Friday, 15 October 2010

Tales from the lost property office


Questa settimana ho perso il cellulare. A 10 giorni dal trasloco, dopo aver dato il mio numero a mezza Francoforte per consegne e sopralluoghi. Tempismo perfetto.

Mi sono accorta di non avere più il telefono addosso troppo tardi, una volta arrivata a casa; assalita da uno strano presentimento mentre giravo la chiave nella toppa, mi sono rivoltata le tasche e ho rovesciato il contenuto della borsa sul pavimento: il presentimento si è trasformato in fulminea incazzatura seguita da immediato sconforto.

Ho provato subito a chiamare il mio telefono: ha suonato a lungo a vuoto e me lo sono immaginato nella sala del cinema dove sedevo solo 20 minuti prima, vibrante ma silenzioso nel tentativo disperato di far notare il suo piccolo display nascosto da file di poltrone immerse nell’oscurità.

Ho ristretto il campo delle ricerche a 2 zone: il cinema e la stazione della metropolitana dove ho saltato tra le porte dell’ultimo treno che poteva portarmi a casa.

Mi sono presentata al cinema il mattino successivo, e ho interrogato il personale dell’impresa di pulizie. Nessun ritrovamento segnalato. “Ok, ma posso portarvi esattamente dove ero seduta ieri sera”; appena ho pronunciato il numero della sala, i miei 2 interlocutori si sono guardati e hanno scosso la testa, come se gli avessi appena comunicato che il mio cellulare era stato inghiottito da un buco nero e trasformato in antimateria. “Va bene, torno più tardi, magari salta fuori”. E così ho fatto replicando la scena nel pomeriggio con una fila di cassiere che mi hanno risposto con un’alzata di spalle.

Nel frattempo, a 16 ore dall’ultimo avvistamento, il mio cellulare risultava ormai non raggiungibile. “Si sarà scaricato”, ho pensato, non rassegnandomi all’idea che qualcuno avesse veramente voluto tenersi un Nokia da 20 euro con 3 euro di traffico, pieno di contatti -miei- e di arguti sms -destinati a me- che non ho mai il cuore di cancellare, e che ora non potrò più rileggere quando ho voglia di strapparmi un sorriso.

Chiunque tu sia, nuovo illegittimo proprietario del mio telefono, mi auguro che ne avessi veramente bisogno perché non si può certo dire che tu abbia fatto un affare.

Ci ho creduto fino all’ultimo. Sono stata 2 volte anche all’ufficio oggetti smarriti dei trasporti pubblici, con la convinzione che qualche buonanima di passaggio l’avesse raccolto e consegnato. Niente da fare. C’erano però 3 iPhone, a testimonianza che di gente onesta ne esiste ancora, nonostante tutto.

Mi rivolgo ancora a te, ladruncolo da strapazzo, perché questo è quello che sei: non hai attenuanti; il mio telefono era acceso, e pieno di numeri che rispondono al nome dei miei amici. Se, preso dallo scrupolo che consegnare il mio cellulare alla cassa del cinema o al personale della metropolitana significasse regalarlo a loro, potevi facilmente risalire a me, e, giocando a fare il detective, risolvere il caso; in cambio saresti stato investito dal mio entusiasmo nell’apprendere la bella notizia, che non ogni lasciata è persa.

Ti avrei offerto almeno un caffè, se ti fossi presentato con quello che io distrattamente ho perso e tu ti sei egoisticamente tenuto, e saresti stato protagonista di un post su questo blog, l’eroe di una storia piccola, ma talmente bella da risultare inverosimile.

Tuesday, 7 September 2010

Cappadocia dreamin’


È arrivato il momento della resa dei conti: sposto il vassoio, pulisco sommariamente le dita che hanno cercato di rivitalizzare delle patatine fritte con degli impacchi di ketchup, e apro sul tavolo del Burger King il quaderno su cui ho annotato con la precisione di un ragioniere tutte le uscite –giustificate e meno- della vacanza.

C’è tensione nell’aria, la stessa tensione che si respira nelle fasi conclusive di una puntata di “OK, il prezzo è giusto”. Il tasso di cambio e gli svariati metodi di pagamento utilizzati – Questo lo pago con la carta / Questo me lo anticipi tu? / Faccio un bancomat e mi dai i contanti / Come stiamo messi a cassa comune? / E offrimelo, un gelato! - hanno reso vano qualsiasi tentativo di tracking delle finanze.

Una cosa sola è certa: una vacanza, e un viaggio, non andrebbero mai misurati in numeri. Si può fare, ma a costo di inquinarne il ricordo.

Per me e il mio compagno di viaggio, ad esempio, 17 giorni in giro per la Turchia possono essere riassunti in una sterile anche se interessante lista:

• 4 viaggi in pullman, per un totale di 28 ore e più di 2000 sobbalzanti chilometri.

• Almeno 200 chilometri in motorino, per toccare i 4 angoli della Cappadocia e raggiungere le spiagge più inaccessibili.

• 15 kebab, di ogni forma, con qualsiasi condimento ma di un’unica dimensione: killer.

• 8 stanze d’albergo, di cui 3 nello stesso, in cui ci siamo ritrovati a riempire i buchi di altre prenotazioni.

• 486 fotografie, numero imbarazzante ridotto drasticamente dopo attenta selezione e una pioggia di fotocomposizioni.

• 17 gradi di escursione termica tra Istanbul e Francoforte dove abbiamo trovato ad accoglierci una pioggerellina che sembrava dire “se non ve me siete accorti, sono finite le vacanze”.

• 2 ½ le ore di ritardo totalizzate dall’aereo che doveva portarci a Istanbul. Ritardo che ci ha fatto perdere il volo per Francoforte obbligandoci a una permanenza forzata in aeroporto che ha sfiorato le 18 ore.

E sono numeri anche quelli che campeggiano a fondo pagina sul mio quaderno, e sembrano numeri grossi. Ma le addizioni sono piuttosto semplici, e il risultato, anche grazie alla calcolatrice del cellulare, è corretto.

I numeri, al Burger King dell’aeroporto di Sabiha Gökçen, parlano chiaro.

Abbiamo speso oltre ogni aspettativa, forse perché abbiamo speso sempre senza pensarci 2 volte. Sarà stata anche colpa del cambio euro-lira turca a 1,90, che dava l’impressione che tutto costasse la metà per poi dare il colpo di grazia del 10% sul totale.

Grazie al cielo non saranno i numeri quello che ricorderò della Turchia.

Sarà la gente, che spesso, non sapendo spiegarci in inglese come raggiungere un ristorante, o una via, ci portava a destinazione quasi per mano, salutandoci con un sorriso.

Sarà la luce, e i colori che creava: cieli immensi, e l’ombra delle nuvole adagiata sulle colline.

Saranno gli spazi dove lo sguardo può vagare per chilometri, senza incrociare edifici o anima viva.

Saranno i profumi e soprattutto i sapori di una squisita cucina mediterranea sporcata da tocchi orientali

Sarà il suono del gas soffiato nelle mongolfiere, unico indizio del loro silenzioso fluttuare nell’alba rosa di Goreme sulle teste di tante persone addormentate nei camini delle fate. Come meduse giganti.

Sarà il senso di gratitudine che provo ogni volta che vengo investita dalla bellezza, in tutte le sue forme.

Andate in Turchia, prima che diventi trendy, prima che comincino a aprire discoteche con i divani bianchi e musica lounge sulla spiaggia. Prima che diventi semplice, scontata, la brutta copia di qualsiasi altro paese che si affaccia sul Mediterraneo. E armatevi di pazienza, perché anche se sconfinerete in Asia avrete l’impressione di non essere mai stati tanto a sud a livello di ritmi e di organizzazione.

Thursday, 6 May 2010

Flohmarkt adventures


E sono al mercato delle pulci. Dietro a un banco. Che propriamente è uno stand di un metro di larghezza e un metro e trenta di altezza che sovrasto mentre cerco di nascondermi dietro ai vestiti che ci ho appeso. I miei vicini sono l’immancabile pusher di cd e vinili –freddo, professionale, chiuso nel suo silenzio e nel suo giubbino di jeans- e un cinese che vende gioielli di plastica e che si è scocciato non poco quando sono riuscita a spiegargli, mimando il gesto “solleva il tuo tavolino e spostalo di mezzo metro” che stava abusivamente occupando il mio posto.

Non mi piace affidarmi agli stereotipi, ma se prendiamo le bancarelle come un modello in scala dei mercati internazionali io faccio la figura dell’Europa sull’orlo della bancarotta in costante lotta per la sopravvivenza contro il dragone . C’è poco da fare, i cinesi sono progettati per vendere: il mio vicino non parla una parola di tedesco, i prezzi li mostra sul display della calcolatrice, eppure in mezz’ora è riuscito a raggirare tre pensionate che dopo le contrattazioni d’ordinanza hanno lasciato il campo contente di portarsi a casa una collana di corallo per 8 euro. Corallo, certo.

Non sono nemmeno le 10. Ho bisogno di un caffè. È sabato mattina, ma la sveglia è suonata lo stesso. Nessuno si ferma a curiosare alla mia postazione: a quest’ora pattugliano i clienti professionisti, quelli che hanno fiuto per gli affari e vogliono aggiudicarsi i prezzi migliori prima della ressa e dei turisti. Non sono i miei potenziali clienti, come io non sono la loro potenziale venditrice: gli aficionados del mercato mi etichettano come nuova arrivata e mi lanciano sguardi a metà tra curiosità e sfida.

Lasciatemi giocare! Sono italiana e vendo vestiti rigorosamente handmade. Sorrido a tutte le giapponesi che mi capitano a tiro: loro fra tutti possono apprezzare del genuino italian style, a maggior ragione se è venduto “un tanto al chilo”.
Tengo d’occhio anche le fashion victim, quelle che d’annata apprezzano non solo il vino ma il Valentino, quelle che mixano lana e chiffon, quelle che il customizing l’hanno inventato loro. Quelle che sfogliando la mia minima collezione mi dicono “ma quanti colori!” con una leggera nota di disgusto.

Tu, liceale frangettata alternativa che hai lasciato 80 euro alle casse durante la tua ultima incursione da H&M –non ho tirato a indovinare, ho appena fatto la somma dei prezzi dei capi che indossi- non ti sembra fuori luogo guardarmi come se ti stessi chiedendo un rene invece che 15 miseri euro per un pezzo unico, ricamato con le mie manine?

Sì, va bene, te lo lascio a 10. Siamo al mercato, non devo stornare l’iva… Lo sconto te lo faccio alla faccia della tua bella faccia come il culo che mi ricorda tanto la mia quando mi trovo dall’altra parte di questa barricata multicolore.

Per un’assidua frequentatrice di mercati e mercatini quale sono e dopo anni di pattugliamenti all’attivo, trovarsi dietro a un banco è straniante: per la prima volta, quello che scorre davanti agli occhi non è tutto quello che potrebbe tornare a casa con te, ma tutti quei potenziali acquirenti a cui affidare-leggi rifilare- tutto quello che a casa ormai prende solo polvere.

Ma il cliente, si sa, è una preda difficile da catturare. Bisogna coglierlo di sorpresa, e quando è più vulnerabile, come un leone che si attacca allo stinco di una gazzella quando questa va a abbeverarsi allo stagno. Silent but lethal. Ecco perché quando qualcuno si avvicina al mio stand lo lascio acclimatare distogliendo lo sguardo e fingendomi “in altre faccende affaccendata”. Solo quando, una volta tornata in posizione, vedo che l’interesse non è calato e che anzi le mani sfogliano gli appendiabiti, passo all’attacco: utilizzando un curioso mix di inglese e tedesco e brandendo una maglietta a mo’ di esempio spiego che ogni pezzo che presento è unico e nasce dalla collaborazione tra me e la mutti (la più classica delle mamme italiane). E ‘stica…

I più sgamati riescono a fermarmi prima che li obblighi a provarsi un vestito in mezzo alla strada: mi zittiscono con un commento positivo e si allontanano indisturbati sotto il sorriso ebete che sfoggio mentre registro il complimento.
Sono le 2 del pomeriggio; di gente ce n’è ancora parecchia in giro, ma è ora che cominci a smontare.

Bilancio del mio primo giorno di mercato? Positivo: per tornare alla metafora economica, non ho incrementato un grosso margine di profitto ma sono riuscita a non intaccare il capitale.

È su che capitale pensate si basi un business come il mio, che sta tutto dentro a un trolley?

Tuesday, 6 April 2010

Maledetta primavera

Rieccoci. Cosa dite? È 4 mesi che aspettate mie notizie?
Ci siamo lasciati prima di Natale e ci ritroviamo sotto Pasqua?

Ecco perché stamattina quando sono uscita dalla tana non ho trovato mezzo metro di neve ma un timido sole e un paio di ranuncoli da sgranocchiare.

Periodo strano quello del letargo... si cerca di tagliar fuori tutto quello che fa rumore, quello che fa paura, quello che non si capisce e ci si concentra sul proprio spazio vitale: si fa un po’ di ordine, quel poco che basta per rendere la tana accogliente, poi ci si accoccola e ci si prepara a una nuova primavera che prima o poi arriva sempre.

In questi mesi la mia produttività ha sfiorato lo zero ma ho lo stesso l’impressione di essere riuscita a fare un sacco di cose:
C’è stata una scappata a Berlino, che ho già voglia di riprendere, l’assestamento in una quotidianità nuova con un'altra persona, tanti film visti, ma soprattutto in queste ultime settimane ho fatto il pieno di facce: facce amiche che ho rivisto con gioia, facce conosciute presentate sotto una luce diversa e tante facce nuove. E ogni faccia si portava dietro la sua storia che ho sentito raccontare dalla voce dei protagonisti.

Diciamo che ho impostato la mia vita su Shuffle e ho preso tutto come veniva, senza cercare di incasellarlo in qualche schema. Ho navigato a vista alla scoperta di nuovi lidi. Sarebbe bello perdersi come Colombo e scoprire l’America.

Io la mia America non l’ho ancora trovata, ho sempre la valigia di cartone mezza disfatta sotto al letto che si chiederà quando verrà riempita la prossima volta, però ho trovato un approdo, ho attraccato e voglio avventurarmi sulla terraferma.

No, non mi hanno preso all’isola dei famosi –in veste di non famosa-. Tutto quest’estro letterario, questa iperbole pretenziosa era solo per annunciare che –squillo di trombe- ho trovato lavoro.

Un lavoro normale che si colloca, come ci insegnavano alle elementari, nel settore del terziario.
Un lavoro vero che prevede un contratto, un’azienda con il proprio organigramma, un edificio atto allo svolgimento dell’attività lavorativa, una scrivania in dotazione con un computer appoggiato sopra (sennò che terziario è?), caffè a volontà, badge per entrata-uscita-pausa-vadosoloafarepipì e 24 giorni di ferie all’anno –solo? Sì, ma pagate-.

Per la gioia di mamma e papà, dal lunedì al venerdì non mi annoio più. Perché gioco con i videogame tutta la settimana !

Sì, faccio parte di quell’esercito di tester che può aiutare il successo di un videogioco che viene lanciato sul mercato, scovando difetti e proponendo migliorie.

Beeelloooo… Ma cosa faccio “nello specifico?”… Un paio d’esempi:

Due settimane fa guidavo un omino in un bosco, e quando proprio mi annoiavo lo facevo lottare contro un ratto, il famigerato re dei ratti, stormi di pipistrelli ma anche contro altri omini che si trovavano loro malgrado nei paraggi. Con i punti guadagnati da sì tanto lottare ho potuto fornire al mio omino una serie di accessori quali stivali da pioggia, occhiali da sole e una cotta di maglia.

Come giocare alle Barbie, in pratica. Ma dentro a World of Warcraft.

Noia mortale. Attività cerebrale piallata allo zero, e ho rischiato più volte di schiantare la testa sulla tastiera in seguito a un attacco di narcolessia.

Settimana scorsa invece guidavo una macchinina –malissimo- su diversi circuiti. Più che altro rimbalzavo contro i muretti, e non riuscivo a ingranare la retro, ma non si può pretendere troppo, resto sempre una donna al volante. E poi il mio producer mi ha fatto capire che avere una persona diversamente abile nell’approccio ai videogame –piacere, Claudia- aiuta a capire quando un gioco è davvero troppo semplice.

Sono la dummy dei videogames for dummies, unità di misura dell’inettitudine al gioco elettronico.

Penso che riuscirei a difendermi bene solo se riproponessero “Gira la moda” per la Wii. Quel gioco mi ha insegnato tanto. Così, anche se non conosco ancora le sorprese che questa settimana ha in serbo per me, comincio a pregustare il dolce sapore della riscossa che, prima o poi, arriverà.

Friday, 16 October 2009

Lo zen e l'arte del babysitteraggio

Fermo immagine: un bimbo di quattro mesi se ne sta beato a pancia in su, su un materasso appoggiato sul pavimento del salotto, muove la gambette grassoccie per aria e sorride ignaro al fratello di 3 anni più grande che, salito in piedi sul divano, sta prendendo le misure per inchiodarlo al suolo come in un incontro di wrestling.
Questa scena si svolge sotto gli occhi di altre due persone presenti nella stanza: Noah, il terzo componente della nidiata, che dall’alto dei suoi 2 anni quasi compiuti vorrebbe gettarsi nella mischia, e la babysitter che riesce a immobilizzarla nel tentativo di infilarle una maglietta.

La babysitter sono io. E non ho tempo di pensare prima di agire.
Recupero Ariel in volo prima dello slam down e cerco di spiegargli che Nathan è ancora troppo piccolo per qualsiasi tipo di arte marziale.

Cosa ci fa un bebè da solo su un materasso? Cosa ci fa un materasso in salotto? Dov’è la mamma di tutte e 3 le creature? Cosa c’entro io con tutto questo?
Mentre faccio mente locale, la mamma arriva, tazza di tè fumante in mano, si appoggia allo stipite della porta, sorride alla vista del simpatico quadretto e mi dice, riferendosi al materasso “questo sarà il gioco dell’inverno, non vedi come si divertono?” ...Avessi visto come mi divertivo io, 30 secondi fa…

Avete mai lavorato con i bambini? Che espressione curiosa… i bambini, beati loro, non sono ancora tenuti a lavorare… il problema è che sono svegli almeno 12 ore al giorno e se un adulto viene pagato per passare del tempo con loro è tenuto essenzialmente a preservarne l’incolumità. Perché i bambini sono esseri indifesi che provano particolare attrazione per le missioni suicide.

La situazione che si viene a creare è questa: il datore di lavoro, solitamente il genitore, illustra alla babysitter quali saranno i suoi compiti e, con l’obiettivo di terrorizzarla, comincia a descriverle una serie di scenari agghiaccianti: incidenti domestici e non di cui il bambino è inconsapevole causa e innocente vittima. Se la babysitter risulta difficilmente impressionabile e accetta la sfida, con le congratulazioni dell’ufficio del personale, viene portata alla presenza del boss, aka “il minore”.
Inizia così un gioco perverso in cui il bambino si impegna a portare l’adulto cui è stato affidato sull’orlo dell’esaurimento nervoso mentre la babysitter si rifiuta di credere di essere comandata a bacchetta da una persona che è più nuova della sua t-shirt preferita.
Provate a inseguire un bambino che corre nudo per casa brandendo i suoi vestiti senza potere intimargli l’alt né legarlo al letto. Perché i bambini di oggi, a quanto pare, sono molto più indipendenti di quanto fossimo noi una ventina di anni fa, e non accettano né consigli né tanto meno ordini. Mai. Ci sono giornate in cui Noah, che ha un vocabolario di 15 parole ma sa come farsi capire, riduce la nostra conversazione a una serie infinita di variazioni di “no”. Qualsiasi cosa io dica, lei risponde “no” o “nein”, in un infinita gamma di modulazioni e tonalità che toccano gli ultrasuoni quando è parecchio scocciata dalle mie assillanti richieste…
Ci vuole pazienza, una scorta inesauribile di pazienza.
Perché stare dietro a due bambini, quando sei una persona normodotata che dispone solo di un paio di occhi, un set di orecchie e due mani con pollice opponibile, è un bello sport. Uno sport estremo.
Quanto vorrei avere un telecomando e metterli in pausa, ogni tanto, o, quando si mette proprio male, puntarmelo addosso e spegnermi. Vi faccio un esempio:



Quello della babysitter è il lavoro più difficile che esista, o almeno il più difficile che io abbia provato. Perché, volente o nolente, al tuo boss ti ci affezioni, trasgredendo la regola aurea che, in cambio di relativa tranquillità, impone di non mischiare mai affari e affetti.

Stare con i bambini può essere anche piacevole: se ne avete l’occasione, osservate un bambino giocare… E pensate che anche voi, ai tempi dell’asilo eravate così: sveglissimi, con una mente brillante, un’immaginazione sconfinata e fortissime passioni. Dopo anni di logorio, qualcosa di questo bagaglio è rimasto?

Monday, 10 August 2009

Karma is what you make of it


Conoscete il simbolo incorniciato in un cerchio, sulla sinistra dell'immagine? Io questo simbolo me lo sono tatuato. Si chiama nodo infinito, ed è uno degli otto simboli di buon auspicio dell'Ashtamangala, nella tradizione buddista tibetana.
É una rappresentazione grafica del karma, inteso come grande motore regolatore dell'universo: questo intreccio in cui non si riesce a individuare né capo né coda vuole ricordare l'insondabile, insindacabile e ingestibile giustizia su cui la realtà si ricrea in continuazione.
Tutto è strettamente collegato: passato, presente e futuro si determinano e definiscono uno nell'altro, e allo stesso modo ogni azione scaturisce da una causa e porta a una serie di conseguenze.
Io mi porto in giro il karma formato fototessera perchè l'ho sempre ritenuto il mio incrollabile punto di riferimento.

Recentemente però, alla luce di una serie di spiacevoli eventi che hanno coinvolto persone a me vicine, questa fede nell'infallibilità del karma ha cominciato a vacillare. In sintesi, immeritate palate di merda hanno imbrattato i piani di persone che cercavano solo di stare a galla, mentre stronzi decorati pattinano leggiadri sulla strada del successo -lastricata d'oro-.

E a me, ottimista senza speranza e sostenitrice del lieto fine a tutti i costi, questo colpo di coda del karma come lo concepivo io -se sei una bella persona, il mondo ti sorriderà, se cerchi di fare il furbo, prima o poi qualcuno farà il furbo con te- ha instillato numerosi dubbi.

Fino ad ora generosamente ricompensata da quel karma che, in cambio di una vita nei limiti della legalità, mi ha sempre regalato salute e persone fondamentali, mi assale la paura che un giro di vento potrebbe farmi cadere da questa posizione privilegiata. La variabile sfiga, per esempio, che mi dimentico sempre di contemplare.

Per farmi coraggio, mi sono confrontata con l'uomo più zen che conosco che, guarda caso, è anche l'uomo cui mi accompagno.

Ho posto la domanda in questi termini:
“O grande saggio, posto che amici miei già parecchio incasinati hanno ricevuto delle memorabili batoste, devo io serenamente preparami ad accettare il peggio, dato che sono l'unica rimasta illesa dallo tsunami di recenti sfighe?.”
Ed ecco la risposta dell'oracolo, formulata da Piccolo Buddha mentre scolava la pasta:
“In realtà dovresti riconsiderare la tua situazione... apri gli occhi! Hai un contratto in immediata scadenza e zero proposte in campo professionale, hai dimenticato sull'aereo la tua maglia nera salva serata, e quella volta al mese che vai a trovare il tuo ragazzo, sciroppadoti un bel viaggetto da mille chilometri, lui ti lascia lì, come una bolletta chiusa sulla credenza, a aspettarlo per più di un'ora sotto casa, perchè impegnato in un'appassionante sfida di calcetto con i suoi amici... Non mi sembra che ti vada proprio di lusso, in quest'ultimo periodo!.”

Forse ha ragione lui.

Monday, 6 July 2009

Peter Pan is back to Neverland


Ci ricorderemo tutti cosa stavamo facendo quando l'abbiamo saputo. È arrivata la notizia e la storia ha trattenuto il respiro fino a quando la voce non è stata verificata.

"Non è possibile!" la reazione immediata. "Non prendermi per il culo!" la reazione ragionata.

Perché la morte di Michael Jackson, la pop star per antonomasia, l'uomo su cui generazioni di chirurghi plastici hanno realizzato l'impossibile, perfezionando la propria tecnica sulla sua pelle, un artista che è sempre vissuto all'ombra del suo personaggio, è un evento che nessuno si era prefigurato, forse nemmeno i giornalisti incaricati di stilare un coccodrillo a cui aggiungere la data di scadenza.
Troppo grande la fama di Jackson per annoverarlo tra gli esseri umani la cui sorte è decisa da leggi naturali.

Michael Jackson è nel DNA di tutti quelli nati tra gli anni '60 e gli anni '90. Nessuno sceglieva di essere fan di Jackson, perché Jackson era la pop culture ed era nell'aria, accessibile e familiare e allo stesso tempo americano come Mc Donald's.

Lo hanno ricordato tutti, dai gestori di una pizzeria di Cagliari ai più eminenti intellettuali. E ancora una volta la sua controversa figura ha spaccato l'opinione pubblica, soprattutto riguardo alle accuse di pedofilia. Accuse, ricordiamo, da cui è stato scagionato, dopo aver ricoperto d'oro sia l'esercito di avvocati che gli ha organizzato la difesa sia, sotto forma di risarcimento, le famiglie che lo accusavamo.

La mia è una visione innocentista: partendo dal presupposto che Jackson fosse completamente asessuato -come pensate avrebbe reagito il nostro Michael trovandosi la Anderson nuda nel letto?- penso che fosse interessato ai bambini perché erano forse gli unici disinteressati al suo denaro.

Non deve essere stato facile essere il bersaglio di feroci invidie. Baciato dal successo e profondamente solo, beneficiario unico di fortune accumulate che non è riuscito né ad amministrare né a godersi.

Perché, oltre che asessuato, a me Michael Jackson è sempre sembrato triste.
La sua morte mi lascia un fondo di amarezza, ma sono quasi contenta che Peter Pan sia riuscito a staccarsi l'ombra da sotto ai piedi per ritornare in volo all'isola che non c'è.

La sua morte toglie un senso a alcune vite che da lui dipendevano direttamente: i suoi sosia, il medico che lo aveva in cura, il truccatore, nonché banchieri, assicuratori e case d'aste, senza dimenticare il manager e l'unico dipendente del Mc Donald's di Neverland, il suo ranch.

Addio, Jacko.
I programmatori delle radio riusciranno a farci odiare i tuoi successi.