Friday, 10 June 2011

Ich liebe meine Mutti


Oggi è il compleanno di mia mamma. Mia mamma si chiama Maria, detta LaMery, con tanto di articolo perché, come dicono a Roma “è un taijo!”, e si merita un nomignolo.

È l’ennesimo compleanno che ci vede separate, e non è un dramma, dato che in realtà non l’abbiamo mai festeggiato come vuole la tradizione, con la torta, i fiori, il regalo… Non è che sono una stronza insensibile: semplicemente è così che vanno le cose quando cresci in una famiglia che non ha mai dato grossa importanza alle ricorrenze.

Per esempio, quando io e mia sorella, verso la fine delle elementari, siamo state messe davanti alla dura realtà e alla conseguente inverosimiglianza di una santa che passasse a portare i doni a noi e a tutti i bambini di Brescia, Bergamo e Verona nella notte tra il 12 e il 13 dicembre, abbiamo automaticamente smesso di ricevere regali, almeno in forma tradizionale.

Abbiamo provato a protestare, adducendo come prova schiacciante l’esempio dei nostri compagni di classe che venivano ricompensati ogni volta che a scuola prendevano un bel voto o quando a cena mangiavano le verdure senza farsi implorare.

Ma nulla da fare, LaMery non ha mai fatto una piega:

“Per il compleanno vi ho pagato il corso di nuoto”
“Il compleanno di chi?”
“Il vostro”
“Ma tra il mio compleanno e quello di Luisa ci passano 6 mesi!”

“Hai preso ottimo nella verifica di scienze sociali? Brava. Ti sei proprio meritata il pacco di mutande nuove che ti ho messo nel cassetto”

“Quest’anno non chiedetemi niente che vi abbiamo messo l’apparecchio. A tutte e due”
(sai che gioia, quasi più che uscire di casa nelle gelide sere d’inverno per andare in piscina)

In realtà, anche quando ho iniziato ad avere liquidità, per quanto piccola, non ho provato a invertire la tendenza: il problema è sempre stato trovare un regalo che potesse essere apprezzato da una persona che ha lo stesso attaccamento alla sfera materiale di una suora di clausura.

Mia mamma è più da biglietto che da pacchetto, e apprezza un oggetto regalato solo sulla scala dell’utilità: nel suo microcosmo ci sono le cose che le servono e un sacco di tàter (bergamasco per cianfrusaglie) che occupano solo spazio.

Le poche volte che le ho chiesto se desiderasse qualcosa di regalo (a mia mamma è estraneo pure il concetto di sorpresa, quindi tanto vale andare sul sicuro) mi ha risposto: “il regalo più grande che puoi farmi è essere felice. E fare la brava”.
Non so se le due cose vanno a braccetto, ma ogni giorno cerco di tener fede a questo proposito. E spesso ce la faccio senza impegnarmi nemmeno tanto.
Bastava dirlo, mamma!

Comunque oggi le ho telefonato per farle gli auguri e lei non ha perso occasione per ricordarmi che alla mia età lei era già sposata da un paio di mesi e stava per mettermi in cantiere. Poi, con nonchalance mi ha chiesto se avessi deciso cosa fare nella vita. Così, come se mi stesse chiedendo cosa avessi mangiato la sera prima.
Me lo chiede sempre, e penso che quando avrò un qualsiasi tipo di risposta pronta la terrò per me per evitare di sentire un tonfo dall’altra parte del filo.

Rispondo “macché”, per risparmiarle un principio d’infarto, e penso alla pazienza infinita e all’amore incondizionato che mi dimostra ogni giorno che passa.
Perché dire: “non so dove sarei, se non fosse per mia mamma” non è retorica, è la consapevolezza che se non fosse per lei, io non sarei nemmeno qui a tesserne le lodi; è lei che mi ha messa al mondo, mi ha cresciuta e da quando ho dimostrato un livello sufficiente di indipendenza mi ha sempre lasciata libera di fare tutto quello che mi passava per la testa, senza darmi consigli non richiesti, senza cercare di farmi rinsavire e senza giudicarmi. Mai.
E con mai intendo fin dall’inizio, non solo da quando ha capito che ormai farmi ragionare era partita persa.

Mia mamma è come il suggeritore a teatro: se ne sta nella buca, quasi impaurita a salire sul palco della mia vita, ma è solo grazie alle sue imbeccate che io ho il coraggio di recitarla, questa commedia.

Mia mamma è Mickey quando io voglio fare Rocky: mi tampona le ferite quando torno all’angolo ridotta a una zampogna, e ogni volta che serve mi fa un’iniezione di autostima. Se me lo dice lei, mi convinco di potercela fare. In ogni situazione. Con lei intorno al ring posso stendere tutti gli Ivan Drago che vogliono spiezzarmi in due.

Chissà cosa pensava LaMery mentre mi vedeva crescere… Non so se avesse piani su di me, ma si sarà sicuramente chiesta se i tratti del mio carattere che si andavano definendo rivelavano quello che avrei potuto fare o diventare da grande.
E poi come me, si è lasciata sedurre dall’effetto sorpresa provocato dai repentini cambi di rotta che brucianti passioni quasi quotidiane hanno sempre imposto sulla mia vita.
Magari lo sa, quello che avrei potuto, o dovuto fare. Ma non me l’ha mai suggerito. E io continuo a fare quello che avrei voluto fare.

Non so se avrò mai successo nella vita, e non il successo come si è finiti a definirlo, tutto fama e soldi, ma se mai riuscirò a realizzare uno dei miei sogni, dedicherò tutta l’euforia alla persona che me l’ha permesso.

Non sarà scenografico come ricevere un Oscar, scoppiare in lacrime sugli scrosci degli applausi, raggiungere il microfono tirandosi dietro metri di seta trasformati in un Valentino vintage, e iniziare il discorso con “I would like to thank my mum…”, ma penso che LaMery lo apprezzerà comunque.

Monday, 21 March 2011

Zed’s dead, Baby


Attenzione: ogni riferimento a fatti e persone è espressamente voluto. Anche perché nessuno degli interessati capiterà mai su questa pagina e che ho il culo parato lo confermano le statistiche (il mio blog ha totalizzato in un anno e mezzo 77 visite, di cui 50 refresh miei. Il blog che state leggendo, o prescelti, è talmente esclusivo che l’ho dovuto mettere tra i segnalibri. E io qui ci scrivo).

Spoiler alert: riparlerò dei miei coinquilini, inesauribile fonte di ispirazione e presenza costante nella mia quotidianità. Soprattutto in questi giorni, che ci vedono tutti e tre disoccupati, a sciabattare nel salotto di questo appartamento che sembra improvvisamente più piccolo dei suoi 110 metri quadri.

Ho le carte del divorzio già compilate. Anelo alla vita dell’eremita.

L’altra mattina mi sono svegliata prestissimo per gli standard di questi tempi di cazzeggio creativo. Ho fatto colazione, ho cercato di darmi un tono fermando lo zapping selvaggio sulla BBC e poi mi sono messa al computer, intenzionata a comporre le più spettacolari lettere che abbiano mai accompagnato un curriculum. Tempo 10 minuti e l’illusione della mistica torre d’avorio si schianta contro la detonazione contemporanea di TV e Playstation.

Non ero più sola: senza averne fatto espressamente richiesta, mi sono ritrovata ad Arkham con Batman e un francese in mutande. Che non erano interessati alle mie offerte di collaborazione.

Una sera rientro dal cinema e sulla via della mia stanza incontro Bruce Willis che dal tubo catodico sentenzia “It’s not a motocicle, it’s a chopper baby”; sorrido al buon Bruce, contenta di averlo intercettato in tempo: una battuta che ha fatto la storia del cinema sarebbe stata sprecata davanti a un pubblico composto da due bicchieri di vino, due resti di take away freddi nelle loro vaschette di polistirolo e un divano parecchio stropicciato.

L’ispettore Derrick che è in me, compiaciuto di aver trovato il movente e i colpevoli con un semplice sguardo alla scena del crimine, non la contamina spegnendo la TV ma si stringe nel suo impermeabile e esce dall’inquadratura chiudendosi la porta alle spalle, senza smettere di fischittare il motivetto della sigla.

Grazie Tarantino, per averci regalato un film che per la nostra generazione sarà sempre il semaforo verde per la pomiciata.

Thursday, 3 March 2011

L'esercito del surf


Il mio coinquilino soffre di letargismo finesettimanale: la routine solidificata in anni di ozio gli impone di togliere le scarpe al venerdì al ritorno dall’ufficio e di non lasciare la sua stanza fino al lunedì mattina, salvo puntate sporadiche al bagno e in cucina, in risposta al richiamo della natura.
62 ore in 17 metri quadri. Devo controllare, ma per me poco ci manca al Guinness record.

Potete immaginare la sorpresa quando un lunedì mattina apro la mail e scopro che proprio il mio coinquilino, con netto anticipo sul weekend, propone a tutto l’ufficio una festa il venerdì sera. Pubblicizzato come uno skater party,è organizzato da un negozio di streetwear gestito da un amico e il DJ set è ispirato alle musiche che accompagnano i video di skate, snowboard, bmx e altri passatempi squisitamente street.

Si può fare. In fondo, nei gloriosi primi anni ’90 ero una skater anch’io, e facevo avanti e indietro nel vialetto di casa su una tavola customizzata con l’artwork delle Tartarughe Ninja che mi aveva portato Santa Lucia su specifica richiesta.

E così arriva venerdì, e ci diamo appuntamento con gli altri curiosi a casa dove, per entrare nel mood della serata, il nostro resident skater (sempre il mio coinquilino) accende la TV e ci mostra un DVD con gente con i capelli controvento che esegue flip, grab e trick a favore di una lente fish-eye, il tutto impastato di colori fluo e montato in sincope da epilessia su musica punkrockeggiante. Vengo investita dal peso dei miei 28 anni. Sono troppo vecchia per tutto questo, ma se mi tiro indietro ora se ne accorgerebbero anche gli altri. Si può ancora fare.

Quando passa l’orario in cui si rischia di essere i primi a entrare nel locale, usciamo di casa. Perché stiamo andando a uno skater party, e essere cool non è un opzione, ma un comandamento.

Ci accorgiamo di essere arrivati quando il nostro contatto interno comincia a dispensare coreografate strette di mano a un branco di gente frangettata, dimenticandosi di presentarci. Nessuno di noi indossa un berretto e questo ci garantisce invisibilità.

Varchiamo la soglia del bar e anche se abbiamo cercato di evitarlo, siamo i primi. Siamo proprio gli unici avventori, e il busto di Elvis in camicia hawaiana ci regala un sorriso di incoraggiamento, mentre ci avviciniamo al bancone, sovrastato da un barista che sembra un extra di Prison Break.

Lancio uno sguardo intorno: non c’è nemmeno il DJ.

Completiamo il primo giro di birre e restiamo in attesa di istruzioni. Ci raggiunge quello che ci ha trascinato fino a lì e ci fa “beh, qua la festa non c’è, pensavo di andare a ballare” e senza chiederci se era passato per la mente anche a noi, esce dal bar. Per non rientrarci mai più. Come PR non hai futuro, lasciatelo dire.

Sedotti e abbandonati, e ancora soli al bancone, siamo pronti a affogare i dispiaceri nell’alcool. Ma anche il barista, nel frattempo è scomparso. Riappare dopo 20 minuti di pausa sigaretta, ci guarda senza nascondere fastidio, e prima di servirci raccoglie le bottiglie rimaste sui tavoli, insulta un ragazzino che gli è saltato su un piede mentre provava a aprire le danze e riaccende la candela votiva davanti al busto di Elvis. Solo allora, ricordandosi di non sorridere, ci dispensa il secondo giro.

Lancio un altro sguardo intorno: ci sono due scappati dalla seconda media e un tizio visibilmente ubriaco che viene verso di noi. Io a quel punto sono visibilmente annoiata, e approfitto della situazione per testare il mio tedesco.
Già partivamo svantaggiati, lui sbronzo e io analfabeta, ma non avrei mai immaginato le punte di surrealismo toccate da quella conversazione:

“Claudia. Cla-u-di-a. Dall’Italia”
“E cosa fai qui?”
“Ci vivo”
“Ah. E cosa fai?”
“Ah… scusa! Sono una videogame tester”
“Ah… E di lavoro cosa fai?”
“…”
“…”
“E tu cosa fai?”
“Il piastrellista”
“Ho capito: pavimenti?”
“Non solo, anche pareti”
“Certo!giusto…”
“…”
“…”
“Quanti anni hai?”
“Quanti me ne dai?”
“36”
“?” Rumore di mascella dislocata, bocca spalancata per la sorpresa.
“Beh, io ne ho 34” E questa dovrebbe bastarmi come spiegazione.
“Certo!giusto…”

“Senti, è stato davvero un piacere fare quattro chiacchiere, ma devo davvero andare a casa a pettinare le bambole adesso”: questo avrei voluto dirgli ma tra l’orgoglio ferito e il deficit della lingua mi sono invece alzata dallo sgabello, gli ho agitato una mano davanti alla faccia e ho urlato un inequivocabile “Tschüs”.

Così finisce, ingloriosamente, il mio ennesimo tentativo di sentirmi giovane mimetizzandomi fra i giovani.
Conoscete qualcuno che può mettermi in lista per la bocciofila? Free Chinotto a chi mi accompagna!

Sunday, 13 February 2011

Burn your bra!


Un amico appassionato d’arte cerava di descrivermi in che modo si fosse sentito offeso dalla violenza con cui era stato accolto dalle opere messe in mostra da un collettivo di artiste femministe.

“Mi hanno fatto vergognare di essere uomo. Mi hanno farcito di sensi di colpa. E a me non sembra di aver mai trattato una donna a pesci in faccia, casomai il contrario”.

Voleva sapere se anch’io, che vengo da Venere come le autrici di queste opere fortemente provocatorie , mi fossi mai sentita in qualche modo discriminata in quanto donna che lotta per la sopravvivenza in una società tipicamente maschilista.

Ci ho pensato, mentre passavo il gessetto sulla punta della stecca. Ho temporeggiato per far salire la suspense mentre rompevo le biglie e solo dopo essermi scusata per aver mandato la nera in buca per prima, ho smesso di atteggiarmi e ho risposto: “No, perché?”.

Forse non sono la persona giusta a cui chiederlo: la divisione maschi e femmine è qualcosa che per me risale alle elementari, quando mi sono accorta di avere un debole per il rosa e nessuna inclinazione a prendere a calci un pallone. Preistoria. Negli ultimi 20 anni non ho cambiato idea sul calcio, ma il rosa è sparito dal mio guardaroba, così come la lotta aperta ai maschi dalla mia agenda.

Ho frequentato le stesse scuole e fatto gli stessi lavori dei miei colleghi, meritandomi gli stessi voti e lo stesso stipendio. Mi è capitato spesso –e l’ho sempre considerato un privilegio- di passare serate senza rappresentanti del gentil sesso a farmi da spalla. E nessuno mi ha mai offerto da bere solo perché ero l’unica donna al tavolo.

Se non è emancipazione questa, su cosa berciano ancora le femministe? Se la galanteria puzza di vecchio e l’uomo non ti apre più la portiera della macchina, è in parte colpa loro. Il percorso partito dal diritto al voto e approdato all’aborto, passando dalla pillola al divorzio, ha raggiunto il traguardo.

Che si preoccupino di quelle donne costrette a camminare tre passi dietro al proprio uomo, mute e silenziose, nascoste da un telo nero come qualcosa da tener nascosto perché motivo di vergogna e non, come dovrebbe essere, per garantire protezione. Loro non possono bruciare reggiseni e reclamare a gran voce l’emancipazione, se non vogliono finire lapidate.

Non ho mai intimidito gli uomini facendo leva sulla mia femminilità, non la ritengo una strategia vincente. Penso sia il lavoro di squadra quello che porta i risultati migliori, e non mi piace scendere a compromessi.

È solo quando smetti di comportarti come se ce l’avessi solo tu,che l’uomo smette di considerarti semplicemente scopabile su una scala da “manco se ne dipendesse il futuro dell’umanità” a “anche se succedesse fra 50 anni”. “Oltre alle gambe c’è di più”, insegna Sabrina Salerno. Pari opportunità garantite.

Quando mi sono cresciute le tette, i miei compagni di classe non hanno fatto una piega; non hanno cominciato a guardarmi in modo diverso, probabilmente perché ho scelto di non sbattergli le suddette in faccia per fargliele notare.
Già allora ne sottovalutavo il potenziale.

Prendete l’”Effetto Lolita”: tutti abbiamo avuto una compagna che appoggiava i gomiti sulla cattedra e le tette sul registro per discutere con il professore di un voto a suo avviso ingiustificatamente basso. Bastava farla annusare, valeva la pena provarci, e funzionava 7 volte su 10. Quella ragazzetta aveva già capito tutto. Chapeu. E questa tecnica, affinata e perfezionata può portare alla promozione anche in campo professionale.

Se sei donna, hai un corpo con tutti gli attributi al posto giusto, una soglia di imbarazzo elevata e un concetto vago di dignità, puoi tenere il cervello in formalina sul comodino e aprirti un sacco di porte con quello che ha in mezzo alle gambe.
Se non è emancipazione questa, fare leva sulla debolezza degli uomini per ottenere tutto e subito… il bunga bunga è un buon esempio: gli unici ingredienti sono donne arriviste, spietate e uomini incredibilmente stupidi, annebbiati dal testosterone. Una ricetta semplice.

Personalmente non mi sento chiamata in causa quando si parla dello sfruttamento del corpo femminile. Lo sfruttamento, in questo caso e in tv, è su base volontaria: nessuno ha obbligato queste giovani donne a fare qualsiasi cosa abbiano o non abbiano fatto ai nostri politici in camera da letto. E se non fosse stato per queste strappone capricciose che non hanno ottenuto quello che gli era stato promesso, non saremmo mai venuti a conoscenza delle preferenze sessuali di anziani dipendenti da Viagra. Peccato, eh?

L’unica cosa che mi accomuna a questo manipolo di arriviste sono i cromosomi.

Leggere che il nostro presidente del consiglio paga delle donne per fare sesso è stato sconvolgente come leggere che sempre il nostro presidente è un narciso con manie di grandezza. Non l’avrei mai detto. Suggerisco meno spionaggio stile Wikileaks e più buonsenso, se vogliamo davvero fare chiarezza in questo troiaio.

Sunday, 6 February 2011

Astronauti e ballerine


Non so più cosa rispondere al qualcuno che mi chiede come sto.

Se quel qualcuno affittasse la mia vita e vi ci trasferisse per un paio di giorni si chiederebbe come faccio a mantenere un aplomb squisitamente british e a essere piú preoccupata di organizzarmi il weekend che il futuro.

Se quel qualcuno si lasciasse facilmente prendere dallo sconforto si butterebbe da un ponte ancora prima di chiederselo.

Eh, cosa sarà mai... Volete un prospetto più accurato della situazione? Accontentati.
Sul piano professionale sto per perdere il mio terzo lavoro in tre anni - e non per demeriti miei, ci tengo a precisare -, la mia vita sentimentale è spensierata come pezzo dei Joy Division, vivo in un paese in cui il cielo é grigio 50 settimane su 52 e la gente parla una lingua oscura, arcaica e inaccessibile, nonostante gli sforzi.
Beh, almeno c'e la salute.

Le congiunzioni astrali sfavorevoli stanno trasformando un’ottimista patologica in una cinica cronica. Peccato.

Quando ero a casa per Natale, la mutti, dopo aver ripetutamente sottolineato che “a stare troppo al computer si diventa scemi” mi si è seduta di fianco, ha aspettato che spostassi lo sguardo dallo schermo a lei e guardandomi dritto negli occhi come a perlustrarmi l’anima mi ha chiesto “ma tu, in fondo, cos'é che vuoi fare?” Sapevo che quella del videogame tester non se l’era bevuta, non sono riuscita a convincere nemmeno la sottoscritta...

Non so che lavoro voglio: mi appassiono a tante, troppe cose, ma non riesco a appassionarmi al lavoro in sé. Forse perché non mi è mai stata offerta la possibilità di mettermi in gioco, di scoprire se c'é qualcosa che so fare bene, meglio di qualcun altro. Sono stufa di eseguire istruzioni.

Voglio continuare a buttarmi in esperienze sempre nuove e a prima vista slegate tra loro, ma più il tempo passa, più la lista si accorcia. Il treno degli astronauti e delle ballerine l’ho perso da un pezzo.

E ne sono passati di anni da quando, fresca di laurea, immaginavo il lavoro dei miei sogni. Volevo un lavoro creativo, perché suonava bene, profumava di brunch, casual Fridays, brainstorming e libertà. Peccato i vent’anni di ritardo sull’epoca d’oro dei copywriter, il tracollo economico su scala mondiale, il global warming e i tonni sterminati per rifornire di tekkamaki i nastri trasportatori del running sushi.

E se il battito d’ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo, non vedo perché io non possa incolpare il buco dell’ozono delle mie alterne fortune in campo lavorativo.

Riconosco di non avere un particolare talento, e meno male, altrimenti mi starei mangiando le mani per non averlo sviluppato finora. Ma ho delle qualità: sono curiosa, sono sveglia e sono socialmente compatibile alla maggioranza dato che mi faccio i fatti miei, saluto con il sorriso, cerco di limitare le critiche e quando finisce il caffè ne faccio di fresco.

Non so che lavoro mi inventerò questa volta, ma sto cercando un’esperienza che mi permetta di raccontare storie. Storie diverse, con mezzi diversi. Mezzi come la televisione, internet, i videogame, la musica, ambienti che mi sono più familiari, ma anche la moda, i viaggi, la fotografia, passioni che vorrei diventassero quotidianità.

L’unica cosa certa è che continuerò a non programmare più in là del dopodomani, perché ho capito fare piani rende le cose più facili solo al destino, indicandogli dove soffiare per buttar giù i nostri castelli di carte.

Confiderò nel mio impegno per trasformare i castelli che progetto in aria in castelli di carte. Speriamo che stavolta faccia una comparsata pure una buona dose di culo.

Sunday, 30 January 2011

Balliamo un altro mese


Non ricordo a cosa stessi pensando in quel preciso momento: ipnotizzata dal rumore dell’aspirapolvere, cercavo di creare dei pattern tra le piastrelle, di costruire uno schema, eseguendo movimenti misurati e regolari.
Ero lì tutta intenta che aspiravo, assorta nella ricerca del percorso perfetto per la caccia all’ultimo capello, quando vengo bruscamente risvegliata da una mano che mi si posa sulla spalla. É la ragazza del mio coinquilino, e mi sta parlando, ma non la capisco: provo a spegnere l’aspirapolvere e lei prova a ripetere la frase, che é in tedesco, sicché non capisco comunque. Mi viene incontro il linguaggio del corpo: lei vuole restare in bagno, ma senza di me. E allora chiedo scusa, stacco l’aspirapolvere e lascio la stanza.

Solo quando lei mi chiude la porta in faccia capisco che una semplice necessità fisiologica sua ha rovinato il mio momento settimanale di meditazione.
Deve essere stata una necessità impellente, se non poteva essere supervisionata per un paio di minuti extra che mi sarebbero bastati a finire di pulire il bagno. Bagno che tu, mia cara principessa sul pisello, usi 4 giorni su 7, senza preoccuparti minimamente di pulirlo né almeno di rifornire la carta igienica che usi a metri quando ti togli la seconda faccia che ti disegni la mattina con fondotinta e mascara.
Scusa per essermi permessa di farti un favore. No, la giustifica vale solo in caso emergenza e comunque la nota te la becchi lo stesso perché in tutto questo le paroline magiche “per favore” e “grazie” io non le ho sentite.

Forse il tuo ragazzo non te l’ha spiegato, o forse non l’ha capito nemmeno lui, ma io non sono la donna delle pulizie. Se lo fossi, avrei installato i tornelli davanti alla porta del bagno, così, a 50 centesimi a pisciata, almeno mi ci pagavo il caffè.

Fammi capire... sono l’unica stronza che per paura di prendere qualche brutta malattia quando serve si infila dei guanti di gomma e da’ una pulita e voi, che vivete nello stesso appartamento, lo date per scontato, come se fosse scritto sul contratto d’affitto.

Ieri ero in giro a farmi una sportina di fatti miei quando ricevo un sms che mi ha fatto cambiare colore. Il mio coinquilino scrive:
“Hey! I just arrived and I noticed there is not toilet paper left. Will u cross a supermarket on your way?”

Fase 1: il fastidio

“Ho fatto 10 rotoli, lascio? E di fettine di culo tagliate sottili sottili, quante ne vuole?”

Fase 2: il pentimento

Perché mi viene chiesto un favore e io prima cosa divento verde come Lou Ferrigno in Hulk?
Forse perché io chiedo un favore quando ho davvero bisogno d’aiuto. E anche in questo caso, la conclamata emergenza poteva rientrare senza il mio intervento.

Quando mi scrivi: “Ehi, mi sono accorto che non abbiamo più carta igienica”, a me suona da presa per il culo. Sono 3 giorni che siamo sull’ultimo rotolo, pensavo fosse un avvertimento abbastanza chiaro. Indovina chi ha comprato l’ultima confezione? No, tu l’hai comprata a novembre. Eh sì, il tempo vola davvero…

E quando mi scrivi “Già che sei in giro, se incroci un supermercato…” io capisco, ma non é che i rotoli di carta igienica mi vengono incontro per strada e io li accompagno a casa... devo raggiungere un supermercato, perdermi fra le corsie e fare la coda in cassa. 10 minuti del mio tempo libero a coprire la tua pigrizia. Perché quello è... quando sono rientrata con l’agognato bottino ti ho trovato seduto sul tuo pesante culo, tutto intento a aggiornare il profilo di facebook mentre ti rollavi una canna. Sono sicura che se avessi finito le cartine saresti sceso di corsa a prenderle…

E lo so che te ne sei accorto che ero verde. Non posso farci niente. Dirmi “you’re awesome” non risolve la situazione. Non cerco la tua approvazione. E poi, se basta tanto poco, puoi essere awesome anche tu. Superawesome.

Per evitare di risponderti male, mi sono rifugiata in cucina, dove mi sono accorta che nonostante accurate spiegazioni e un dispiegamento di contenitori, la raccolta differenziata non ha ancora preso piede: una baguette morta di vecchiaia NON riposa in pace insieme alla carta e il posacenere NON si svuota nella plastica.

E se ti affacci alla porta e mi chiedi “Is everything all right?” come se portare giù la spazzatura fosse sintomo di disturbo mentale… allora abbiamo un po’ di lavoro da fare, io, te e quell’altro, se vogliamo continuare a sopportarci nel nostro microcosmo da 80 metri quadri.

Concludo la sbrodolata incazzosa in leggerezza, con un balletto improvvisato in corridoio, sulle note di Bugo, il casalingo per antonomasia.

dimentica le offese
spegni le luci accese
se tu paghi le spese
balliamo un altro mese


titoli di coda su musica che sfuma

e arrivederci alla prossima puntata

Sunday, 16 January 2011

viva viva la movida!


Ogni tanto, durante la pausa pranzo, parte il gioco del “ce l’ho più lungo io”. Vince chi le spara più grosse, con creatività e senza ritegno. La rosa degli argomenti che bene si prestano è abbastanza limitata, ma un evergreen resta il consumo di alcool. Io solitamente non prendo parte a questi campionati della panzana (squalificato chi esordisce con “una volta, un mio amico blablabla”); alla motivazione pratica –in pausa pranzo io mangio– si accompagna quella tecnica –in quasi 30 anni di tranquilla esistenza non ho vissuto esperienze che qualcuno troverebbe interessanti sotto forma di racconto–.

L'ultima volta, proprio sullo scadere del tempo (un match di solito dura mezz’ora, in concomitanza con la pausa pranzo) uno dei partecipanti, preso da slancio agonistico, ha cominciato a rilanciare su qualsiasi storia: era in stato di grazia e nessuna situazione, nessuna gradazione, nessuna disavventura poteva paragonarsi a quello a cui lui è più volte sopravvissuto. Se qualcuno avesse tentato un colpo basso, ammettendo “una volta sono finito in coma etilico” sono sicura che non si sarebbe lasciato impressionare e avrebbe probabilmente risposto che ci era passato anche lui, solo che lui era morto.

Sabato sera vengo invitata a una festa casalinga organizzata dall’ambasciata spagnola in Francoforte. E prima ancora di arrivarci, so già come andrà a finire.
Il piano è quello di andare a ballare, perché come vuole lo stereotipo gli spagnoli devono “Irse de fiesta. Siempre” anche quando non ne hanno voglia. Il piano può essere attuato con calma, comunque. E con calma si fanno le 3 e mezza, dopo un paio di videogame zombie-oriented, cervecite come se piovessero, 5 giri di “uno shot e poi si va” e mezza dozzina di “rollo l’ultima che stiamo per uscire”.

Le 3 e mezza sono quell’orario in cui in Spagna la gente va a ballare, mentre a Francoforte, dove la movida non l’hanno ancora inventata e le attività ricreative sono su un fuso orario diverso rispetto al Mediterraneo, le 3 e mezza sono l’ora in cui i DJ sfoderano la mixtape dei pezzi svuotapista e aspettano pazienti che gli ultimi zombie –quelli veri– trovino l’uscita.

E proprio mentre sto per raccogliere le mie cose e incamminarmi in direzione letto, assisto a un’inaspettata amichevole di “ce l’ho più lungo io” tra il padrone di casa e quel mio collega di cui ho tessuto le lodi poc’anzi. Oggetto del contendere, gli stupefacenti, e se avete capito le regole del gioco, potete immaginare come i 2 sostenessero di aver fumato, sniffato, ingerito e iniettatosi qualsiasi eccitante, allucinogeno, o sostanza psicoattiva di origine naturale, chimica o extraterrestre.

Conclusasi in parità questa disputa di riscaldamento, la sfida diventa determinare chi fra i due sia il clubber più assiduo. L’iPad viene preso d’assalto e mentre YouTube regala perle di technopop anni ’90, complice anche l’applicazione strobo per iPhone (per la gioia di Steve Jobs) quei 4 metri quadri che separano il divano dalla la televisione diventano il dancefloor dove dimenarsi sulle note di una canzone dal testo memorabile

“Cuatro ruedas tiene mi coche
Cuatro pastillas me tomo esta noche”


Non so voi, ma io me ne sto andando a casa.