Gilda si rotola nella neve, con l’entusiasmo contagioso
del cucciolo alla prese con le prime volte, e io mi ritrovo a correre fra i
filari per farmi inseguire. È un cane tutto orecchie, e sembra che sorrida
sempre. Le sono grata per avermi fatto uscire di casa, nonostante il gelo. E
non mi va di rientrare subito… finché questo pallido sole regge, mi godo la mia
campagna monocromatica. Questa scenografia è così bella che si merita una
colonna sonora: accendo l’iPod e seleziono i Black Keys; c’è una canzone del
loro ultimo album che mi piacerebbe aver scritto, e che ho eletto a mantra. Quando
arriva il ritornello, “She’s the worst thing, I’ve been addicted
to”, lo canto di gusto… Se non mi
fossi liberata della mia peggiore dipendenza, probabilmente in questo momento
gli starei scrivendo per raccontargli di Gilda, della neve e della mia campagna. E invece tengo tutto per me.
Mi chiamo Claudia, ho 30 anni
e sono una codipendente emotiva. Non si dice mai ex codipendente, così come non
si dice ex alcolista, perché con l’intossicazione non si sa mai. Ma sono sobria
da 18 mesi e le fasi della dipendenza le ho vissute tutte:
·
La scoperta
Sull’interregionale che ci sta portando a Venezia, si
viaggia con i finestrini abbassati: l’aria condizionata è fuori uso, le tende
frustano l’aria e il frastuono dei binari riempie il vagone. Siamo seduti uno
di fronte all’altra, con un libro aperto sulle ginocchia. Mancano pochi giorni
agli esami del master, e Francesca ci ha invitati a casa sua per il fine
settimana; ci siamo pure ripromessi di ritagliarci un paio d’ore per un ripasso
generale… Sappiamo che non succederà, ma almeno abbiamo la coscienza a posto.
Il mio sedile è immerso nel feroce sole di luglio, e quando mi infilo gli
occhiali da sole lui mi fa: “Sai che così
assomigli un po’ a Uma Thurman?”; lo urla in effetti, per abbattere il muro
di suono che ci separa e in tutta risposta mi trovo gli occhi di tre
sconosciuti addosso, a valutare l’effettiva somiglianza. La battuta che mi
spetta: “ma che cazzo dici?” non si presenta in tempo e viene rimpiazzata da un
trasognato “davvero?”
Quella stessa sera, Venezia è il nostro parco giochi: dopo
che l’ultimo turista è salito sul vaporetto che lo riconsegnerà a Mestre e ai
suoi alberghi, lasciamo l’appartamento di Francesca e scriviamo una traiettoria
tra campi e calli che finiscono in un canale, raccogliendo facce nuove lungo la
via. Consumiamo spritz sovradimensionati cercando di asciugarli con pizze
mangiate direttamente dal cartone, seduti sui gradini di qualche chiesa, e
ripetiamo la sequenza fino a perdere il conto e il controllo. Del resto ricordo
poco, ma mi sembra di aver portato qualcuno in spalla, di aver rimpianto di non
essere maschio per non poter pisciare dal ponte di Rialto e di essere finita
schiena a terra in piazza san Marco dopo aver azzardato qualche mossa di
capoeira. Ricordo anche che durante la notte ho aperto gli occhi e lui era
disteso di fianco a me, e respirava leggero, il viso consegnato all’abbandono,
arreso al sonno senza incubi delle persone che non hanno niente da
rimproverarsi. E ho espresso il desiderio di svegliarmi altre volte al suo
fianco.
·
L’assuefazione
Quando l’ho baciato la prima volta, l’unica luce era
quella della luna. Avevamo i piedi a mollo in una piscinetta gonfiabile, nel
giardino della casa in cui sono cresciuta. La piscina era stata un’idea mia:
l’avevo installata per giustificare il tema della festa, un pool party che
faceva il verso a Hollywood, e per obbligare i miei amici a indossare il pareo
e a liberalizzare i gavettoni. Un anno più tardi ci baciavamo in piedi nella
vasca del mio appartamento, rigorosamente con i piedi in acqua. Avevamo dei
rituali, e momenti che erano solo nostri: il mercoledì mattina raggiungevamo
Milano da due città diverse, e mentre il treno rallentava per entrare in
stazione centrale, ascoltavo la nostra canzone, sapendo che lui stava facendo
lo stesso. Minuti più tardi, facevamo colazione insieme sotto alla radio con
cui collaborava. Ci tendevamo imboscate e visite a sorpresa, ci lasciavamo
biglietti nascosti nelle tasche.
E siamo stati felici, e tanto, sostenuti da quella
spensieratezza che ti fa credere che tutto sia possibile.
La nostra prima estate insieme, lui aveva insistito per
raggiungermi in Sardegna, dove facevo la stagione come cameriera: io dovevo
essere riconsegnata ogni sera alle 7; lui ogni mattina passava a prendermi in
motorino e insieme facevamo fuga, come due liceali che scappano dalla versione di latino. In
quelle due settimane senza sonno, ci siamo baciati su ogni spiaggia della
Gallura.
·
La dipendenza
Avevo bisogno di quelle massicce scariche di endorfine
generate dal nostro stare insieme.
Pensando alle circostanze in cui ci eravamo trovati, mi
ero convinta che lui fosse l’unico possibile per me, l’unica persona che
calcasse il mio universo spazio-temporale, la cui imperfezione si incastrasse
perfettamente con la mia imperfezione.
Ma stare insieme era una scommessa, da quando aveva
trovato lavoro a Francoforte e ci eravamo rassegnati alla recitare la parte dei
pendolari dell’amore.
·
La crisi da astinenza
“Sono stufo di stare qui”, aveva annunciato una sera, rientrando
dall’ufficio. Un mese più tardi stringeva fra le mani un biglietto per il giro
del mondo in otto tappe e sette mesi. E io mi ero affrettata a regalargli uno
zaino, con sommo orrore di mia sorella. Ero la sua più grande fan: capivo le
sue ragioni, ma non le sposavo quando diceva “voglio fare questa esperienza da solo, voglio mettermi alla prova”.
E così, tralasciando una breve
convivenza, da pendolare dell’amore mi sono ritrovata a farne da cronista: narravo
le sue gesta a persone che in quei racconti cercavano il mio personaggio. Per
accontentarle, ho comprato un biglietto e l’ho raggiunto in Indonesia. Una
sorpresa che aveva il sapore di un’invasione.
Era solo il nuovo capitolo di
una storia in cui l’ho seguito ovunque, a volte l’ho inseguito e il resto del
tempo l’ho aspettato.
·
Il collasso
Chiara è bellissima nell’abito bianco, e Olly inaspettatamente
spigliato in giacca e cravatta, anche se non ne ha voluto sapere di tagliarsi i
capelli. La chiesetta di campagna è stipata di amici, arrivati in gran numero
da Francoforte, dove gli sposi si sono conosciuti. È tutto semplice e autentico,
fin nel dettaglio. Se mai io… Se mai noi… Noi… Non ci vediamo da un mese e
quando arrivo, a cerimonia iniziata, lui è sull’altare, concentrato sulla
chitarra. Cerco il suo sguardo durante lo scambio degli anelli: vorrei dargli
un’altra occasione per prendermi in giro perché anche stavolta mi sono
commossa, ma lui è nascosto dietro ad un leggio. Lo sa, che mi costa rinunciare
a tutto questo, e che questo è solo l’ennesimo compromesso che ho accettato,
pur di stare con lui.
La mattina seguente, quando lascio il suo letto, mi
prende per un braccio:
“Te ne vai di già?”
“Te l’ho detto, domani vado in Liguria con la Lu e gli
altri. Tu che fai? Ci raggiungi là?”
“Non so…”
“Dai, siamo ospiti, è per fare una settimana di mare…”
“mmm… Ci penso e ti faccio sapere…”
“Certo” dico, anche se di una cosa sola sono certa: che
non mi sveglierò mai più al suo fianco.
·
Il distacco
Non posso piangere davanti
agli amici che mi hanno conosciuta come la sua ragazza, ma ho davvero bisogno
d’aiuto. Non mangio più e non dormo più, non mi riconosco più. La dottoressa che
mi visita mi lascia sfogare, mi somministra un abbraccio e mi mette alla porta
in pochi minuti: d’amore non si muore, pare, e l’unica cura efficace è il
tempo.
Quando ricevo il suo messaggio,
sono seduta in riva al Meno, in compagnia del libro di tedesco e di una birra:
sono settimane che non ci sentiamo, e adesso vuole farsi 700 chilometri per
venire a parlarmi. La sola idea mi manda nel panico. Lascio passare 24 ore e
gli rispondo: “se vuoi solo parlarmi,
possiamo sentirci per telefono”. “Perfetto!
Puoi metterti su Skype stasera?” mi scrive mezzo minuto dopo.
Questa puntata della mia vita
è sceneggiata malissimo e girata in economia. Mancano i colpi di scena e non
c’è nemmeno il lieto fine. Mi molla con una videochiamata e la spiegazione
della sua scomparsa è noiosa come il verbale dell’assemblea di condominio. “Non potevo restare con te sapendo che non
ti amavo più”, mi dice, e io non verso nemmeno una lacrima.
·
La sobrietà
Dopo mesi di sporadici contatti ci rivediamo, quasi per
caso. Quando mi abbraccia, indugia un po’ troppo prima di lasciarmi andare
mentre io resto in ascolto: niente sangue alle guance, niente battito
accelerato, niente farfalle nello stomaco. Sono solo un involucro. Cerco in lui
qualche indizio della sua vita senza di me, e mi stupisco di come non sia
cambiato nulla.
Passeggiamo nella nostra Milano, le mani nelle tasche, lo
sguardo sulle scarpe. Proprio come era
successo all’inizio. Ma questo tipo di imbarazzo ha un sapore diverso.
Ci intratteniamo in una civile
conversazione, raccontando dell’io,
chiedendo del tu e evitando accuratamente
di fare riferimento a noi. Proprio come era successo all’inizio.
Solo che all’inizio, qui a parco Sempione cercavo gli scoiattoli che si
inseguivano sui rami mentre oggi scopro dei ratti ben pasciuti che si infilano
sotto a un cespuglio.
Mi chiamo Claudia, ho 30 anni,
e sono stata una codipendente emotiva. Adesso non lo sono più, non con lui
almeno. Non riesco però a stare lontana da libri e film che parlano d’amore, e
mi illudo di farne un uso terapeutico. Per precauzione, tenetemi lontana dai
Baci Perugina.
Questa storia la conoscete già: ve l'avevo raccontata un anno fa, in un post molto simile a questo.
ReplyDeletePerdonate la mancanza di originalità e credetemi: non ve ne parlerò mai più.
è bellissima, invece. grazie per aver condiviso.
ReplyDeleteSilvia, codipendente emotiva