a me poteva essere sfuggito, ma tutti quelli intorno a me avevano notato un mio repentino imbruttimento.
Ma questa è una storia a lieto fine: sono bastate quattro settimane di fegato spappolato dal prendere freddo e rabbia su banchine deserte a farmi decidere di investire uno stipendio ancora tutto da guadagnare nell’affitto di una stanza in quel di Milano.
Passare tre ore al giorno col culo su un sedile non è impresa da poco ma ci si fa il callo, come a qualsiasi cosa: l’essere umano ha un istinto di sopravvivenza e una capacità di adattamento che sconfinano nel soprannaturale.
Ma uno non può passare tutto il viaggio a guardare fuori dal finestrino: sulla tratta Milano-Venezia non ci sono né i panorami né i compagni di bridge dell’Orient Express.
Rispetto agli automobilisti almeno, chi viaggia in treno può ammazzare il tempo intrattenendosi in diversificate attività.
Se viaggio la mattina io di solito riprendo da dove sono stata interrotta dalla sveglia, anzi da un attimo prima: dopo un sonnellino ristoratore, mi servo la seconda colazione e solo allora comincio a portarmi avanti con il lavoro; se invece voglio svagarmi mi dedico a un romanzo o a un podcast.
Tutte attività ostacolate dalla logorrea sdoganata dalle tariffe flat dei cellulari.
Come riuscire a concentrarti su un libro se la persona seduta a 30 centimetri da te, preoccupata per la salute intestinale del suo bimbo, telefona a tutte le mamme dei compagni di classe del figlio per raccogliere dettagliate informazioni sulle deiezioni dei bambini (l’ha fatta? Quante volte? Di che colore era?).
Forse l’unica cosa a cui non ci si abitua facilmente sono proprio i compagni di viaggio…
Una mattina di quelle polari del mese scorso, in cui i treni risentivano ancora degli strascichi dei ritardi causati dal maltempo, ho viaggiato per 70 minuti (e 70 chilometri) nello spazio tra le porte e il bagno. Eravamo almeno una decina a dividerci quattro scricchiolanti metri quadri. Come in un ascensore. In caduta libera, a giudicare dalle sbandate.
Io, in equilibrio precario con una maniglia fra le costole e la borsa fra le ginocchia, cercavo di leggere, consapevole che alle 9.18 di un lunedì mattina avevo già esaurito le scorte di pazienza per la settimana.
Ma poi, due stazioni dopo la mia, è salita lei. E la mia giornata ha acquistato un senso.
Un paio di leggings bianchi, portati con disinvoltura sotto a un piumino corto, una stuccata di fondotinta e i capelli torturati dalla piastra erano già un bel biglietto da visita. Ma poi questa dea ha aperto bocca, dando il via a un escalation di puttanate interrotta solo dal termine corsa del treno.
A quanto pare, princess quella mattina non aveva nessuna intenzione di andare a scuola: trascinata per l’orecchio dalla madre fino al portone, l’aveva trovato chiuso causa maltempo; aveva allora deciso di fare un giro di shopping a Milano, scortata da due ancelle. Immaginatevi questo resoconto condito da bestemmie così colorite da far impallidire un muratore bergamasco.
Le dame di compagnia si interessano allora al suo fine settimana: princess è stata in discoteca, come tutti i fine settimana, d’altronde.
Guardavo questa ragazzina e provavo una certa inquietudine: quando io avevo 16 anni il massimo della trasgressione era leggere libri come Trainspotting, mentre per lei vivere come uno dei protagonisti è la normalità.
Ognuno è libero di essere adolescente, per carità. Non so quanti di noi, se potessimo tornare indietro ci riproverebbero, ma è in quegli anni che si impara tutto. Forse per questo stonava la sicurezza con cui questa ex bambina si improvvisava tuttologa.
Perle ai porci, era un peccato non raccoglierle!
Di seguito, per accuratezza filologica, riporterò alcune delle citazioni che mi appuntavo integralmente sul cellulare fingendo di comporre un lunghissimo sms. Lo so, non sarà eticamente inappuntabile prendermela con un soggetto problematico, ma pur di non morire di noia questo e altro!
MUSICA: “A me piace la techno. Ti entra nel cervello”
(O fa eco nella scatola cranica, come succede a te)
MODA: (dando consigli sull’outfit adatto a una festa) “Io mi metterei le Hogan. O i tacchi”
(Ottimo. Perché non direttamente le Hogan con i tacchi? Quintessenza dell’eleganza)
PROSPETTIVE PER IL FUTURO: “… Poi sabato sono salita sul palco con la vocalist a fare bordello. Lei fa cagare, è brutta ma è famosa: fa un cifro di serate a Alessandria e altri posti strani.
Ci sta fare la vocalist: bevi una cifra, ti fanno le foto, sei sempre al centro dell’attenzione, di giorno non fai un cazzo … L’unica menata è se ti viene il mal di gola…”
(Ineccepibile)
DRINK: “Il fragolino ci sta una cifra”
(Eccepibile. Però alla tua età pensavo che la Keglevich alla menta fosse il non plus ultra.)
Io non sono Esopo, e questa non era proprio una favola, ma una morale si può comunque trarre:
L’ignoranza altrui è affascinante, e può costituire materia di intrattenimento.
L’ignoranza propria invece, a giudicare dalla frequenza con cui princess pronunciava “strabello” è un buon vaccino contro l’asprezza della realtà.
Peccato che, se stiamo a ascoltare Socrate, il riconoscere la propria ignoranza sia di per sé sintomo di saggezza…
Siamo proprio destinati alla delusione.
Thursday, 15 March 2012
Saturday, 18 February 2012
Cacio e pepe
Ho ricominciato a andare a Milano tutti i giorni. Lo so,
le cattive abitudini sono dure a morire.
E ogni giorno si ripresenta l’annoso problema della pausa
pranzo.
Un giorno sono andata da Mac Donald’s, a assaggiare un hamburger
con la mozzarella: non è stato il pranzo più indimenticabile della mia vita, ma
le aspettative erano abbastanza basse.
Ieri invece, per interrompere una dieta di preziosissime pizze
e focacce (a giudicare dai prezzi), ho deciso di regalarmi una mezz’ora seduta
e di gustarmi un pasto caldo.
Solo che non è stato facile come sembrava…
Scelgo un baretto molto frequentato e, per non rubare il
posto agli aficionados, chiedo al barista dove posso sedermi: questo scrolla le
spalle e mi dice “siediti”. Eseguo l’ordine e vengo subito assalita da un cameriere
che ha fatto della simpatia forzata il marchio di fabbrica.
Ordino un piatto di pasta, e appena il gioviale personaggio
si allontana, dopo aver pronunciato “ottima scelta!”, mi rendo conto di aver
commesso un errore: ho ordinato della pasta in un locale senza cucina.
Tempo due minuti mi viene scaraventato sul tavolo, senza
tante cerimonie, un piatto con dentro una bestemmia: una dozzina di penne (non
rigate!) scotte, riscaldate al microonde e di nuovo raffreddate, secche e appiccicaticce,
tenute insieme dal formaggio e naviganti in un dito d’olio.
Premessa necessaria: io mangio di tutto e di gusto, ma
non mi piace essere presa per il culo. E io con questa pasta ce l'ho messa tutta, ma
non sono riuscita a finirla.
Mi è montata dentro una rabbia che sono riuscita a
sopprimere solo raccontando il mio disagio alla prima persona che mi è capitata
a tiro: se non avessi avuto l’ardire di lamentarmi con il proprietario del bar,
quella pasta mi sarebbe rimasta sullo stomaco.
Trovandomi nei panni della cagacazzo, ci sono andata cauta,
esordendo con un mea culpa “forse ho sbagliato io a ordinare, dato che non
avete la cucina…” prima dell’affondo “... ma voi non potete presentare una pasta
così!”. Sono passata quindi alla descrizione di tutto quello che c’era di
sbagliato in quel piatto, concludendo con un consiglio non richiesto “insomma,
se la pasta non potete cucinarla, non mettetela sul menù”.
In tutta risposta, mi sono sciroppata un’accurata analisi
costi/benefici: a quanto pare, gli affari danno ragione all’oste e i numeri
parlano chiaro se, a fronte di una persona insoddisfatta del servizio (la
sottoscritta), lui sfama le restanti 120/150 persone che ogni giorno si
accalcano nel suo locale. Sarà. E soprattutto, devo tenere ben presente che “la
pasta la faccio pagare solo 5 euro, non 15”. Egraziealcazzo, mi sono trattenuta dal ribattere.
Io non voglio insegnare il mestiere a nessuno, ma come si
fa a sbagliare così clamorosamente una pasta che non ha nemmeno il sugo? Non ti
ho chiesto un aspic di aragosta accompagnato da spumiglie di foie gras. Un
piatto di pasta, perdio! Per lo stesso motivo, non vedo perché devi
farmi credere che stai facendo volontariato, della serie “sfamare gli affamati”,
quando invece con i 5 euro miei fai la spesa per 3 chili di pasta cacio e pepe.
E lì ho capito due cose: che un arredamento di gusto non
è garanzia di buona cucina. E che i milanesi probabilmente si nutrono di design.
Quando ho lavorato come cameriera, parte del mio lavoro
era assicurarmi che i clienti fossero soddisfatti; anche se chiedere a un
tedesco se si era trovato bene in un ristorante italiano era retorico, lo
facevo comunque, e quando mi rispondeva “buonissimo!” mi inorgoglivo tutta,
manco fossi stata io a spadellare ai fornelli.
Invece in questo caso una critica è servita solo a
insospettire il mio interlocutore, che mi ha fatto comunque pagare la pasta che
non ho mangiato, offrendomi un caffè per seppellire l’ascia di guerra.
Potevo pagare, uscire di lì incattivita e sputtanarlo, e
invece ho voluto essere trasparente, segnalare la mia insoddisfazione, uscire a
cuor leggero e sputtanarlo.
La vita è troppo breve per mangiare cibo scadente.
Sunday, 12 February 2012
Ciao amore ciao
Ho appena finito di leggere un libro –Caos calmo di Veronesi– in cui il protagonista crede che la moglie scomparsa comunichi con lui attraverso i testi delle canzoni dei Radiohead.
Ho avuto anch’io un’epifania di questo genere: ascoltando in loop l’ultimo disco dei Black Keys, una collezione di canzoni tanto ruvide quanto ruffiane, una frase, tra le tante orecchiabilissime che si incollano alla lingua, continua a rimbombarmi nella testa: She’s the worst thing, I’ve been addicted to, che in italiano, snaturata la ritmica incalzante, suona come lei è stata la mia peggiore dipendenza.
Queste parole, ribaltate sulla prospettiva femminile, descrivono cosa per me è ora la persona che per quattro anni ho definito il mio ragazzo: la dipendenza più forte e pericolosa mai provata.
Posso affermarlo adesso, che ne sono uscita, ora che sono pulita, dopo essere passata attraverso tutte le fasi dell’intossicazione:
Come con qualsiasi sostanza psicotropa, ero sotto prima ancora di rendermene conto.
Ero terrorizzata di non essere alla sua altezza.
Ho amato incondizionatamente, preoccupata esclusivamente della sua felicità. E siamo stati felici, e tanto, sostenuti da quella spensieratezza che ti fa credere che tutto sia possibile.
Giocavamo, ma nessuno aveva stabilito le regole. Con il risultato che nessuno dei due ha vinto.
Il nostro unico comandamento era rimanere liberi all’interno della coppia. Solo che la libertà si trasforma velocemente in egoismo, se si perde di vista l’obiettivo comune.
Pensando alle circostanze in cui ci eravamo trovati, mi ero convinta che lui fosse l’unico possibile per me, l’unica persona che calcasse il mio universo spazio-temporale, la cui imperfezione si incastrasse perfettamente con la mia imperfezione. Non tanto la mia metà –da donna emancipata non accettavo il fatto di aver bisogno di un uomo che mi completasse- ma sicuramente qualcuno che arricchiva la mia esistenza.
Il problema della dipendenza però è il suo essere a senso unico, e il danneggiare sempre solo una delle due parti: l’alcool se ne sta tutto tranquillo in una bottiglia; può cercare di sedurmi promettendomi di rendermi infinitamente più attraente di quanto sono in realtà, ma la sua influenza si ferma lì. Sono io quello che stappo la bottiglia e vado incontro alle conseguenze.
Ho imparato a sopportare la solitudine, docile e fiduciosa che una ricompensa sarebbe arrivata.
Mi mancava terribilmente, quando mi tagliava fuori dalle sue malinconie, ma non volevo farglielo pesare; volevo dimostrarmi più forte, più indipendente di quanto fossi in realtà.
E tu devi accorgertene. Voglio che tu sappia che non ho più bisogno di te per sorridere; ma prima devo convincere me stessa.
Sto bene. Sto bene. Sto bene.
Starei ancora meglio se ti rendessi finalmente conto di avermi persa. Perché la cosa peggiore che puoi fare a uno dei tuoi affetti è darlo per scontato. Bisogna meritarselo, l’amore, e custodirlo.
Ho fatto uso di surrogati, come la chat: un contesto protetto in sono riuscita a lasciarmi andare. Proprio come era successo all’inizio, quando avevamo capito che non eravamo solo buoni compagni di master.
E poi, settimana scorsa, abbiamo passeggiato in centro, proprio come era successo all’inizio, quando cercavamo scuse per ritagliarci dei momenti solo per noi.
Solo che le farfalle nello stomaco non c’erano più.
Sono come un'ex alcolista che catapultato in una festa con l’open bar ordina solo coca cola. E non perché ha paura di ricascarci, ma perché ha scoperto che la coca cola le piace tantissimo.
Ho voltato pagina, e se qualcuno mai mi metterà alle strette chiedendomi di giustificare alcune scelte compiute in passato, risponderò orgogliosa “perché ero innamorata”.
Non sarà una risposta dalla logica inappuntabile, ma mi sembra una spiegazione più che nobile.
Ho avuto anch’io un’epifania di questo genere: ascoltando in loop l’ultimo disco dei Black Keys, una collezione di canzoni tanto ruvide quanto ruffiane, una frase, tra le tante orecchiabilissime che si incollano alla lingua, continua a rimbombarmi nella testa: She’s the worst thing, I’ve been addicted to, che in italiano, snaturata la ritmica incalzante, suona come lei è stata la mia peggiore dipendenza.
Queste parole, ribaltate sulla prospettiva femminile, descrivono cosa per me è ora la persona che per quattro anni ho definito il mio ragazzo: la dipendenza più forte e pericolosa mai provata.
Posso affermarlo adesso, che ne sono uscita, ora che sono pulita, dopo essere passata attraverso tutte le fasi dell’intossicazione:
- La scoperta
Come con qualsiasi sostanza psicotropa, ero sotto prima ancora di rendermene conto.
- L’assuefazione
Ero terrorizzata di non essere alla sua altezza.
Ho amato incondizionatamente, preoccupata esclusivamente della sua felicità. E siamo stati felici, e tanto, sostenuti da quella spensieratezza che ti fa credere che tutto sia possibile.
Giocavamo, ma nessuno aveva stabilito le regole. Con il risultato che nessuno dei due ha vinto.
Il nostro unico comandamento era rimanere liberi all’interno della coppia. Solo che la libertà si trasforma velocemente in egoismo, se si perde di vista l’obiettivo comune.
- La dipendenza
Pensando alle circostanze in cui ci eravamo trovati, mi ero convinta che lui fosse l’unico possibile per me, l’unica persona che calcasse il mio universo spazio-temporale, la cui imperfezione si incastrasse perfettamente con la mia imperfezione. Non tanto la mia metà –da donna emancipata non accettavo il fatto di aver bisogno di un uomo che mi completasse- ma sicuramente qualcuno che arricchiva la mia esistenza.
Il problema della dipendenza però è il suo essere a senso unico, e il danneggiare sempre solo una delle due parti: l’alcool se ne sta tutto tranquillo in una bottiglia; può cercare di sedurmi promettendomi di rendermi infinitamente più attraente di quanto sono in realtà, ma la sua influenza si ferma lì. Sono io quello che stappo la bottiglia e vado incontro alle conseguenze.
- La crisi da astinenza
Ho imparato a sopportare la solitudine, docile e fiduciosa che una ricompensa sarebbe arrivata.
Mi mancava terribilmente, quando mi tagliava fuori dalle sue malinconie, ma non volevo farglielo pesare; volevo dimostrarmi più forte, più indipendente di quanto fossi in realtà.
- Il collasso
- Il distacco
- Il desiderio di rivalsa
E tu devi accorgertene. Voglio che tu sappia che non ho più bisogno di te per sorridere; ma prima devo convincere me stessa.
Sto bene. Sto bene. Sto bene.
Starei ancora meglio se ti rendessi finalmente conto di avermi persa. Perché la cosa peggiore che puoi fare a uno dei tuoi affetti è darlo per scontato. Bisogna meritarselo, l’amore, e custodirlo.
- La sobrietà
Ho fatto uso di surrogati, come la chat: un contesto protetto in sono riuscita a lasciarmi andare. Proprio come era successo all’inizio, quando avevamo capito che non eravamo solo buoni compagni di master.
E poi, settimana scorsa, abbiamo passeggiato in centro, proprio come era successo all’inizio, quando cercavamo scuse per ritagliarci dei momenti solo per noi.
Solo che le farfalle nello stomaco non c’erano più.
Sono come un'ex alcolista che catapultato in una festa con l’open bar ordina solo coca cola. E non perché ha paura di ricascarci, ma perché ha scoperto che la coca cola le piace tantissimo.
Ho voltato pagina, e se qualcuno mai mi metterà alle strette chiedendomi di giustificare alcune scelte compiute in passato, risponderò orgogliosa “perché ero innamorata”.
Non sarà una risposta dalla logica inappuntabile, ma mi sembra una spiegazione più che nobile.
Tuesday, 31 January 2012
Disoccupati anonimi
Sono Claudia, ho quasi 30 anni e sono disoccupata. E
questo non mi definisce, anche se devo ammettere che a parte il nome, gli altri
due aspetti danno un quadro abbastanza chiaro della situazione.
È un dato di fatto, e finora sono riuscita a non farne un
dramma: essere disoccupata e non sentirlo,
forse perché, in risposta a un istinto di conservazione diventato prepotente in
un momento così incerto della mia esistenza, sono riuscita a stabilire una
routine.
Mi sveglio quando la Gilda, il cocker di casa, appoggia
il suo naso umido contro il mio, come a controllare che respiri ancora, confusa
dall’assenza di logica: “com’è che al piano di sotto si fa colazione, c’è cibo
sul tavolo e questa non si muove dal letto?”; allora mi alzo, e ogni mattina mi
concedo il lusso di bere il caffè in pigiama, leggendo un libro e senza
controllare continuamente l’orologio. Poi mi lavo la faccia, accendo il
computer e vado online a fare il punto della situazione. Fino all’ora di pranzo
leggo e rispondo a mail, annunci o compilo form. Cazzeggio anche parecchio su Facebook,
confesso, ma quello si fa anche in ufficio. Il pomeriggio lo inizio con i
Simpson (l’unico programma guardabile) e quando spengo la TV cerco di trovare
qualcosa da fare che non mi obblighi a stare di nuovo seduta davanti a uno
schermo. Tra i progetti più riusciti ho incollato foto a un album, creato
spille e riordinato la soffitta. Un paio di volte a settimana aiuto un liceale
a preparasi a verifiche e interrogazioni.
A singhiozzo ma comunque da quasi tre mesi,
questa è la mia vita.
Non sono una persona metodica, ma stavolta un po’
d’ordine me lo sono dovuta imporre: ho un file Excel su cui riporto con rigore da ragioniere nome
dell’azienda, indirizzo del sito, e-mail del contatto e data in cui ho inviato
il CV. Recentemente ho aggiunto la colonna “risposta” e lì è tutto un copia e
incolla di “no grazie”.
Ieri, con il rigore scientifico che questo schema mi
impone, mi sono messa a contare le richieste che ho inviato da ottobre a oggi.
Sono 179, una cifra che, sommata ai curriculum consegnati a mano in scuole e
studi di Brescia e Milano, sfonda il ragguardevole tetto dei 200.
200 CV che corrispondono a 200 potenziali posti di
lavoro, e in tutta risposta due contratti consegnati per presa visione e non
controfirmati, un paio di trattative in atto, una ventina di repliche negative
ma incoraggianti e il resto inghiottito dall’oblio.
E anche se solo il 10% di questo numero che continua a
sembrarmi importante riguardava posizioni aperte, anche con l’autocandidatura
non mi sembra di aver fatto improvvisate.
La legge dei grandi numeri qui non si applica: non esiste
una percentuale di successo a cui aggrapparsi aumentando esponenzialmente il
numero dei contatti. Forse alcune delle mie richieste sono state un po’
azzardate, per posizioni che non rispecchiavano quelle da me occupate in
passato, ma mi piaceva aumentare il fattore casualità nell’equazione.
In generale però, la mia ricerca è stata guidata dal fatto
che io mi ci vedevo alla scrivania di ognuno di questi uffici; ogni lavoro per
cui ho fatto richiesta me lo sono provato addosso, come un paio di jeans.
Tutti siamo disposti a pagare caro quel paio di jeans che
ti calzano come un guanto a cui saremo eternamente grati per averci salvato in innumerevoli occasioni in
cui nessuna mise sembrava funzionare; ma se li troviamo nei saldi, possiamo farci
andar bene anche un paio di jeans che vanno un po’ stretti, o magari quelli che
non fanno un grande favore alla figura, ma che si abbinano all’intero guardaroba.
Non trovo lavoro e non capisco dove sia il problema:
peccherò di presunzione, ma non è solo colpa mia. Non posso essere l’unica
responsabile.
Ho letto e riletto il mio CV, e la mail che lo
accompagna, drammatizzando il distacco da quelle parole di cui so di essere
l’autrice: sono entrambi studiati, rielaborati e ripuliti fino alla nausea per raggiungere
il giusto equilibrio di sintesi e leggerezza, ottenuto con ingredienti quale foto
segnaletica, font sbarazzino, dettagli personali e personalizzati.
No, il problema non sono io. Pur con i miei evidenti
limiti, il mio navigare a vista in campo professionale, il mio totale disinteresse
(o forse disillusione) riguardo a prospettive di carriera, non sono l’ultima
degli stronzi.
Sono un essere pensante, bisognoso di contatto umano e
con un disperato bisogno di sentirsi utile.
Puntando proprio sul fattore umano, mi sono prefissa di presentarmi
in carne ed ossa in tutti gli uffici che è possibile raggiungere con una gita
fuori porta. Settimana scorsa ero a Milano con una lista di indirizzi e una
cartina e per una dozzina di volte mi si è ripetuta davanti agli occhi la
stessa scena: suono, mi viene aperto e avanzo nel silenzio di un immacolata
hall; gli uffici non si vedono, né tantomeno le persone che negli uffici ci
lavorano: ogni intrusione viene bloccata dal candido sorriso di un’angelica
segretaria che sbucando da dietro il colossale MAC che troneggia sull’unica
scrivania visibile prende in consegna i due fogli pinzati insieme che le
allungo -mi sembra una bestemmia passarle della carta, per di più strapazzata
da ore passate nella mia borsa- e, senza smettere di sorridermi, mi dice "lo
consegno al/alla responsabile al termine del meeting in cui è al momento
impegnato/a". Prima di salutarmi, un paio di loro mi hanno pure chiesto per
cosa mi candidassi, ma per pura curiosità, che andava oltre a quello per
cui sono state addestrate.
Ma i più belli sono stati quelli della Fox: bypassata la
scrivania della segretaria –scrivania vuota, segretaria malata o in pausa
pranzo- mi è toccato scomodare un creativo dal suo scranno. Qui addirittura,
facilitata dalla prossimità fisica ho azzardato una stretta di mano e intonato
quattro parole di presentazione. La reazione: dopo avermi fatto notare che ero
nella città sbagliata -del recruiting se ne occupa Roma- arriva il consiglio,
brillante: “non ha consultato la sezione lavora
con noi del sito?”.
…
…
Ti rispondo via mail.
Thursday, 26 January 2012
Ameni inganni
“Culicchia, non ci siamo: hai scritto un libro inutile”. Così avrebbe dovuto dirti il tuo editor. Non ti avrebbe fatto piacere, certo, ma non avrebbe deluso così tante persone che hanno amato le tue storie.
Perché nella tua carriera hai scritto pagine di struggente bellezza, ma nelle duecento e passa pagine del tuo ultimo romanzo non ne ho trovato nemmeno l’ombra.
Hai scritto un libro facile, superficiale, come una sveltina nei bagni di una discoteca.
Noi lettori vogliamo lasciarci sedurre dai personaggi, vogliamo passare con loro languide notti di passione e tenerezza, vogliamo il contorno di champagne, fragole, cioccolato, candele profumate e bubble bath, per non uscire di metafora. Possiamo sembrare anche lettori facili, in realtà siamo pronti per qualcosa di meglio, di inaspettatamente grandioso, come Julia Roberts in Pretty Woman.
Sì, questo è il mio ideale romantico.
Un libro che si esprime al meglio nel risvolto di copertina è come un film il cui il trailer riporta solo e tutto quello che vale la pena vedere. Il resto in entrambi i casi è tempo perso.
Per sicurezza il tuo libro oggi lo riporto in biblioteca, prima che mieta altre vittime tra i miei curiosi e famelici familiari, che ancora leggono quello che gli capita sotto mano senza prima contare le stelline delle recensioni. E meno male che uso ancora la tessera della biblioteca: in libreria non hanno mai sperimentato la formula “soddisfatti o rimborsati”, e se avessi comprato la bella edizione rilegata con l’ammiccante illustrazione psichedelica sarei rimasta con diciotto euro in meno nel portafogli, e mezzo chilo di carta in più a prendere polvere su uno scaffale. Perché questo, signor autore, è il tipo di libro che non finisci nemmeno per perdere a casa di qualche amico a cui l’hai prestato: questo libro ti rimane sul groppone, a ricordarti dei tuoi acquisti sbagliati come quel paio di scarpe in velluto viola cardinalizio che non sono mai riuscita a indossare (tanto belle nella scatola, tanto improponibili con qualsiasi accostamento). O come i libri di Fabio Volo.
Solo che lui non ha la tua credibilità letteraria da difendere.
Ma esponiamo il capo d’accusa: la premessa del romanzo è che Alberto, un quarantenne con tendenze autistiche, ossessionato da riviste porno e modellini di astronavi, perde la madre con cui ancora viveva e deve cavarsela da solo, affrontando problemi pratici come la gestione della casa e cercando di venire a patti con le sue immaginarie relazioni. Ma poi nel libro manca tutto il resto: la premessa è la storia, che non si smuove, non si sviluppa, non devia fino ad arenarsi in un finale che sa di già letto.
Cos'è successo, Culicchia? Lo so, non è un momento facile per nessuno, ma sono sollevata all'idea di non aver contribuito direttamente a pagarti il mutuo.
Non mi sei sembrato particolarmente ispirato, tutto qui… Forse voi artisti potete concedervi il lusso di innestare il pilota automatico: se sei davvero bravo a fare una cosa, e quella cosa ti esce sempre bene, a una certa non c’è più bisogno di sperimentare, e si riesce a rispettare le scadenze venendo allo stesso tempo incontro ai gusti del pubblico.
Io invece, che non ho un talento particolare, riesco a ritenermi soddisfatta di quello che faccio mai per un caso fortunato, ma solo quando vedo il frutto di tante ore passate in febbrile attività e con una paura immensa di fare un grosso errore.
Ecco, forse a te è mancato il coraggio: hai scelto di andare sul sicuro, e hai raggiunto un risultato mediocre.
Ti lascio con un consiglio: la prossima volta, invece che portare il lettore a riconoscersi nel protagonista con le sue nevrosi e disgrazie, cerca di ispirarlo, con personaggi che compiono gesti piccoli e belli, facili da imitare. Ce n'è di bisogno.
Perché nella tua carriera hai scritto pagine di struggente bellezza, ma nelle duecento e passa pagine del tuo ultimo romanzo non ne ho trovato nemmeno l’ombra.
Hai scritto un libro facile, superficiale, come una sveltina nei bagni di una discoteca.
Noi lettori vogliamo lasciarci sedurre dai personaggi, vogliamo passare con loro languide notti di passione e tenerezza, vogliamo il contorno di champagne, fragole, cioccolato, candele profumate e bubble bath, per non uscire di metafora. Possiamo sembrare anche lettori facili, in realtà siamo pronti per qualcosa di meglio, di inaspettatamente grandioso, come Julia Roberts in Pretty Woman.
Sì, questo è il mio ideale romantico.
Un libro che si esprime al meglio nel risvolto di copertina è come un film il cui il trailer riporta solo e tutto quello che vale la pena vedere. Il resto in entrambi i casi è tempo perso.
Per sicurezza il tuo libro oggi lo riporto in biblioteca, prima che mieta altre vittime tra i miei curiosi e famelici familiari, che ancora leggono quello che gli capita sotto mano senza prima contare le stelline delle recensioni. E meno male che uso ancora la tessera della biblioteca: in libreria non hanno mai sperimentato la formula “soddisfatti o rimborsati”, e se avessi comprato la bella edizione rilegata con l’ammiccante illustrazione psichedelica sarei rimasta con diciotto euro in meno nel portafogli, e mezzo chilo di carta in più a prendere polvere su uno scaffale. Perché questo, signor autore, è il tipo di libro che non finisci nemmeno per perdere a casa di qualche amico a cui l’hai prestato: questo libro ti rimane sul groppone, a ricordarti dei tuoi acquisti sbagliati come quel paio di scarpe in velluto viola cardinalizio che non sono mai riuscita a indossare (tanto belle nella scatola, tanto improponibili con qualsiasi accostamento). O come i libri di Fabio Volo.
Solo che lui non ha la tua credibilità letteraria da difendere.
Ma esponiamo il capo d’accusa: la premessa del romanzo è che Alberto, un quarantenne con tendenze autistiche, ossessionato da riviste porno e modellini di astronavi, perde la madre con cui ancora viveva e deve cavarsela da solo, affrontando problemi pratici come la gestione della casa e cercando di venire a patti con le sue immaginarie relazioni. Ma poi nel libro manca tutto il resto: la premessa è la storia, che non si smuove, non si sviluppa, non devia fino ad arenarsi in un finale che sa di già letto.
Cos'è successo, Culicchia? Lo so, non è un momento facile per nessuno, ma sono sollevata all'idea di non aver contribuito direttamente a pagarti il mutuo.
Non mi sei sembrato particolarmente ispirato, tutto qui… Forse voi artisti potete concedervi il lusso di innestare il pilota automatico: se sei davvero bravo a fare una cosa, e quella cosa ti esce sempre bene, a una certa non c’è più bisogno di sperimentare, e si riesce a rispettare le scadenze venendo allo stesso tempo incontro ai gusti del pubblico.
Io invece, che non ho un talento particolare, riesco a ritenermi soddisfatta di quello che faccio mai per un caso fortunato, ma solo quando vedo il frutto di tante ore passate in febbrile attività e con una paura immensa di fare un grosso errore.
Ecco, forse a te è mancato il coraggio: hai scelto di andare sul sicuro, e hai raggiunto un risultato mediocre.
Ti lascio con un consiglio: la prossima volta, invece che portare il lettore a riconoscersi nel protagonista con le sue nevrosi e disgrazie, cerca di ispirarlo, con personaggi che compiono gesti piccoli e belli, facili da imitare. Ce n'è di bisogno.
Tuesday, 20 December 2011
Amarcord

Dieci anni fa varcavo per la prima volta il portone di via Salvecchio a Bergamo alta, entrando in punta di piedi nel boschetto della mia fantasia, altrimenti conosciuto come università.
Settimana scorsa, a più di sei anni dalla mia laurea, sono tornata in una delle sedi dove andavo a lezione con il pretesto di usare indisturbata i bagni. Mi sono di nuovo persa nei corridoi, registrando cambiamenti minimi, se escludiamo che gli sbarbati del primo anno appoggiati alle colonne in cortile non hanno facce conosciute.
Ho perso un po’ di gente per strada, nonostante grazie a Facebook si riesca a seguire le tracce di chiunque. L’estate scorsa, ripercorrendo catene di tag sono venuta a sapere che si è sposato un mio ex compagno: tra gli invitati c’era l’intera squadra del calcetto fondata in aula studio, che ha affrontato la foto di rito con la maglietta della divisa e i pantaloni calati.
Goliardia! E pensare che non c’è foto di gruppo che li ritragga con i pantaloni: fa ridere una volta, fa sorridere la seconda, ora avete 30 anni e non siete proprio la combriccola di “Amici miei”. Se non la smettete prima di diventare padri di famiglia, scatta l’effetto cinepanettone.
Lasciata la facoltà, ho fatto una passeggiata in via Colleoni, con l’idea di prendere un caffè in uno dei baretti in cui bivaccavo nelle numerose ore buche. A città alta i cellulari ancora non prendono, ma gli schermi al plasma ormai campeggiano ovunque e il mio pub preferito è stato rimpiazzato da un anonimo punto vendita di una catena di profumerie. È lo specchio dei tempi, mi sono detta: dal caffè letterario -anche se le nostre pause pranzo non erano propriamente ritrovi di intellettuali- al punto d’incontro delle shampiste preoccupate per la sorte degli inquilini della casa del Grande Fratello.
Sopraffatta dal magone, provo a telefonare a Laura, vecchia gloria dei tempi di scienze della comunicazione, dimenticandomi che mandando un piccione viaggiatore avrei più probabilità di recapitare il messaggio: il cellulare non trova la rete e io cerco di distillare i sentimenti che mi pervadono in un sms che invierò una volta rientrata sotto il rassicurante ombrello gsm. Perché bisogna dirlo alle persone che ci hanno cambiato la vita che ce ne siamo accorti del favore che ci hanno fatto.
Continuo la discesa verso città bassa: ho appuntamento con Paola, un pezzo della mia esperienza accademica che mi sono tenuta stretta: con Paola, che da un paio d’anni è la mamma più bella del mondo, e che il mese prossimo convolerà a nozze, ci sono cresciuta, o almeno lei cresceva mentre io le riversavo addosso la frustrazione causata della fatica che sto tuttora facendo a crescere.
Nonostante mi trovi bloccata a anni luce di distanza dai suoi traguardi, riconosco che ne ho fatta di strada, da quando i pomeriggi in piazza Vecchia scivolavano nell’indecisione se presenziare le lezioni o prendersi un gelato, che “con un sole così, chi ha voglia di chiudersi in aula?”.
Non posso dimostrarlo di essermi allontanata molto: a conti fatti ho quasi 30 anni, nessuna prospettiva di carriera, una collezione di esperienza lavorative che non intimidirebbero nemmeno uno stagista, sono disinnamorata, e non ho nulla su cui appoggiarmi per costruirmi un futuro. Invece dell’ambizione, spesso ho scelto la comodità. E non riesco a vedere più in là del dopodomani. Non mi sento adulta.
Eppure, ripensando al 2011, riconosco che qualcosa nella percezione di me stessa sia cambiato, e mi abbia portato verso scelte azzardate, e non facilmente condivisibili: come quando, in una congiuntura economica terrificante, ho deciso di non accettare un posto di lavoro perché sentivo il bisogno di ascoltarmi e capire che direzione prendere. O come quando, perdendo un amore alla cui ombra mi stavo annullando, ho imparato a amare me stessa.
Il desiderio di prevalsa, per dimostrare agli altri che non sono solo quanto riportato nel curriculum, è stato sostituito da una nuova consapevolezza: non sta agli altri dirmi cosa posso o devo fare perché la decisione spetta solo a me.
E ho viaggiato. 3 mesi su 12 (il minimo indispensabile). E questo è il regalo più grande che si possa fare a un’anima che non riesce a staccarsi dal pensiero di sé stessa. C’è dell’altro, oltre all’autocommiserazione: c’è la vita.
E voglio viverne ancora di anni così burrascosi, voglio cambiare idea, voglio stravolgere piani, voglio provare, sbagliare e riprovare fino a quando non troverò il mio posto nel mondo.
E quando lo troverò, preparate bottiglie e aspirine, perché siete già da ora invitati all’housewarming party meno adulto cui abbiate mai preso parte.
Tuesday, 22 November 2011
Alone, not lonely

Nelle ultime settimane mi sono inventata tutta una serie di appuntamenti solo per avere la scusa di portare a spasso me stessa: sono stata al cinema, al ristorante, in sauna e a bere un caffè accompagnata al massimo da un libro.
E non mi sono annoiata mai.
Mi sto viziando in modo ingiustificato, dato che è arrivato il momento di mettersi sotto, e non posso premiarmi così prematuramente, ma tant’è...
Niente quarti d’ora passati a prendere freddo e perdere pazienza a una fermata, chiedendoti se quello che accosta sia l’autobus che ha preso il mio amico; e quando quella in ritardo sono io, niente sms mandati all’ultimo con la giustifica.
L’unica cosa che mi manca è una mano da stringere durante le lunghe passeggiate: ho provato a camminare tenendomi le mani, ma non c’è modo di farlo funzionare come surrogato.
Al ristorante mi metto sempre nel tavolo all’angolo, quello defilato, destinato alle coppie che non vogliono distrazioni mentre si guardano negli occhi: una sedia la uso per la borsa e la giacca, su quella di fronte mi ci siedo io.
“È da sola?” mi chiede il cameriere che si è avvicinato con due menù.
“Secondo te?”, mi verrebbe da rispondere, ma mi limito a sorridere, annuire e strappargli il mio menù dalle mani.
Sono sola. Che non vuol dire necessariamente che mi senta sola. È che a volte non ho grandi alternative: se alle tre di pomeriggio di giovedì mi viene voglia di andare a mangiarmi una ciotola di ramen in cui nuota un filetto di salmone, basse sono le probabilità che riesca a trovare qualcuno che si dimostri non tanto interessato, ma perlomeno libero.
La novità è che, quando la voglia mi assale, la soddisfo così su due piedi, senza lasciare che nessuno mi metta davanti al fatto che potrei benissimo farne a meno, o almeno aspettare un momento più adatto, tipo quando posso invitare qualcuno.
Sin dall’adolescenza ho convissuto con un bisogno di socialità che sfiora la dipendenza, e fra tutte le persone che conoscevo quella che mi incuriosiva di meno ero io. La novità è non avere più paura di rimanere da sola. Bastava provarci.
Nel 2011 mi sono concessa il lusso di riprendermi il mio tempo: ho lavorato il poco che bastava per mantenermi, ho viaggiato come non ero mai riuscita a fare e ho imparato a non preoccuparmi di quello che gli altri possono pensare; se vado al cinema da sola “povera, è single, e ha quasi 30 anni!”, se passo un paio di mesi senza lavorare “povera, con tutto quello che ha studiato, e ha quasi 30 anni!”.
E non è che ora che ho scoperto di piacermi non provi più il desiderio di passare tempo con i miei amici: Il tempo che dedichiamo agli altri non può essere direttamente proporzionale all’amore che proviamo per loro: ci si mette la vita, con i suoi doveri e le sue distanze, a intralciarci i piani.
E nonostante questa dichiarazione di indipendenza, non sono stata lasciata da sola: venerdì scorso mi è successo qualcosa di straordinario.
Dovevo uscire a cena con delle amiche: il piano era quello di una tranquilla serata fra donne. Angela mi recupera alla fermata del tram: è da sola, e delle altre non si è più saputo nulla. Poco male.
Ci incamminiamo verso il ristorante, e sto ancora parlando con Angela quando impugno la maniglia e nel bel mezzo di una frase apro la porta.
C’è una tavolata con una dozzina facce amiche che mi sorridono.
Smetto di parlare. Cerco di fare mente locale.
Inizialmente penso di essermi dimenticata il compleanno di qualcuno:
“Cazzo, che figura di merda! Ma tutti allo stesso ristorante?”
Questo pensiero è seguito a ruota dalla presa di coscienza che se quella è una festa di compleanno, io non sono stata invitata:
“Non sono in lista? Eccheccazzo!”
Solo dopo essermi sentita in colpa e offesa, tutto questo pietrificata sulla soglia, capisco che quelle persone sono lì per me. E che non hanno smesso di sorridermi fino a quando il sorriso non gliel’ho restituito:
“Oh cazzo… Festa a sorpresa… Per me!”
C’è ancora qualcuno a cui fa piacere avermi intorno.
E trovarmeli tutti raggruppati nella stessa dimensione spazio-temporale ha reso lampante la portata di quello che due anni a Francoforte mi hanno regalato e che nessuno, nemmeno la Claudia che mi sta facendo una corte spietata, potrà portarmi via.
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